di Mimmo Cangiano

[Esce oggi, per Quodlibet, La nascita del modernismo italiano. Filosofie della crisi, storia e letteratura (1903-1922) di Mimmo Cangiano. Quella che segue è l’introduzione]

 

Quest’apparente disordine che in sostanza è invece l’espressione dell’ordine borghese nella sua forma più elevata.
Fëdor Dostoevskij

 

La “morte di Dio” implica il definitivo passaggio dell’orizzonte della verità nella sfera del consenso. Il crollo del sopramondo simbolico in grado di riempire di significato la contingenza delle nostre idee, azioni, parole, non conduce semplicemente all’affrancamento dai modelli verticalistici di verità, ma immanentizza tali modelli all’interno dello spazio societario, rivitalizzando la funzione-Dio come funzione di consenso. Tale funzione, diversamente da quella della divinità che voleva esprimere un’immobilità ideologica come specchio di una presunta immobilità storico-sociale, ingloba in sé (ed è, vedremo, il punto di contatto fra storicismo romantico e modernismo) l’azione trasformativa della storia, ma ha poi il compito di presentare gli stadi di questa, vale a dire il sistema delle relazioni sociali di ogni determinato momento storico, ancora come sovrastorici. I valori ideologici che ogni momento storico esprime devono sempre essere veicolati come eterni.

Il consenso, quando arriva al livello del gramsciano senso comune, ha il compito di rivestire la fase storica, cioè ancora il sistema delle relazioni sociali, con le stigmate dell’immobilità. È questa la funzione cardine di ogni ideologia borghese (e ciò che Marx definiva «il tradimento della borghesia»): non semplicemente la difesa dei valori immutabili, delle essenzialità, ma il proteggere, da un lato, quella capacità trasformativa della storia che l’ha condotta alla vittoria contro le ideologie di matrice feudale (e che permette la sua continua ristrutturazione), e il proteggere, dall’altro, l’apparente valore atemporale di ogni ristrutturazione storica, materiale come ideologica. Tale valore atemporale (l’espressione del consenso quando diventa senso comune) riarticola, di momento storico in momento storico, la disgregazione, ideologica come sociale. Tale disgregazione (che era la coscienza della borghesia come elemento altro rispetto alle ideologie aristocratiche) è espressa dalla coscienza storicista nella fase rivoluzionaria della classe borghese, quando le particolarità storiche e geografiche (tempo e luogo) sono utilizzate come strumento d’attacco verso l’immutabilità dei valori feudali, ed è espressa dalla coscienza nichilista nella fase reazionaria della stessa classe, quando la borghesia, contro il proletariato avanzante, deve disinnescare, pur preservandole, le stesse arme da lei attivate: le armi del progresso storico. Il modello verticalista e essenzialista non scompare: questo non è più individuato nei presupposti sovratemporali dei modelli platonico-cristiani, ma sorge ora dall’astrazione degli stessi punti di vista “particolari” razionalizzati sul piano del consenso. In tale fase, che è poi culturalmente la fase modernista, la borghesia necessita di riformulare teoreticamente il proprio storicismo rivoluzionario, così come necessita di riarticolare in termini di consenso la progressiva atomizzazione sociale creata dallo sviluppo del sistema capitalistico. Quella frantumazione va ora riarticolata nelle forme ideologiche di una nuova coesione: una coesione il cui scopo primario è mantenere il proletariato all’interno del sistema ideologico del suo avversario. Ecco perché il teoricamente infinito sviluppo delle “particolarità”[1] che la morte di Dio (dei modelli verticalisti e simbolici) sottende, e che in arte è anzitutto tramonto dei modelli normativi e imitativi, non è liberatoria per il soggetto: l’atemporalità del modello storico (dell’insieme delle relazioni sociali) in cui vive, si viene a sostituire alla funzione della divinità, riaggregando, forzosamente e continuamente (consenso), il disgregato.

 

Le strade che si presentano a tale scopo sono essenzialmente due, e sono le due vene principali del pensiero e della letteratura modernista. Una si volge indietro cercando, dall’immanenza, quello che Terry Eagleton ha definito «a viceroy for God»[2] (sia questo la ragione, l’arte, la nazione, la Kultur, l’etica o, ad esempio, lo spazio del tragico[3]). Tale versante (si pensi all’argine che in quegli anni la filosofia neo-kantiana provò a frapporre allo sviluppo del pensiero di matrice nietzschiana e bergsoniana[4]) considera negativamente il crollo valoriale espresso sintomaticamente dalle nuove prospettive filosofiche, e ricerca un’immobilizzazione del processo storico mediante una riattivazione di quel nucleo infranto. È una posizione paradossale e subalterna[5], perché da un lato simpatizza con elementi di pensiero di matrice chiaramente feudale (si pensi in Italia a Boine), ma dall’altro, e proprio in virtù del suo essere in qualche modo fuori-tempo, riesce a cogliere (e basti pensare a figure come Ibsen, Otto Weininger o al giovane Lukács) alcuni degli elementi che connettono la ristrutturazione ideologica alla ristrutturazione sociale, voglio dire gli elementi che connettono le nuove prospettive filosofiche a ristrutturazioni materiali, come il sistema tayloristico e la piena implementazione di un’economia fondata sul valore di scambio. In fondo Dio, la possibilità di conferire significato simbolico all’immanenza, muore proprio nel momento in cui il lavoratore non può più vedere il prodotto d’insieme del suo lavoro e si focalizza sulle sue parti, sui dettagli; allo stesso modo cadono le gerarchie valoriali e il relativismo trionfa proprio quando si realizza la possibile equivalenza valoriale delle merci, essendo queste definitivamente separate dal loro valore d’uso e rapportate all’oscillazione valoriale del denaro.

 

L’altro versante è in questi anni ancora numericamente minoritario ma ideologicamente già egemonico, e lo è perché è nei suoi termini (i termini del crollo dell’equazione fra forma e significato, fra segno e sostanza, l’attacco ad ogni oggettività, l’entrata in crisi della nozione classica di soggetto) che l’intero discorso modernista si sviluppa. Tale versante, direttamente imparentato con gli sviluppi dell’epistemologia bergsoniana, del convenzionalismo di Ernst Mach, del pragmatismo di William James, ecc., parrebbe a prima vista contraddire – incentrato com’è sui valori del movimento, della contraddizione permanente, della vita come flusso inarrestabile, della miriade di “particolarità” non assimilabili a modelli fissi – quel desiderio di staticità che abbiamo posto a caratteristica del pensiero borghese. Ma non è così, perché qui la funzione di matrice relativista (espressa o ancora nell’angoscia della verità perduta oppure già nel gioioso cinismo per la trasformazione di questa in convenzione) fa antropologico il proprio limite; non comprendendosi come fenomeno culturale di tipo storico mira a biologizzare se stesso, e così rende eterni i limiti storicamente dati di una gnoseologia di marca nichilista, reintroducendo da questo lato quel principio di atemporalità proprio mentre lo nega.

 

Ecco dunque che i due versanti condividono (e per questo il modernismo è uno) un attacco all’idea di storia come processo trasformativo dell’insieme sociale. Ma questo secondo versante è stato in grado (e si sarebbe visto chiaramente col passaggio al postmodernismo[6]) di sviluppare un’immagine di staticità proprio mediante la dichiarazione di una continua mobilità del reale, arrivando poi addirittura a porre i suoi portati (con la fine dell’egemonia marxista a sinistra) ad avanguardia della contestazione anti-borghese, interpretando quest’ultima come attacco, sul mero piano della cultura, proprio a quei modelli immutabili di verità in realtà già polverizzati dalle ideologie borghesi nella loro fase rivoluzionaria. In tal modo le ideologie suppostamente anti-borghesi hanno finito inevitabilmente per condividere i medesimi obiettivi polemici dei loro avversari, e hanno finito, di conseguenza, coll’esaltare i medesimi idoli culturali.

 

Franco Moretti ha dunque giustamente scritto:

 

 

la lettura di sinistra, e anche marxista, della letteratura modernista è sempre più nettamente sorretta da teorie interpretative – […] l’opera di Bachtin, la teoria dell’opera «aperta», il decostruzionismo – che, in un modo o nell’altro, appartengono esse stesse al Modernismo. […] trasformando una critica che era nata per criticare – o demistificare addirittura, figuriamoci – in una loquace apologetica[7].

 

 

Ecco che la recente valutazione positiva di questo versante del modernismo[8] non ha riguardato ciò che tradizionalmente di quella produzione letteraria e filosofica era stato interpretato come scopo decisivo (la capacità dell’opera d’arte di elevare a unità il caos del reale, di dare a questo forma: il cosiddetto «grande stile», ad esempio[9]), ma il caos stesso, e la mimesi di questo che l’arte produce. L’accento che le nuove teorie hanno posto sulla capacità critica, rispetto a ciò che è stata identificata come razionalità borghese, di una cultura finalizzata a rivelare come finzionali le grandi narrazioni e i loro portati e corollari[10], ha portato lo sguardo dei critici a volgersi verso quegli elementi del modernismo che avevano condiviso obiettivi similari a quelli della nuova cultura ora egemonica[11].

 

A tale problematica di carattere ideologico si è poi aggiunta quella – tutta italiana[12] – di individuare, definendone i termini, la presenza o meno del modernismo all’interno della penisola[13]. In realtà, nonostante la lunga resistenza di parte della critica all’introduzione del concetto in relazione alla produzione culturale italiana di inizio Novecento, i tentavi messi in atto per riportare quella tradizione nel dialogo, da un lato, con la coeva letteratura europea, e, dall’altro, con la grande filosofia della crisi del periodo in questione, non sono mancati già nella prima parte del secolo. Possiamo ovviamente citare i lavori di Giacomo Debenedetti all’inizio degli anni Venti o un libro come La filosofia del decadentismo (1944) di Norberto Bobbio. Allo stesso modo, nelle vicinanze del dopoguerra, alcuni critici letterari come Giuseppe Petronio, Leone De Castris e, soprattutto, Carlo Salinari – pur continuando ad utilizzare il termine “decadentismo” in luogo di modernismo[14] – hanno cominciato ad analizzare il legame fra la letteratura italiana dei primordi del secolo e l’entrata in crisi della grande filosofia sistematica di matrice platonico/hegeliana[15] (un binomio che lo stesso modernismo, come vedremo, necessita di istituire) in favore di un paradigma filosofico incentrato, da un lato, su presupposti di natura eraclitea, e, dall’altro, su di un processo di radicale soggettivizzazione della stesse prospettive filosofiche: «Cambia […] nettamente il criterio di realtà e di verità. Il paradigma dell’oggettività si sbriciola»[16]. Ho pochi dubbi, però, che il vero atto di nascita della riflessione critica sul modernismo italiano sia rappresentato da Cronache di filosofia italiana (1955) di Eugenio Garin. È qui infatti che, per la prima volta, la produzione culturale italiana di inizio Novecento viene presentata in dialogo diretto con quei nodi teoretico-epistemologici che costituiscono l’alveo d’azione della filosofia europea e americana del periodo, in connessione con quel coacervo di problematiche gnoseologiche (contrasto fra vita e forma, immagine della vita come flusso inarrestabile che rifiuta ogni ricomposizione, crisi del linguaggio e della capacità comunicativa, ecc.) che possiamo ancora porre sotto il sintagma emblematico della “morte di Dio” [17]: «[in Italia] in quel decennio che precedette la prima guerra mondiale tutti i temi che hanno traversato la tragedia europea e tutte le voci valide che l’hanno accompagnata fin qui, nel bene come nel male, risuonarono: e tutte in una cerchia ben definita»[18]. E naturalmente non è un caso che questo tipo di lavoro fu svolto dall’intellettuale che cercò di mettere in discussione il mito di una cultura italiana dominata dall’egemonia idealista. L’analisi di Garin ci fornisce indirettamente quattro punti imprescindibili: il modernismo italiano non può essere identificato semplicemente mediante riferimento alla produzione letteraria europea, troppo diverse, a cominciare dal rifiuto del romanzo, le premesse della letteratura italiana del periodo[19]; necessitiamo del riferimento a ciò che è alle spalle di entrambi i modernismi: la grande filosofia della crisi. I nomi che servono sono tutti presenti negli autori in questione: non solo i consueti Nietzsche, Bergson, James, ma appunto Mach, Boutroux, Weininger, Poincaré e altri su cui ritorneremo. Le tematiche moderniste non si limitano agli eccezionali Pirandello, Svevo, Gadda e Tozzi, ma sono diffuse nella maggior parte degli autori del periodo, sebbene, spesso, nelle forme dell’intervento saggistico invece che in quelle del prodotto artistico. La crisi modernista si presenta in primo luogo con i connotati di una crisi epistemologica riguardante la teoria della conoscenza.

 

Ad avanzare è la figura del viandante nietzschiano, «l’uomo in grado di trovare la propria gioia nel mutamento e nella transitorietà»[20], colui che riconosce nel crollo del sistema valoriale e nella trasformazione della realtà in un irricomponibile flusso i necessari step per la rivolta della vita rispetto a tutto ciò che pretende l’immobilizzazione di questa in forme definite (lo «spirito del risentimento»). Che poi il modello di riferimento di questa nuova prospettiva sia davvero Nietzsche è problema tutt’ora aperto. Vi è qui comunque da fare subito una doppia distinzione: da un lato, in ambito simbolista e decadente (in Italia si può fare il nome emblematico di D’Annunzio) Nietzsche è utilizzato in un’ottica ancora wagneriana e riportato ad alcuni elementi isolati della sua speculazione (il superuomo, il dominio sul gregge, l’antidemocraticismo, la funzione salvifica dell’arte, ecc.); in ambito già compiutamente modernista, invece, la separazione fra Nietzsche e Wagner viene come vedremo compiutamente registrata, ma Nietzsche passa ad essere preso a campione di una serie di problematiche che, benché certo parte del suo discorso, sono proditoriamente piegate – da un lato – nella direzione scettico-relativista (e poi intuizionista) della “filosofia della vita” e, dall’altro, nel convenzionalismo proprio delle teorie di Mach, di James, di Hans Vaihinger e di molti altri. Sul perché il modello convenzionalista di Mach ebbe la meglio su quello più strettamente nietzschiano ci soffermeremo nel corso dell’intero lavoro.

 

Scopo principale di questo è stato dimostrare la penetrazione in Italia delle tematiche che, nel primo Novecento, stanno caratterizzando importanti settori della letteratura e della filosofia europea e americana. Oltre ad aver dato considerazione ad un gran numero di lavori sul modernismo pubblicati in lingua inglese, la mia ricerca include un’estesa analisi della critica italiana sulla cultura del periodo, nella certezza che guardando ad essa attraverso il concetto di modernismo, e puntualizzando le relazioni spesso esplicite con i più ampi dibattiti europei e americani, sia possibile dissipare il vecchio mito critico riguardante l’isolamento e l’arretratezza della cultura italiana del tempo. Se da un lato il volume si inserisce dunque nella recente tradizione critica volta a identificare l’esistenza di un modernismo italiano (Somigli e Moroni: 2004; Castellana: 2009; Luperini, Tortora e Donnarumma: 2012; Pellini: 2016), e dall’altro guarda a quella prospettiva teorica tesa a evidenziare il legame fra la letteratura del periodo e la crisi filosofica di matrice nietzschiano-bergsoniana, se ne differenzia poi anzitutto per tre ragioni. In primo luogo non si tratta di un libro di critica letteraria né di un volume teorico: La nascita del modernismo italiano non è un libro di storia delle idee, ma un volume dedicato alla storia degli intellettuali italiani. L’emersione delle tematiche moderniste negli autori trattati non viene cioè analizzata separatamente dall’insieme delle tematiche canoniche a questi collegate, né dalle posizioni dagli stessi intellettuali progressivamente assunte (culturalmente come politicamente) dall’inizio dell’età giolittiana all’avvento del fascismo. L’apparizione dei temi modernisti serve invece proprio a chiarificare le scelte di questi intellettuali tanto in campo culturale come politico, permettendo una lettura dialettica delle stesse analisi finora dedicate a questi autori. Determinati approdi critici quali, ad esempio, lo strano connubio di atteggiamento rivoluzionario in campo culturale e conservatorismo politico in autori quali Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, la complicata distinzione fra “irrazionalismo fiorentino” e “moralismo vociano”, l’esistenza di un espressionismo letterario in Italia, la trasformazione della poetica di Ardengo Soffici fra esperienza avanguardista e primo fascismo, l’involuzione reazionaria di scrittori quali Scipio Slataper, ma anche la complessa collocazione di un romanzo quale I vecchi e i giovani di Pirandello, trovano chiarificazione attraverso la messa in relazione con il fenomeno modernista.

 

In secondo luogo, seppur gli autori italiani più facilmente assimilabili alla temperie modernista (i già citati Svevo, Tozzi, Gadda) siano certo presenti nel volume, questo non è a loro dedicato. La nascita del modernismo italiano è, come da titolo, dedicato al formarsi di quel dibattito culturale all’interno del quale i temi modernisti fecero la loro apparizione e si socializzarono. E sebbene questi temi vengano anche ricercati all’interno delle opere più direttamente letterarie della generazione degli anni Ottanta (Un uomo finito, Arlecchino, Il Codice di Perelà, Il peccato, Ragazzo, Il mio Carso, ecc.), gran parte del lavoro è riservato ad identificarli in articoli di giornale, riviste, comunicazioni private, saggi politici e storici. Ciò principalmente per due ragioni: anzitutto per chiarire come queste tematiche siano state al centro dell’orizzonte ideologico in cui ha operato la gran parte degli intellettuali del primo Novecento; e poi al fine di analizzare il funzionamento di tali motivi non in letterati tradizionali, ma in un gruppo di intellettuali (fra loro in stretto contatto) che Gramsci avrebbe identificato come «secondo strato», vale a dire impegnati nel compito di educazione di uno strato inferiore di altri intellettuali allora attivi nel Paese: giornalisti, insegnanti, ecc. Tale scelta è stata fatta per chiarire il legame fra le tematiche moderniste in questione e l’operato dell’intellettuale di estrazione borghese al sorgere, in Italia, della società di massa[21].

 

In ultimo il modernismo, lungi dall’essere visto come un mero insieme di tecniche di scrittura, è analizzato quale dominante culturale di una precisa fase storica. E però, posto costantemente in relazione tanto con gli accadimenti italiani, quanto con alcune delle maggiori trasformazioni strutturali del periodo (taylorismo, atomizzazione, specializzazione, ecc.), è costantemente sottratto alla prospettiva di una mera battaglia di idee. Si spiega inoltre come presentarsi in tale veste – nella veste del mero scontro ideologico-culturale – sia uno degli scopi reconditi dell’ideologia modernista. In tal senso l’analisi riguardante la modificazione delle prospettive autoriali dopo la Belle Époque (fra Grande Guerra e avvento del fascismo) è risultata fondamentale, perché ha permesso di osservare il progressivo assorbimento delle idee moderniste all’interno degli ordinamenti di Stato, produzione, controllo. Tale prospettiva analizza il fenomeno modernista come collegato ad una trasformazione (materiale e ideologica) della stessa borghesia. Si chiarifica come il modernismo, puntando a trasformare ogni ottica storica in ottica antropologica, abbia avuto per scopo di presentare l’orizzonte borghese quale non-oltrepassabile. E vedremo anche, in particolar modo attraverso Soffici, come spesso il passaggio dall’ideologia modernista a quella fascista (due posizionamenti all’apparenza inconciliabili) avvenga sulla base di motivi modernisti. Vedremo anche, voglio dire, come spesso il relativismo modernista sia servito agli intellettuali italiani da base ideologica per la chiarificazione dell’ideologia fascista.

 

Tale approccio interpretativo ha reso possibile registrare la partecipazione degli intellettuali italiani ai dibattiti europei in corso, evidenziando come fossero perfettamente coscienti di essere parte di un confronto che superava i confini del Paese. La produzione culturale italiana del primo Novecento è posta alla confluenza di analisi sia filosofiche che storiche, e tale approccio interdisciplinare ha permesso non solo di identificare la presenza in Italia delle tematiche correlate alla filosofia della crisi, ma anche di specificare la connessione fra l’ideologia modernista e alcuni delle più importanti espressioni politico-culturali del tempo, come il nazionalismo, il populismo, il futurismo. Le questioni del tempo, così come interpretate dagli intellettuali (l’approdo alla società di massa e il nuovo orizzonte della metropoli; la trasformazione del letterato in operatore culturale; il crollo dei tradizionali valori religiosi, ecc.), sono cioè analizzate nel quadro ampio della crisi filosofica che il modernismo esprime. Mancando tale connessione dell’avventura modernista si perderebbero le relazioni con i mutamenti socio-economici e l’analisi critica risulterebbe una propagazione mimetica proprio dell’ideologia che il modernismo sottende. Neppure però i posizionamenti socio-intellettuali possono essere separati dall’irruzione dei motivi modernisti: l’analisi critica risulterebbe in questo caso priva di quello che, con tutti i suoi corollari, è il nodo ideologico centrale dell’intellighenzia primo-novecentesca.

 

Il capitolo iniziale (intenzionalmente assai più leggero degli altri) serve esclusivamente ad introdurre, facendo riferimento ad un autore maggiore, molte delle tematiche che ritroveremo intatte nella generazione degli anni Ottanta. Alcuni dei principali portati modernisti vengono qui, da un lato, situati nel più ampio orizzonte romantico che li ha determinati, e dall’altro collegati storicamente al contesto storico che, in Italia, ha visto la loro formazione. Tale contesto è quello connesso all’analisi e alla percezione di un fallito – o tradito – Risorgimento. Il capitolo è così dedicato all’analisi de I vecchi e i giovani (1913) di Pirandello in connessione col saggio L’Umorismo, decisamente il più importante atto di coscienza teorico del modernismo italiano[22]. Si è trattato innanzitutto di chiarire perché Pirandello abbia deciso di utilizzare un romanzo storico per presentare l’emersione, in Italia, di un modus cogitandi di ascendenza modernista teso a sopprimere la funzione stessa della storia. I vecchi e i giovani rappresenta il più importante romanzo modernista italiano non solo perché ha portato in letteratura le nuove tematiche epistemologiche che, al tempo, un po’ ovunque si imponevano in Europa, ma anche perché – a differenza di romanzi quali La coscienza di Zeno di Svevo e Uno, nessuno e centomila dello stesso Pirandello – ha chiarito, identificandole appunto nella problematica del “Risorgimento fallito”, le cause storiche che costituiscono in Italia l’alveo di nascita del pensiero e della letteratura modernista. Al tempo stesso però, ed anche in ciò perfettamente in linea con le nuove prospettive filosofiche e con quanto analizzato nel saggio L’Umorismo, l’analisi di tali cause storiche connesse all’emersione delle tematiche moderniste si risolve in una abolizione della stessa capacità storiografica: la storia stessa diventa cioè una di quelle forme oggettivanti da guardare con estremo scetticismo.

 

Il fallimento risorgimentale rimane tema decisivo anche nel prosieguo del lavoro, a cominciare dall’analisi del rapporto fra modernismo e nazionalismo nel lavoro di Papini e Prezzolini. Il secondo capitolo è dedicato a chiarire il legame fra la partecipazione dei due intellettuali all’esperienza nazionalista e la crisi gnoseologica modernista che essi stessi, per primi, introdussero in Italia sulle pagine del «Leonardo», in particolare nella versione di questa fornita dal Pragmatismo americano (W. James), inglese (F.C.S. Schiller) e italiano (G. Vailati). L’intreccio delle tematiche moderniste con alcune delle teorie politiche del periodo (ad esempio quelle di Vilfredo Pareto e di Georges Sorel), e come tali tematiche siano legate al nuovo ruolo dell’intellettuale, sono infatti alcuni dei principali obiettivi di questo lavoro.

 

Per ciò che concerne Papini si è messo anzitutto in rilievo come la critica a positivismo e socialismo sia fondata su motivi modernisti, e si è poi spiegato l’evoluzione di tali tematiche nel passaggio dall’egoarchismo giovanile ai progetti politico-pedagogici sperimentati fra i primi anni di «La Voce», l’esperienza di «Lacerba», l’alleanza coi futuristi milanesi e l’interventismo. Si è chiarito – ad esempio tramite la lunga polemica con Croce – come il rifiuto dell’hegelismo (visto come strumento per ricondurre il diverso all’identico) si sia risolto in un attacco modernistico all’unità creata dal pensiero concettuale in quanto costruzione arbitraria, e si è poi esposto come le caratteristiche del nuovo approccio filosofico-conoscitivo siano state progressivamente spostate dalle peculiarità di un soggetto (il cosiddetto “uomo-Dio”) a quelle di un Paese e di una élite operante in questo. Ho inoltre esplicitato come a far da guida all’intera prospettiva papiniana (ma è un presupposto riguardante quasi tutti gli intellettuali trattati in questo lavoro) sia stata l’idea secondo cui il mondo possa essere modificato mediante un’azione culturale volta a intervenire sulle coscienze, ciò che Marx definiva come «il processo di putrefazione dello Spirito assoluto».

 

La vicenda di Prezzolini ha invece richiesto un approccio differente, soprattutto a causa della lunga militanza crociana al tempo di «La Voce» e negli anni a questa immediatamente successivi. Il primo Prezzolini (autore fra l’altro della prima monografia al mondo dedicata a Bergson) ha mostrato una comprensione teorica in Italia senza eguali di alcune delle principali tesi moderniste, anche grazie alla diretta lettura di autori quali Mach, Poincaré, Avenarius, Le Roy: l’attacco alle modalità di funzionamento della prospettiva scientifica, il crollo della referenzialità delle strutture linguistiche (Sprachkritik), l’impossibilità a considerare il soggetto come struttura unitaria, l’intreccio fra tematiche gnoseologiche e psicologiche, ecc. In seguito ho messo in luce che sebbene la prospettiva crociana (e poi gentiliana) sia stato un tentativo di superamento del modernismo giovanile, molti dei temi sviluppati al tempo del «Leonardo» abbiano in realtà continuato ad operare nel Prezzolini idealista, e siano poi riemersi con decisione in seguito alla Guerra e all’avvento del fascismo.

 

Le prospettive connesse a una teoria della conoscenza radicalmente contingentista così come emerse in Papini e Prezzolini, la progressiva erosione dei presupposti oggettivistici fondanti il reale, la coscienza della sopraggiunta impossibilità a sussumere la realtà nei simbolismi dell’Io, trovano piena espressione tanto nel lavoro critico-teorico di Soffici quanto in quello artistico di Aldo Palazzeschi.

 

Il modernismo di Soffici emerge in particolare nella sua analisi delle avanguardie artistiche francesi e italiane. È mediante queste che Soffici individua le connessioni fra il sorgere di un nuovo concetto di arte e la rivoluzione gnoseologica in corso, così delineando un’idea di una modernità che si fa e si rivela come tale proprio a partire da presupposti di natura contingentista e nichilista. A questa destrutturazione segue dialetticamente il concetto di “Stile” (vero centro del lavoro di Soffici), che è la capacità del genio di condurre il nichilismo di partenza a Erlebnis, così riarticolando la disgregazione. Un presupposto teorico che resta intatto anche in opere narrative quali Arlecchino e il Giornale di bordo.

 

Tale concetto continua a funzionare anche fra gli ultimi anni della Grande Guerra e l’avvento del fascismo, quando Soffici modifica completamente il proprio punto di vista riguardo la relazione fra arte e società. L’unico Stile in grado di porsi al di là qua dell’astrazione, di manifestarsi concreto, diventa allora quello che – sempre tramite il genio – è in grado di esprimere una precisa tradizione nazionale (elementi già apparsi negli anni precedenti attraverso il Lemmonio Boreo e la monografia su Rimbaud). La sezione del volume a lui dedicata, focalizzando sulle modificazioni proprio del concetto di Stile e sui risvolti teoretici di questo, analizza dunque anche tale drammatico passaggio. Si prova poi come la stessa ideologia fascista diventi per Soffici l’equivalente politico della sua idea di Stile, in un progetto che troverà i maggiori appigli teorici nell’idea di “classico” e in quella di “Controriforma” mutuata da Curzio Malaparte.

 

Palazzeschi è invece, fra gli autori trattati, l’unico in grado di spingere il pedale del nichilismo fino alle sue estreme conseguenze, ed appare infatti nel volume a chiudere la sezione dedicata a quegli autori che provarono ad accettare senza riserve la crisi conoscitivo-esistenziale che il modernismo veicolava; provarono, come scrisse Mazzacurati a proposito di Pirandello, ad «estrarre l’antidoto dal veleno». Palazzeschi si pone al di là di qualsiasi ristrutturazione oggettivante, puntando ad un’arte che vive sulla base di un principio secondo cui ogni oggettivazione, ogni tentativo di approdo alla verità oggettiva, rientra in un processo nevrotico teso a sostituire al reale un’immagine astratta e costrittiva di questo. Il suo “romanzo psicologico” è infatti il racconto di un cammino dal mondo del dolore a quello dell’allegria, e questa ultima corrisponde ad un reale esperito come continua possibilità e contraddizione.

 

Vi è poi, come detto, un altro modernismo. Si tratta di un settore dell’intellighenzia italiana primo-novecentesca in gran parte debitrice al lavoro teorico di riconoscimento e critica delle prospettive moderniste portato avanti da Giovanni Amendola fin dai tempi del «Leonardo» (dove parlava di «sfrenata libertà del particolare»), un settore che in Italia siamo soliti definire come “moralismo vociano”. È una prospettiva in cui quella fiducia nella vita, quella fiducia in un divenire a-dialettico che rifiuta ogni ricomposizione razionale o morale, viene meno, si fa reazione. Tale versante, pur flirtante con miti culturali in dissolvenza (miti di natura essenzialmente pre-capitalista), e esattamente come l’altro inchiodato nel modus cogitandi non dialettico (e non storico) delle coppie binarie del pensiero borghese (vita/forma; Kultur/Zivilisation, ecc.), meglio dell’altro è riuscito a delineare la connessione fra il nuovo orizzonte culturale e una ristrutturazione capitalista che non necessita più dell’autorità di valori simbolici (Dio), perché si esprime ora in un principio che si dà come totale assenza di ogni principio; si esprime, vale a dire, nella capacità di gestire quello che Carlo Michelstaedter ebbe a definire «il sistema della relatività».

 

Se un Soffici o un Palazzeschi si limitano – pur ad altissimo livello – ad analizzare la questione nei suoi portati intellettuali e teoretici, riscontrando in essi un dato immediatamente positivo, autori come Giovanni Boine e Piero Jahier si oppongono a tale prospettiva riconoscendo in essa l’avamposto culturale di una nuova forma di capitalismo, e volgono il proprio sguardo proprio verso quella verità che il nuovo orizzonte ha posto in crisi. Si tratta ora di provare a ristabilire una connessione fra la vita e il valore di questa. Boine e Jahier interpretano questo compito in una dimensione spiccatamente politico-religiosa, mediante un approccio teso a collegare la struttura sociale ai miti della fede, della terra e anche della razza.

 

La sezione dedicata a Boine – grazie anche al suo lungo percorso all’interno del “modernismo religioso” – ha permesso innanzitutto di chiarire come questo non sia un fenomeno differente da ciò che la critica letteraria definisce modernismo, ma ne sia anzi il risvolto sul terreno della Dottrina. Si sono dunque mostrate le connessioni intellettuali che hanno indissolubilmente legato i due fenomeni, puntualizzando poi attraverso tali connessioni il particolare approccio di Boine alla capitale questione della “morte di Dio”, vale a dire alla definitiva entrata in crisi della struttura stabile dell’Essere.

 

 

Diverso è il caso di Jahier, un autore per cui «solo i contadini ignorano che Dio è morto». Jahier, ha delineato la connessione fra “povertà” e resistenza etico-politica nel solco di un’opposizione a ciò che definisce «religione dell’immanenza». L’elemento positivo, portatore di quella moralità religiosa che garantiva le certezze ontologiche, viene da lui identificato nella comunità valdese delle valli alpine in quanto società a completa vocazione agricola e artigianale. Al polo negativo troviamo la disgregazione, allo stesso tempo sociale, morale e conoscitiva, creata dallo sviluppo industriale e dal lavoro salariato. È infatti la prosperità economica che tale sviluppo comporta a determinare per Jahier il decadimento delle certezze ontologiche: la disgregazione delle strutture sociali conduce cioè alla disgregazione delle strutture ontologico-morali. Jahier guarda al mondo contadino e artigiano come al residuo materiale dell’antica ottica religiosa, la quale, dissolta in senso filosofico, può essere ricercata nella tradizione e nel compito pedagogico incarnato nella continuità familiare e poi popolare. Al polo opposto della catena metonimica fatta di comunità, tradizione, povertà, valore d’uso, istanza pedagogica, ecc., troveremo infatti, veri motori dell’industrialismo e dell’orizzonte cittadino, il denaro e il lavoro diviso (Gino Bianchi), che Jahier, cogliendone il rapporto causale con la visione parcellizzata del reale, immediatamente contrapporrà allo sforzo morale verso la religione perduta.

 

 

L’ultimo capitolo analizza i tentativi di confronto su base etica con la prospettiva modernista. Ma se la sezione dedicata a Slataper esamina il tentativo di rivitalizzare l’opzione del pensiero tragico, quella su Michelstaedter dimostra la capacità del goriziano di analizzare l’intera cultura modernista quale ideologia culturale di una precisa fase storica.

 

Slataper sostiene la possibilità di un’oggettività conoscitiva collegata al dovere dell’individuo di conferire significato stabile alla realtà mediante un imperativo morale. Qui l’assenza di oggettività non conduce all’esaltazione della contingenza, ma si fa aspirazione etica all’oggettività, in un proposito che per Slataper è tutt’uno con la possibilità di definire il ruolo storico di Trieste, di fare della città il simbolo di questa perduta, e poi ritrovata, certezza valoriale. Ma, pure, la sua stessa fiducia nella cultura, quella che si focalizza nel tradizionale dominio del pensiero sull’Essere, finirà per mantenerlo costretto, ribadendo il suo ruolo subalterno ad un’egemonia nascente, all’interno dell’orizzonte a cui voleva opporsi. L’impossibile conquista della conciliazione autentica che il desiderio della Kultur esprime si rovescerà allora, come analizzato nella parabola dello Slataper interventista e nella sua descrizione della vicenda di Ibsen, in un modello di conciliazione che l’intellettuale-persuasore costruisce sulle rovine del mito della comunità organica. Arruolatosi volontario, Slataper passerà direttamente a identificare quella forma simbolica, quel centro significante, quella ricomposizione della spaccatura fra individuo e reale, fra particolare e universale che il modernismo ha messo in crisi, nella trincea.

 

Michelstaedter è l’unico che riesca a riportare la questione teorica al livello della sua socializzazione. Per lui il vecchio universo delle certezze ontologico-morali che il nuovo orizzonte culturale ha posto in crisi è tutt’altro che scomparso. Queste certezze non vivono più nella religione o nella filosofia sistematica, ma sorgono ora dal relativismo stesso, cioè dalla necessità di riarticolare tale relativismo – la sopraggiunta atomizzazione sociale – in termini di consenso. In tal modo Michelstaedter riesce a focalizzare anche su due problemi (fra loro strettamente intrecciati) tradizionalmente considerati come nuclei teoretici nevralgici dello stesso modernismo: il crollo dell’idea di “imitazione” (vale a dire quel decadimento del concetto retorico di “modello” che è il nucleo estetico centrale dell’ideologia modernista) e la conseguente proliferazione di stili, che è il corrispettivo artistico dell’inarrestabile proliferazione di punti di vista[23]. Per Michelstaedter tale proliferazione è al tempo stesso reale e apparente, perché la decadenza dei modelli tradizionali, dei modelli filosofico-culturali legati all’idea di una verità possibile, non implica la sparizione del concetto di imitazione, ma riporta quest’ultima nell’orizzonte di un consenso che scaturisce dalla varietà di opinioni in contrasto. Michelstaedter, vale a dire, coglie la necessità delle ideologie di matrice borghese di liberarsi dai residui ideologici di natura feudale per poter continuamente modificarsi (senza ovviamente rinunciare a proporsi comunque come verità, senza rinunciare alla funzione ideologica), e coglie anche il legame fra il modus cogitandi modernista e l’atomizzazione sociale in atto, cioè la necessità di riorganizzare – di razionalizzare – la stessa disgregazione sociale, culturalmente avvertita come proliferazione di opinioni non più riferentesi a modelli fissi. In tal caso l’erosione che il modernismo mette in atto dei modelli connessi a “tradizione” e “autorità” non è in un funzione di un processo di liberazione, ma di un passaggio a modelli imitativi fondati sulla stessa atomizzazione sociale. Michelstaedter prova addirittura ad identificare le due strade fin qui analizzate (intuendo forse che la risposta all’atomizzazione sociale non può essere semplicemente una risposta culturale) come la controparte culturale degli opposti ma complementari fenomeni sociali (e, prima, lavorativi) della “specializzazione” e della “razionalizzazione”: la perdita della referenza verso un intero, la necessità di riarticolare tale perdita.

 

Michelstaedter riesce a considerare il modernismo come l’ideologia egemonica di una precisa fase storica. Non solo comprende che, pur essendo le norme universali state senza dubbio espressione di un dominio, non è più quello il dominio in gioco (e chi ancora lo prospetta come tale sta, in quello, occultando il proprio), ma pure inquadra in quelle coppie binomiali il senso di uno scontro che occulta la battaglia reale: quella contro chi, gnoseologicamente, è in grado di utilizzare nella lotta entrambi gli elementi di quei binomi, ed entrambi a suo favore. Sa anzi utilizzare a suo favore la stessa lotta implicita in quei binomi, vale a dire il mantenimento dello scontro sul piano meramente culturale[24]. Col lavoro di Michelstaedter quella contraddizione inemendabile (antropologica) che vuole significare, ideologicamente, la ricomposizione impossibile della realtà, diventa la contraddizione come punto dialettico fra ideologia e consenso, vale a dire come coscienza di una cultura che si sprigiona da elementi materiali in se stessi non culturali.

 

Accanto ai protagonisti del volume un gran numero di intellettuali, letterati e filosofi italiani del tempo (fra gli altri Serra, Marinetti, Ungaretti, Amendola, Cardarelli, i fratelli Stuparich, Rebora, Borgese, Gobetti, Malaparte) è costantemente chiamato a intervenire nel dibattito.

 

Mentre i grandi romanzieri del modernismo italiano (Luigi Pirandello, Italo Svevo, Carlo Emilio Gadda e Federigo Tozzi) avevano già trovato critici attenti in tal senso (che abbiano usato o meno il termine modernismo[25]), lo stesso lavoro non era ancora stato fatto per quegli autori che hanno introdotto in Italia le suddette tematiche moderniste, che hanno preparato la via al modernismo[26]. Questo è lo scopo del mio lavoro, un lavoro teso ad esplorare le funzioni storiche e sociali del modernismo considerando quest’ultimo come l’ideologia egemonica fra gli intellettuali – la logica culturale – durante la fase imperialista del capitalismo.

 

 

 

 

 

 

[1] Usiamo i termini “particolarità” e “particolare” secondo l’interpretazione che ne ha dato Guido Mazzoni in Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna 2011.

[2] Terry Eagleton, Culture and the Death of God, Yale University Press, New Heaven-London 2014, p. 44.

[3] È inoltre tutt’altro che un caso che gli autori appartenenti a questo secondo posizionamento rivolgano spesso i loro propositi letterari verso l’idea di tragedia. La forma del tragico (e basterebbe pensare al saggio finale de L’anima e le forme di Lukács) viene infatti a rappresentare in questi anni l’estetica in più decisa opposizione al modernismo. Su ciò ritorneremo a più riprese. Un punto che è importante qui chiarire è che la teoria (sostenuta in particolare modo da Frank Kermode in The Sense of Ending) secondo cui sarebbe questo lato del modernismo – interessato al pensiero mitico, alle gerarchie letterarie, all’opera d’arte “totalizzante” – ad essere più predisposto ad un approdo fascista, non regge assolutamente, come vedremo, ad un riscontro storico.

[4] Il progressivo subordinamento del neo-kantismo alla filosofia della crisi ben risalta, ad esempio, da un libro fondamentale per comprendere il periodo in questione: The Philosophy of As-If (1911) di Hans Vaihinger. Cfr. Matei Calinescu, Five Faces of Modernity (1977), Duke University Press, Durham 1987, p. 184: «Hans Vaihinger devotes an important chapter to Nietzsche and offers a rich collection of quotations that support his contention that the author of Zarathustra is a philosopher of the will to illusion and a forerunner of the “Metaphysics of As-if”».

[5] È ciò che Marshall Berman – riferendosi a Kierkegaard ha definito come «Modernismo anti-Modernista», in Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria: l’esperienza della modernità (1982), Il Mulino, Bologna 2012, p. 14. Non è un caso che Kierkegaard sarà figura importante per alcuni dei cosiddetti “moralisti vociani”.

[6] Cfr. Luca Somigli, Dagli “uomini del 1914” alla “planetarietà”. Quadri per una storia del concetto di modernismo, «Allegoria», 63, gennaio-giugno 2011, p. 19: «vi è continuità fra modernismo e postmodernismo in quanto il secondo è l’espressione estetica di una modernizzazione adesso completa». Si veda anche Gerald Graff, Literature Against Itself: Literary Ideas in Modern Society, Elephant paperbooks, Chicago 1995.

[7] Franco Moretti, Segni e stili del moderno, Einaudi, Torino 1987, p. 235. Cfr. ivi, p. 236: «Ciò che invece non mi convince affatto è l’idea, immeritatamente universale ormai, che la dominante ironica della letteratura modernista sia un che di sovversivo, anti-borghese, liberatorio. […] non è affatto detto che negli ultimi cento anni, la mentalità dominante non abbia sostituito all’organicismo un’ideologia dell’apertura e dell’ironia».

[8] Il neologismo, come ben noto, appare nel suo significato attuale alla fine dell’Ottocento, trovando in primo luogo vasta eco nei paese ispanofoni e da lì diffondendosi in ambito anglosassone. In Italia il termine non prende piede anche per la contemporanea presenza del cosiddetto “modernismo religioso”. Nel quarto capitolo di questo volume vengono analizzate similitudini e differenze fra il modernismo religioso e il modernismo tout court. Per una ricostruzione storica concernente le apparizioni del termine modernismo rimandiamo all’eccellente saggio di Pierluigi Pellini (‘Cerveaux de fruitier’, ‘enculeurs de mouches’. Per una genealogia del modernismo) contenuto nel suo Naturalismo e modernismo: Zola, Verga e la poetica dell’insignificante, Artemide, Roma 2016. Ci permettiamo di aggiungere che il termine appare nell’accezione corrente anche nel lavoro di Hermann Bahr (in particolare il volume Expressionismus) e in alcuni saggi di Ardengo Soffici dei primi anni Venti. Quanto mai vasta e differenziata la produzione critica sul concetto di modernismo. Per un’introduzione che tenga conti di diversi sviluppi e prospettive si vedano almeno (citiamo in ordine cronologico): Bruce Fleming, Modernism and Its Discontents, (1995), Andrew Hewitt: Fascist Modernism (1995), Robert Scholes, Paradoxy of Modernism (2006), Christopher Butler, Early Modernism (2007), Ronald Schleifer, Modernism and Time (2009), Louise Blakeney Williams, Modernism and the Ideology of History (2009), Shane Weller, Modernism and Nihilism (2011), Fredric Jameson, The Modernist Papers (2016). Per ciò che concerne la crisi filosofica di matrice gnoseologica, in questo lavoro interpretata come autocoscienza speculativa del modernismo letterario, si vedano almeno Marshall Berman, All That is Solid Melts Into the Air; John Burrow, The Crisis of Reason.

[9] È quella tensione alla “totalità” che Stefano Ercolino ha riconosciuto nello sviluppo del romanzo-saggio. Cfr. Il romanzo-saggio (2014), Bompiani, Milano 2017, pp. 196-197: «è ancora possibile avvicinarsi al grande stile inteso come linguaggio della totalità una totalità costruita, artificiale, falsa, ma pur sempre una totalità».

[10] È un approccio filosofico a dominante gnoseologica che Burrow ha brillantemente definito come «epistemological phenomenalism». Cfr. John Burrow, La crisi della ragione: il pensiero europeo 1848-1914, Il Mulino, Bologna 2002.

[11] Un esempio fra tanti, cfr. Astradur Eysteinsson, The Concept of Modernism, Cornell University Press, Ithaca 1990, p. 28: «modernist deconstruction of bourgeois identity».

[12] Cfr. Donata Meneghelli, Quanto è modernista il “modernismo italiano”? Letteratura mondiale, storia letteraria, periodizzazione, «Narrativa», 35-36, 2013, pp. 77-91; Cfr. Valentino Baldi, A cosa serve il modernismo italiano?, «Allegoria», 63, 2011, pp. 66-82.

[13] Un macro-esempio sintomatico di tale problematica è ad esempio fornito da David Ellison nel suo Ethics and aesthetics in European modernist literature: from the sublime to the uncanny (Cambridge University Press, Cambridge 2006). Ad aperture del volume l’autore infatti si scusa per non aver preso in considerazione il modernismo spagnolo e latino-americano. L’Italia non risulta neanche nominata.

[14] A questi critici capitò insomma qualcosa di simile a quanto successe, in ambito anglosassone, a Alex’s Castle di Edmund Wilson, dove in luogo del termine modernismo fu usato simbolismo. Attualmente il termine decadentismo, in Italia, ha ristretto il suo raggio d’azione venendo a sovrapporsi con ciò che va più generalmente sotto il nome di Estetismo o di “letteratura decadentista”.

[15] Sulla stessa linea, in anni a noi più vicini, si sono mossi critici come Giancarlo Mazzacurati (Pirandello nel romanzo europeo; Stagioni dell’apocalisse) e Guido Guglielmi (L’invenzione della letteratura).

[16] Romano Luperini, Il modernismo italiano esiste, in Sul modernismo italiano, a cura di Romano Luperini, Massimiliano Tortora e Raffaele Donnarumma, Liguori, Napoli 2012 p. 7.

[17] Il sintagma nietzschiano, che riferisce alla fine della struttura stabile dell’Essere, è tanto più utile ed emblematico perché pone in auge l’intreccio della contemporanea decadenza della grande filosofia sistematico-metafisica e delle tradizionali credenze religiose.

[18] Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1943, Laterza, Bari 1955, p. 26.

[19] Benché il modernismo sia poi, implicitamente, una teoria del romanzesco. Su ciò cfr. ancora Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, cit., p. 310: «il romanzo modernista cambia l’ordine del discorso, mutando i criteri che separano il significativo dall’insignificante […], l’essenziale dal contingente».

[20] Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 2011, vol. I, p. 304.

[21] Ma è chiaro che le tematiche moderniste non riguardano solo gli autori da me trattati. Le ritroviamo intatte in “artisti puri” quali ad esempio Dino Campana, Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro. Trattare anche questi autori avrebbe però richiesto un discorso specifico sul legame fra crisi filosofica e nuove forme (e nuove poetiche) di produzione artistica, e tale tema (oltre che già copiosamente trattato da numerosi critici) avrebbe reso questo lavoro eccessivamente lungo.

[22] Cfr. Raffaele Donnarumma, Tracciato del modernismo italiano, in Sul modernismo italiano, cit., p. 15: «l’Umorismo di Pirandello – in cui il modernismo italiano trova l’atto di nascita della sua presa di coscienza».

[23] Da qui si comprende anche perché Manuel Machado (La guerra literaria 1898-1914) comprese l’impossibilità del modernismo ad essere una “scuola”, cioè un gruppo compatto. Il modernismo è l’impossibilità di una “scuola”, cioè l’impossibilità (almeno in apparenza) di fissare regole imitative, intellettuali come estetiche.

[24] Tale punto sarà del resto il tema centrale dell’intero lavoro. Cfr. György Lukács, Storia e coscienza di classe (1922), Sugar, Milano 1971, p. 249: «Nel momento in cui si è giunti ad unificare la teoria con la praxis è divenuta possibile la modificazione della realtà, l’assoluto ed il suo contropolo «relativistico» hanno esaurito nello stesso tempo il loro ruolo storico. […] la premessa che in apparenza il materialismo storico e il relativismo hanno in comune (l’uomo come misura di tutte le cose) ha per essi un senso […] opposto».

[25] Importante citare almeno il recente lavoro di Giuseppe Gazzola dedicato a Montale (Montale, the Modernist, Olschki, Firenze 2016) e quello di Riccardo Castellana dedicato a Federigo Tozzi: Parole cose persone, Fabrizio Serra, Pisa 2009. Cfr. anche Id., Realismo modernista. Un’idea del romanzo italiano (1915-1925), «Italianistica», gennaio-aprile 2010, p. 29: «ciò che li accomuna è il nichilismo e più in generale la crisi dei fondamenti già iniziata alla fine dell’Ottocento. Schopenhauer, Nietzsche, Bergson sono punti di partenza e maestri tanto per i vociani quanto per Pirandello, Tozzi e Svevo». Per ragioni del tutto diverse, invece, Marinetti e il Futurismo non compaiono da protagonisti in questo lavoro. In una prospettiva bürgeriana l’avanguardia è infatti considerata come momento interno all’orizzonte modernista. In tale orizzonte, però, essa esprime un significato più ristretto e, come vedremo, per certi versi opposto a quello modernista. Cfr. Peter Bürger, Teoria dell’avanguardia (1974), Bollati Boringhieri, Torino 1990. Cfr. Raymond Williams, The Politics of the Avant-Garde, in The Politics of Modernism (1989), Verso, London-New York 2007. Cfr. Raffaele Donnarumma, Tracciato del modernismo italiano, in Sul modernismo italiano, cit., p. 16: «Se siamo stati abituati a pensare il modernismo sotto l’egemonia delle avanguardie, e in sua funzione, ora potremmo rovesciare il discorso, e vedere nell’avanguardia un momento unilaterale della logica modernista». Il problema sarà comunque trattato nel secondo e nel terzo capitolo in relazione al cosiddetto Futurismo fiorentino.

[26] Una fondamentale eccezione è rappresentata da Thomas Harrison: 1910. The Emancipation of Dissonance, che però riferisce più al settore prima definito, sulla scorta di Berman, come «Modernismo anti-modernista». Altra importante eccezione è Walter L. Adamson: Avant-garde Florence. From Modernism to Fascism, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1993. Un’eccellente presentazione delle principali tematiche degli autori in questione ma che poco si discosta da quanto prodotto criticamente in Italia negli ultimi 30-40 anni.

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