di Gaio Valerio Catullo (trad. di Alessandro Fo)
[E’ appena uscita per Einaudi una nuova edizione delle Poesie di Catullo, curata e tradotta da Alessandro Fo. Pubblichiamo otto carmi, ringraziando l’editore e il traduttore].
1.
A chi dono il libretto tutto grazia,
nuovo, che ora ha polito scabra pomice?
A te: infatti, Cornelio, ritenevi
che i miei scherzi da nulla hanno un valore
fin da quando, tu, solo fra gli Italici, 5
tutti i tempi in tre libri osavi esporre,
dotti, per Giove, e pieni di fatica.
E, qualunque e comunque sia, perciò tu
abbi questo libretto: che – <o> patrona
vergine – anni e anni resti, in più di un’epoca! 10
I.
Cui dono lepidum novum libellum
arida modo pumice expolitum?
Corneli, tibi: namque tu solebas
meas esse aliquid putare nugas
iam tum, cum ausus es unus Italorum 5
omne aevum tribus explicare cartis
doctis, Iuppiter, et laboriosis!
Quare habe tibi quidquid hoc libelli
qualecumque; quod, <o> patrona virgo,
plus uno maneat perenne saeclo. 10
***
5.
Su viviamo, noi due, mia Lesbia, e amiamo,
e i mugugni dei vecchi troppo arcigni
tutti insieme stimiamoli uno spicciolo.
Solo i soli si spengono e ritornano.
Ma noi, spenta che sia la breve luce, 5
notte eterna e continua dormiremo.
Mille baci tu dammi, e quindi cento,
poi altri mille, e poi un’altra volta cento,
quindi fino a altri mille, quindi cento.
E poi, molte migliaia accumulatene, 10
stravolgiamole, un po’ per non saperne,
e un po’ contro il malocchio di un maligno
che il totale di tanti baci sappia.
V.
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux, 5
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus, 10
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
***
51.
Lui mi sembra essere pari a un dio,
superar gli dèi (se non è profano),
lui che, a te davanti, incessantemente
ti guarda e ascolta
nel tuo dolce ridere, cosa che a me 5
strappa i sensi tutti (infelice): infatti
non appena te, o Lesbia, io vedo, <voce>
non me ne resta,
ma s’impasta la lingua, in corpo scende
tenue fiamma, di un suono tutto loro 10
mi tintinnan le orecchie, e scende doppia
notte sugli occhi.
L’ozio a te, Catullo, procura danno,
l’ozio troppo ti esalta e fa smaniare
l’ozio, già, sia re sia città felici
ha rovinato.
LI.
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis 5
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
* * *
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte 10
tintinant aures, gemina teguntur
lumina nocte.
Otium, Catulle, tibi molestum est:
otio exsultas nimiumque gestis:
otium et reges prius et beatas 15
perdidit urbes.
***
60.
Sui monti in Libia forse te una leo- nessa
o, fra i latrati, giú, del ventre suo Scilla
di mente tanto dura genero e o- diosa,
che in un caso cosí la voce di un supplice
tieni in disprezzo, ah, cuore troppo di belva? 5
LX.
Num te leaena montibus Libyssinis
aut Scylla latrans infima inguinum parte
tam mente dura procreavit ac taetra,
ut supplicis vocem in novissimo casu
contemptam haberes, a nimis fero corde? 5
***
82.
Quinzio, se vuoi che ti sia debitore degli occhi Catullo,
o anche d’altro (se c’è) che sia più caro degli occhi,
non gli strappare ciò che, per lui, di molto più caro
c’è degli occhi, o di ciò che sia più caro degli occhi.
LXXXII.
Quinti, si tibi vis oculos debere Catullum
aut aliud si quid carius est oculis,
eripere ei noli, multo quod carius illi
est oculis seu quid carius est oculis.
***
91.
Gellio, non certo speravo che in questo nostro perduto,
in questo amore infelice, tu mi restassi fidato
o perché ti conoscevo, o potevo pensarti costante
o ritenevo potessi da turpe infamia astenerti,
ma poiché, come vedevo, non ti era madre o sorella 5
questa, per cui smisurato mi divorava l’amore.
E, pure se consuetudine assidua ci aveva congiunto,
io non credevo ti fosse, questo, motivo bastante.
Tu l’hai trovato bastante: tu tanto godi di ogni
colpa, qualunque, purché qualche misfatto comporti. 10
XCI.
Non ideo, Gelli, sperabam te mihi fidum
in misero hoc nostro, hoc perdito amore fore,
quod te cognossem bene constantemve putarem
aut posse a turpi mentem inhibere probro;
sed neque quod matrem nec germanam esse videbam 5
hanc tibi, cuius me magnus edebat amor.
Et quamvis tecum multo coniungerer usu,
non satis id causae credideram esse tibi.
Tu satis id duxti: tantum tibi gaudium in omni
culpa est, in quacumque est aliquid sceleris. 10
***
96.
Se mai può forse qualcosa tornare ai muti sepolcri
bene accetta o gradita dal nostro, Calvo, dolore,
dal desiderio con cui rinnoviamo gli amori passati
e le amicizie piangiamo che un giorno abbiamo perduto,
certo, di fronte alla morte immatura non prova Quintilia 5
tanto dolore quanto gioia di fronte al tuo amore.
XCVI.
Si quicquam mutis gratum acceptumve sepulcris
accidere a nostro, Calve, dolore potest,
quo desiderio veteres renovamus amores
atque olim missas flemus amicitias,
certe non tanto mors immatura dolori est 5
Quintiliae, quantum gaudet amore tuo.
***
101.
Per molte genti e per molte distese vaste portato
eccomi a questi, fratello, funebri riti infelici,
per farti dono di un ultimo, estremo omaggio di morte
e per rivolgermi invano alla tua cenere muta,
dal momento che te mi ghermì, proprio te, la fortuna 5
ah indegnamente, fratello, a me, o infelice, strappato.
Ma intanto le offerte che, stando all’uso antico dei padri,
mesto omaggio, ho lasciato per i tuoi funebri riti,
tanto grondanti di pianto fraterno, adesso tu accoglile:
e in perpetuo, fratello il mio saluto e il mio addio. 10
CI.
Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem,
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum, 5
heu miser indigne frater adempte mihi!
Nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale. 10
[Immagine: Lawrence Alma-Tadema, Catullo che legge le sue poesie].
“ Martedì 19 ottobre 2004 – Poi è arrivata la ragazza che si occupa del paratesto. Veniva da Castrovillari, ma è stata un anno a Londra. Doveva fotografare la copertina del Catullo tradotto da Quasimodo nella collana mondadoriana dello Specchio (1955). Mentre fotografava, io, avvicinatomi con passo felpato, ho buttato l’occhio e ho notato che al centro della copertina c’era una graziosa illustrazione: la mano guantata di una dama che sfiora un libriccino vivacemente rosso – era il particolare di un quadro che mi è sembrato di riconoscere, così gliel’ho detto, ma lei, con tutto che lavora nel paratesto, ne sapeva anche meno di me. Per non metterla in imbarazzo, ho lasciato perdere. Ma poi, non so com’è, avendo notato che sul garbato labbruzzo superiore aveva dei piccoli segni blu – mi sembravano quelli che una matita talvolta lascia sulle bocche puerili che l’abbiano incautamente ciucciata -, con fare paterno-capzioso le ho consigliato di pulirsi. Era meglio se lasciavo perdere anche questa volta. Non erano infantili sgorbietti, bensì chirurgici punti – la poverina era caduta di bicicletta sulle impervie strade della sua Calabria, e aveva rischiato di farsi molto, molto male. Così, ho pensato, m’imparo. « A dare consigli? » No, a fare il paratesto. Alla mia età. “.