di Andrea Bajani

[Questa recensione è uscita su «la Repubblica»].

 

Le canonizzazioni degli autori troppo spesso coincidono con il mettere i fiori nei cannoni, non tanto per lasciarli in pace, quanto per lasciare in pace noi: niente paura, non spara più, adesso è solo un vaso. È la vendetta servita dalla ditta sempre operosa dei santini, che produce rassicuranti rigor mortis. L’edizione nei Meridiani è, letterariamente parlando, l’ultimo dei canoni rimasti, e nel caso di Antonio Tabucchi è bene che il cannone, lungi dal tacere, tuoni ancora, seppure a modo suo. Dopo Pasolini, è stato infatti l’ultimo scrittore a tirare il potere per la giacca, e a pagare per averlo fatto. Viene dunque a fagiolo in questi tempi.

 

A sei anni dalla sua scomparsa, i due volumi curati e generosamente introdotti da Paolo Mauri sono l’evidenza di quanta bellezza e quanto turbamento insieme produca l’Inquietudine, intesa come quel dispositivo brevettato da Fernando Pessoa, che fa sì che tra la realtà e il suo travaso sulla pagina ci si metta di mezzo l’immaginazione. Che cioè la letteratura sia il sogno che un’epoca produce, e non sempre i sogni sono sogni d’oro.

 

Dalle atmosfere toscane di Piazza d’Italia, suo romanzo d’esordio nel 1975 fino ai nove racconti di Il tempo invecchia in fretta, il mondo tabucchiano è un mondo sempre svirgolato, in cui la malinconia e l’allegria sono un modo per gustarsi le pieghe del discorso, bonario ma al tempo stesso caustico nello spernacchiare la retorica ufficiale. Organizzato in maniera sobria e intelligente, il Meridiano è l’attraversamento di un’opera il cui denominatore comune è, in fondo, la constatazione che le storie non stanno mai ferme, ma che viceversa si passano di mano in mano. La storia della letteratura è un telefono senza fili, dove il fraintendimento, i fischi per fiaschi, sono la vera miccia del racconto.

 

Da Donna di Porto Pim a Si sta facendo sempre più tardi, passando per La gastrite di Platone e Tristano Muore, i libri di Antonio Tabucchi sono zeppi di lettere, di apostrofi, di mandati a dire. C’è qualcuno che racconta a qualcun altro un fatto di cui un terzo è stato testimone, e le storie altrui sono spesso – è Tabucchi medesimo a dichiararlo di frequente – la fonte di molti di suoi racconti. Non c’è modo di mettere nel sacco il mondo. Non c’è potere che tenga, che riesca a imporre una versione: c’è sempre qualcuno che sostiene, ci dice Tabucchi, ma poi chissà se è vero.

 

Il rischio del canone, nel caso dell’autore di Notturno indiano, è che venga stoccato definitivamente dentro il recinto rassicurante dei sognatori, intendendo per sogno, ideologicamente, l’elusione, via cuscino, del reale. Come se il Tabucchi polemista, che sferza ministri e presidenti, il Tabucchi querelato, l’antiberlusconiano a viso aperto, il dileggiato ripetutamente sui giornali, l’autoesiliato suo malgrado, fosse solo intemperanza, accidente, carattere della persona, irrelato dall’essere scrittore. Come se aver dato la vita per l’Italia e la sua lingua e poi essere sepolto a Lisbona non contasse niente, come fosse solo amore per il Portogallo e non anche un’amarezza.

 

Di tutto questo danno conto le “Notizie sui testi” di Thea Rimini, che chiudono ciascuno dei due tomi e che rappresentano una vera impresa di ricostruzione del dietro le quinte dell’opera di Antonio Tabucchi (da sole valgono il prezzo del volume). Le diverse versioni dei manoscritti, le note sparse tra i diari, le dettature, il tormento del processo compositivo, le varianti, le polemiche, le reazioni all’estero e in Italia: il lavoro della studiosa pisana – che cura anche Le lettere del capitano Nemo, romanzo sinora inedito in volume – dimostra quanto la filologia non sia solo una questione di archivi polverosi ma abbia a che fare con un’idea di letteratura fatta per, dice l’autore di Pereira, “porre domande, inquietare”.

 

È grazie alla filologia, ad esempio, che possiamo togliere i fiori dai cannoni e rileggere queste parole, scritte da Antonio Tabucchi quando il problema non era chi arrivava dall’Africa ma dall’Albania: “So cos’è uno scrittore. Semplice, è qualcuno che conosce l’angusta prigione del proprio Io (o Ego) e che cerca di vedere le cose dall’altra parte. E che attraverso i suoi personaggi si sforza di essere un altro, molti altri, tanti altri quanto è possibile. Anche un albanese”.

8 thoughts on “I Meridiani di Tabucchi

  1. “ 29 novembre 1991 – Anche se il racconto lungo di Tabucchi sembra rientrare un po’ troppo nel genere di letteratura che chiameremo del fesso-chi-legge – storie in cui non succede niente, attese deluse, furbi incastri che ammiccano per chi forse habet aures, suggestioni-e-frustrazioni – il bilancio di fine lettura risulta positivo. Tabucchi non è un giovane scrittore, scrive impeccabilmente bene, si sente che ha letto, ha senso della misura e capacità di immagine. Già, che cosa ha letto Tabucchi, oltreché il suo rinomato Pessoa? Io direi i gialli americani, insieme di sicuro a Borges, ma anche gli anglo-sassoni dell’Ottocento, anche Stevenson, anche Kipling etc. Per quanto riguarda la letteratura non sarà inutile ribadire che si tratta davvero di un fesso-chi-legge, in prima e ultima analisi, fesso-chi-legge-se-è-fesso, cioè se cerca nella letteratura qualcosa di essenzialmente diverso dalla letteratura, se non accetta di godere del velo di Maya delle parole, del tessuto dipinto, del testo. Non per niente l’epigrafe del libro è una frase di Blanchot. “.

  2. È meraviglioso decidere oggi di sfogliare pagine di un tuo libro ma poco prima di farlo apro internet e la prima notizia che mi appare è proprio riguardante te che sei tra i miei preferitisecondi padri il primo è proprio mio padre..grazie professore..Antonio..adesso ti leggo

  3. @ Barra

    « fesso-chi-legge-se-è-fesso, cioè se cerca nella letteratura qualcosa di essenzialmente diverso dalla letteratura, se non accetta di godere del velo di Maya delle parole, del tessuto dipinto, del testo»

    Sto coi *fessi-fessi* che cercano « nella letteratura qualcosa di essenzialmente diverso dalla letteratura» non rassegnati a «godere del velo di Maya delle parole, del tessuto dipinto, del testo» [1]

    [1] « Fortini diceva con chiarezza estrema sia che la forma è ambigua sia che, di conseguenza (e non solo per processi soggettivi del lettore) essa suscita due modi di riceverla, di leggerla che egli giudicava entrambi «fondamentali e antagonisti» e che, mutuando i termini da Hegel, chiamava signorile e servile. Il primo, diceva Fortini, legittima l’esistenza formale (fa della forma l’elemento centrale). Il secondo, quando non la nega del tutto (nei casi più “ingenui” o “rozzi”, quando si fa confusione tra arte e vita, politica e poesia), chiede soprattutto «messaggi e non forme». Perciò i lettori della poesia, quelli “ingenui” e quelli “raffinati”, hanno per lui – ripeto – due atteggiamenti entrambi significativi («fondamentali») e non facilmente conciliabili («antagonisti»): c’è chi bada al contenuto (o di più al contenuto) e chi «contempla il gioco della superficie verbale» (o soprattutto questo). E questo dissidio fondamentale e antagonista lo vivono, credo, gli stessi poeti.

    8. A differenza di Terzo (ma anche di Adorno) che sembrano voler quasi espungere la «referenzialità» dal testo poetico o la considerano secondaria, per cui più l’artista è innovatore quanto più da quella referenzialità (storica, sociale, politica, ecc.) si distacca, Fortini riconosceva (meno dogmaticamente, meno partigianamente, meno corporativisticamente, pur essendo stato un critico letterario di valore riconosciuto) il valore e il limite di questa ambivalenza intrinseca della poesia (e dell’arte) e la legittimità e problematicità delle due letture (signorile e servile) che la storia della società in un certo senso continua ad imporre e dalle quali non è facile liberarsi. Egli manteneva aperto e approfondiva il discorso là dove Terzo lo interrompe per predilezione dell’estetica e del formalismo. E non a caso mentre Terzo chiede il rispetto del “privilegio” della comunicazione artistica, Fortini vedeva uno dei segni di grandezza di un’opera di poesia e d’arte nella capacità di scartare gli “amici della poesia” (gli esteti) e di puntare ai suoi “nemici” apparenti, cioè a quelli che s’aspettano «messaggi e non forme». Non accettava per questo il loro “rozzo pregiudizio”, ma come poeta e come critico si assumeva in pieno il compito di misurarsi con la dimensione non-letteraria e non-poetica, con la pressione”barbarica” che mette in discussione i propri *otia*:

    «Chi ha valutato positivamente quella pressione “barbarica” (Goethe tutti i classicismi) ne ha tratto che esistono “soggetti” buoni o cattivi, temi e forme di “destra” o di “sinistra” e che l’esito formale, l’intima coerenza eccetera *non sono il criterio dell’eccellenza ma solo una sua frazione*» («Poesia e antagonismo», in «Non solo oggi», p. 204) [sottolineatura mia].»

    (da E. A., Da quali nemici e falsi amici si devono guardare i poeti https://moltinpoesia.blogspot.com/…/ennio-abate-da…)

  4. “ Giovedì 10 settembre [*] 2015 – Ieri sera, andando a letto, accingendomi a leggere un Simenon trovato per caso – un Simenon « funziona » sempre, prima di prendere sonno -, ho pensato che leggere richiede una certa dose di stupidità. « Fesso chi legge »: sì, per leggere bisogna essere un po’ fessi. Per affidarsi alle parole, come se dalle parole potesse venire qualcosa di importante, di decisivo, di miracoloso. Come se nelle parole ci fosse una specie di grazia, una strada per la salvezza. Come se leggerle fosse un modo di vincere il male, un modo di guarire da quello che ci tormenta. Come se le parole fossero un farmaco, una pozione magica. Crederlo è poco meno che un vizio. Come giocare al grattae-vinci, sperando di vincere, almeno una volta. Perché, forse, una volta si è vinto, ma è stato tanto tempo fa, ce ne ricordiamo appena. (Poi vado su Repubblica.it e leggo che il papa ha citato Mina: « Parole parole parole / soltanto parole ». Mah. Boh. Chissà) “.
    [*] Il compleanno di Quello, caro Ennio.

  5. @ Barra

    1.
    “leggere richiede una certa dose di stupidità”?
    Se la *stupidità* ( in senso nicciano) è diventata (anche per te?) un valore a cui tendere.
    2.
    “Per affidarsi alle parole, come se dalle parole potesse venire qualcosa di importante, di decisivo, di miracoloso”.
    E le *cose*? Oh, vedi che siamo su un sito che si chiama “Le parole e le cose”! E poi perché “affidarsi”? E poi perché cercare il “miracoloso”?
    3.
    “Come se nelle parole ci fosse una specie di grazia, una strada per la salvezza.”
    *Quello* non aveva avvertito anche te contro la “sporca religione dei poeti”? Hai fatto orecchie da mercante? (Prova a trovare il giorno del tuo Diario in cui hai sfiorato l’argomento…).
    4.
    “Come se leggerle fosse un modo di vincere il male, un modo di guarire da quello che ci tormenta. Come se le parole fossero un farmaco, una pozione magica”.
    E tu, che tanto hai letto (sicuramente più di me), hai vinto il “male”, sei “guarito” da quello ci tormenta? Credo di no, se dici: “Crederlo è poco meno che un vizio”. E allora perché insisti? O è un vizio e dovresti smettere ( o almeno invitare altri a smettere…). O *non è un vizio* e dovresti insistere a capire *cos’è* invece di cavartela con un “Mah. Boh. Chissà”.

  6. Mettete dei fiori nei vostri canoni, degli Scalfari e Bevilacqua nei vostri Meridiani. Del resto Pasolini, con Salò, che faceva? Tirava il potere per la giacchetta, anticipava Micromega, Occhetto, Travaglio… Viene dunque a fagiolo, per quanto un po’ svirgolato, quel dispositivo brevettato da Fernando Pessoa per gustarsi le pieghe del discorso, spernacchiare, passarsi di mano in mano fili e micce, Fischi & Fiaschi. Certo che ste storie potrebbero stare un po’ ferme, o no? Via, non c’è modo di mettere nel sacco il mondo, se non l’elusione via cuscino del reale.

  7. “ Mercoledì 23 gennaio 2008 – Viene a scadenza il quarantennale del Sessantotto e, dai primi segni, deduco che, nei prossimi mesi, del Sessantotto si parlerà parecchio. Io, che il Sessantotto, all’incirca, l’ho « fatto », ora che non ho più da « fare » niente, mi limito a andare dietro a quelli che il Sessantotto lo studiano perché nel Sessantotto non c’erano. Per esempio questo qui, che ha voluto sfogliare Quaderni piacentini, del Sessantotto, of course. Sfoglio anche io e trovo un Fortini: « Il dissenso e l’autorità », in cui, fra l’altro, leggo: « Su di una porta dell’Università di Milano, sotto la scritta in rosso ” Università occupata ” , si leggeva in grandi caratteri indelebili: “ SEMPRE “. C’è poco da ridere. Questo bisogno di durata, se non di eternità, questo rifiuto del mutamento è il punto che certo unisce il combattimento per la salvezza della propria integrità con la più profonda esigenza dell’amore. Quanto più si sa che il sempre non esiste, si chiede il sempre e l’identità. Eppure quel “ sempre “, quell’amore deve essere deluso; e quanto prima, tanto meglio. Quella gioventù deve essere negata per poterla intendere meglio. Perché la volontà e l’amore verso il Sempre non deperiscano nella nostalgia per quel sempre, ma siano sempre volontà e amore. ». Io, che non sono Fortini, che scrivo, invece che nel 1968, nel 2008, direi come disse la mamma di Benigni: via, ora ‘un facciamola tanto lunga. Perché io mi limito a dire che dire « Università occupata sempre » vuol dire « Università occupata sempre », cioè che se uno entra nell’università non è certo per andarsene, ma per restarci, parecchio, anzi, sempre, cioè finché non lo cacciano « per raggiunti limiti d’età », cioè molto tardi nel caso dei professori universitari – a parte alcuni pochi stravaganti, irrilevanti dal punto di vista dell’università, cioè dell’universitas. Dire « sempre » poi non basta, perché, quarant’anni dopo, si deve dire anche « dovunque » – da Roccasecca a Cuneo, da Olbia a Monopoli non c’è campanile che non disponga di un’università da occupare, per non parlare della università televisiva Nettuno, quella che si vede la notte, o del Cepu, quella che fa diventare dottori tutti, anche i giocatori di calcio. Dico anche che, in questi quarant’anni, io mi sono fatto un’altra idea della lunghezza, del « sempre » – un’idea che non ho ancora deciso se assomiglia più a quella di Fortini, o a quella della mamma di Benigni. Ma questa è un’altra storia, proprio un’altra. (Poi c’è il problema della claustrofobia, ma quella, forse, si può curare) “.

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