di Slavoj Žižek
[Dal 18 al 27 aprile LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi all’inizio del 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questo scritto di Žižek è uscito il 17 febbraio 2012].
Come ha fatto Bill Gates a diventare l’uomo più ricco d’America? La sua ricchezza non ha nulla a che fare con la capacità di produrre un buon software a prezzi inferiori alla concorrenza o con la capacità di sfruttare i lavoratori in modo più efficace (la Microsoft retribuisce i suoi lavoratori intellettuali con uno stipendio relativamente alto). Milioni di persone continuano a comprare il software Microsoft perché Microsoft si è imposto come uno standard quasi universale, praticamente monopolizzando il campo, come un’incarnazione di ciò che Marx chiamava il General Intellect, la conoscenza collettiva in tutte le sue forme, dalla scienza al know how pratico. In effetti Gates ha privatizzato parte del General Intellect ed è diventato ricco appropriandosi della rendita che ne consegue.
La possibilità di privatizzare il General Intellect era un evento che Marx non aveva previsto nei suoi scritti sul capitalismo (in gran parte perché ne trascurava la dimensione sociale). Eppure questo fenomeno è al centro delle lotte odierne sulla proprietà intellettuale. Nel capitalismo post-industriale il ruolo del General Intellect, fondato sulla conoscenza collettiva e la cooperazione sociale, cresce. Di pari passo la ricchezza si accumula in modo sproporzionato al lavoro impiegato per produrla. Il risultato non è l’auto-dissoluzione del capitalismo, come Marx sembrava credere, ma la trasformazione graduale del profitto generato dal lavoro sfruttato in una rendita acquisita attraverso la privatizzazione della conoscenza.Lo stesso vale per le risorse naturali, il cui sfruttamento è una delle principali fonti mondiali di rendita. C’è una lotta permanente su chi si appropria di questa rendita, se i cittadini del Terzo Mondo o le grandi imprese occidentali. È paradossale che, spiegando la differenza tra il lavoro (che nel suo uso produce plusvalore) e altre materie prime (che consumano tutto il loro valore nel loro uso), Marx scelga, come esempio di merce ‘ordinaria’, il petrolio. Qualsiasi tentativo di collegare l’aumento e la diminuzione del prezzo del petrolio all’aumento o alla diminuzione dei costi di produzione o al costo del lavoro sfruttato non ha senso. I costi di produzione del petrolio sono trascurabili in proporzione al prezzo che paghiamo – un prezzo che è rendita imposta dai proprietari della risorsa grazie alla scarsità dell’offerta.
La crescita della produttività causata dalla crescita della conoscenza collettiva modifica il ruolo della disoccupazione. Il successo del capitalismo (maggiore efficienza, produttività elevata ecc.) genera disoccupazione, rende i lavoratori sempre più inutili. Quello che dovrebbe essere una benedizione – il bisogno di lavoro duro diminuisce – diventa una maledizione. Per dirla in un altro modo, la possibilità di essere sfruttati attraverso un lavoro a tempo indeterminato è ormai vissuta è vissuta come un privilegio. Il mercato mondiale, come Fredric Jameson ha evidenziato, è «uno spazio in cui ogni persona, una volta, era un lavoratore produttivo, e in cui il lavoro ha iniziato dappertutto a costare troppo».
Nel processo di globalizzazione capitalistica, la categoria dei disoccupati non si limita più all’«esercito industriale di riserva» di Marx, ma include anche, come nota Jameson, «quelle masse enormi che in tutto il mondo sono, per così dire, ‘cadute fuori dalla storia’, che sono state volutamente escluse dai progetti di modernizzazione del capitalismo del Primo Mondo e liquidate come casi disperati o terminali»: i cosiddetti Stati falliti (Congo, Somalia), vittime della fame o dei disastri ecologici, intrappolati in odii etnici pseudo-arcaici, oggetti di filantropia, di ONG, o bersagli della ‘guerra al terrore’. La categoria dei disoccupati si è estesa fino a comprendere vaste schiere di persone: i temporaneamente disoccupati, non più occupabili e permanentemente disoccupati; gli abitanti dei ghetti e delle baraccopoli (quelli che Marx bollava come Lumpenproletariat); e, infine, tutti i popoli e gli Stati esclusi dal processo capitalistico globale, come gli spazi vuoti sulle mappe antiche.
Secondo alcuni, questa nuova forma di capitalismo offre nuove possibilità di emancipazione. È la tesi di Moltitudine di Hardt e Negri, che in questo cercano di radicalizzare la tesi di Marx secondo la quale, se solo tagliassimo la testa al capitalismo, otterremmo il socialismo. Per Hardt e Negri, le posizioni di Marx sono storicamente condizionate: pensando in termini di lavoro industriale centralizzato, automatizzato e gerarchicamente organizzato, Marx finiva per concepire il General Intellect come una sorta di agenzia centrale di pianificazione, mentre è solo nella nostra epoca, con la crescita del ‘lavoro immateriale’, che un rovesciamento rivoluzionario diventa ‘oggettivamente possibile’. Per Hardt e Negri il lavoro immateriale è di due tipi: c’è il lavoro intellettuale (la produzione di idee, testi, programmi per computer ecc.) e il lavoro affettivo (medici, baby sitter, personale di volo). Oggi il lavoro immateriale è egemone nel senso in cui Marx diceva che, nel capitalismo del XIX secolo, la grande produzione industriale era egemone: non si impone con la forza dei numeri, ma grazie al suo ruolo chiave – emblematico, strutturale. Emerge così un nuovo campo vasto chiamato «il Comune»: conoscenza condivisa, nuove forme di comunicazione e di cooperazione. I prodotti di produzione immateriale non sono oggetti, ma nuovi rapporti sociali e interpersonali. La produzione immateriale è bio-politica: è la produzione della vita sociale.
Hardt e Negri descrivono il processo che gli ideologi del capitalismo odierno, ‘postmoderno’, celebrano come il passaggio dalla produzione materiale alla produzione simbolica, dalla logica centralistica-gerarchica alla logica dell’autorganizzazione e della cooperazione policentrica. La differenza è che Hardt e Negri sono fedeli a Marx: cercano di dimostrare che Marx aveva ragione, che l’ascesa del General Intellect è a lungo termine incompatibile con il capitalismo. Gli ideologi del capitalismo postmoderno sostengono esattamente l’opposto: la teoria (e la pratica) marxista rimane entro i limiti della logica gerarchica del controllo statale centralizzato, e quindi non può far fronte agli effetti sociali della rivoluzione informatica. Ci sono buone ragioni empiriche per pensarla così. Ciò che ha effettivamente mandato in rovina i regimi comunisti era la loro incapacità di adattarsi alla nuova logica sociale sostenuta dalla rivoluzione informatica. Hanno cercato di guidare la rivoluzione, di farne l’ennesimo esempio su larga scala di pianificazione statale centralizzata. Paradossalmente, che ciò che Hardt e Negri celebrano come un’opportunità unica di sconfiggere il capitalismo viene celebrato, dagli ideologi della rivoluzione informatica, come la nascita di un nuovo capitalismo ‘senza attriti’.
L’analisi di Hardt e Negri ha alcuni punti deboli che ci aiutano a capire come il capitalismo sia riuscito a sopravvivere a ciò che, in termini marxisti classici, era una nuova organizzazione della produzione che lo rendeva obsoleto. Hardt e Negri sottovalutano la misura in cui il capitalismo di oggi ha privatizzato con successo, per lo meno nel breve termine, il General Intellect stesso, così come la misura in cui i lavoratori stessi stanno diventando superflui (con un numero sempre più grande di persone che diventano non solo temporaneamente disoccupate ma strutturalmente inoccupabili).
Idealmente il vecchio capitalismo prevedeva un imprenditore che investiva denaro (proprio o preso in prestito) in una produzione che lui stesso organizzava e conduceva, ricavandone profitto. Oggi emerge un nuovo idealtipo di capitalismo: non più l’imprenditore che possiede la sua azienda, ma il manager esperto (o un consiglio manageriale presieduto da un amministratore delegato), che gestisce una società posseduta da banche (o gestita da manager che non possiedono la banca) o da investitori dispersi. In questo nuovo idealtipo di capitalismo la vecchia borghesia, diventata non-funzionale, viene rifunzionalizzata come management salariato. I membri della nuova borghesia ricevono salari: quando posseggono una quota della loro società, guadagnano azioni in quanto parte del loro salario (bonus per il loro ‘successo’).
La nuova borghesia si appropria ancora del plusvalore, ma sotto la forma (mistificata) di ciò che è stato chiamato un surplus di salario. E’ pagata più del ‘salario minimo‘ proletario (un punto di riferimento spesso mitico il cui unico esempio reale nell’ economia globale odierna è il salario di un operaio non qualificato in Cina o in Indonesia). Questa differenza rispetto ai comuni proletari determina lo status dei borghesi. La borghesia nel senso classico del termine tende così a scomparire. I capitalisti ricompaiono in quanto sottoinsieme dei lavoratori: in quanto manager legittimati a guadagnare di più in virtù della loro competenza (è per questo che la ‘valutazione’ pseudo-scientifica è fondamentale: serve a legittimare le disparità). La categoria di lavoratori che percepiscono un surplus di salario non si limita ai manager: si estende a tutti i tipi di esperti, amministratori, funzionari pubblici, medici, avvocati, giornalisti, intellettuali, artisti. Il surplus assume due forme: più soldi (per i manager, ecc), ma anche meno lavoro e più tempo libero (per – alcuni – intellettuali, ma anche per gli amministratori dello Stato, ecc).
La procedura di valutazione che serve a decidere quali lavoratori ricevono un surplus di salario è un meccanismo arbitrario del potere e dell’ideologia. Non ha alcun rapporto vero con la competenza reale. Il surplus non esiste per lo sviluppo economico: esiste per ragioni politiche, per mantenere una classe media ai fini della stabilità sociale. L’arbitrarietà della gerarchia non è un errore, ma è il nocciolo della questione. Insieme all’arbitrarietà della valutazione svolge un ruolo analogo all’arbitrarietà del successo sul mercato. La violenza non rischia di esplodere quando c’è troppa contingenza nello spazio sociale, ma quando si cerca di eliminarla. In La Marque du sacré, Jean-Pierre Dupuy riflette sui quattro dispositivi simbolici che servono a rendere non umiliante un rapporto di superiorità: la gerarchia (un ordine imposto dall’esterno mi permette di vivere la mia inferiorità sociale come indipendente dal mio valore intrinseco), la demistificazione (la società non è una meritocrazia, ma il prodotto di lotte sociali oggettive – e questo mi permette di evitare la conclusione dolorosa che la superiorità di qualcun altro nasce dal merito e dai risultati); la contingenza (la nostra posizione nella scala sociale dipende da una lotteria naturale e sociale; i più fortunati sono coloro che sono nati con i geni giusti in famiglie ricche), e la complessità (forze incontrollabili hanno conseguenze imprevedibili: per esempio la mano invisibile del mercato può portare al mio fallimento e al successo del mio vicino, anche se lavoro molto di più e sono molto più intelligente). Nonostante le apparenze, questi meccanismi non contestano né minacciano la gerarchia, ma la rendono accettabile, perché «ciò che fa scattare la rivolta dell’invidia è l’idea che l’altro sia degno della sua buona fortuna, e non l’idea opposta – l’unica che può essere apertamente espressa». Da tale premessa Dupuy trae questa conclusione: è un grave errore pensare che una società ragionevolmente giusta, e che si percepisse anche come giusta, debba essere priva di risentimento: al contrario, proprio in una società simile coloro che occupano posizioni inferiori darebbero sfogo al loro orgoglio ferito con violente esplosioni di risentimento.
L’impasse che la Cina di oggi deve affrontare è legato a questo processo. L’obiettivo ideale delle riforme di Deng era quello di introdurre il capitalismo senza la borghesia (perché sarebbe stata la nuova classe dominante). Oggi i leader cinesi stanno dolorosamente scoprendo che il capitalismo senza la gerarchia consolidata che l’esistenza di una borghesia garantisce genera un’instabilità permanente. Quale strada prenderà la Cina? Gli ex-comunisti si stanno rivelando i più efficaci gestori del capitalismo perché la loro inimicizia storica nei confronti della classe borghese si concilia perfettamente con la tendenza del capitalismo a diventare un sistema manageriale privo di borghesia: in entrambi i casi, come Stalin disse molto tempo fa, «i quadri decidono tutto». (Una differenza interessante tra la Cina odierna e la Russia: in Russia, i docenti universitari sono ridicolmente sottopagati – sono di fatto già parte del proletariato -, mentre in Cina ricevono un confortevole surplus di salario che li rende docili).
Il surplus di salario getta anche nuova luce sulle continue proteste ’anti-capitaliste’. In tempi di crisi, i primi indiziati a ’stringere la cinghia’ sono gli strati più bassi della borghesia: la protesta politica è la loro unica risorsa per non diventare proletariato. Benché le loro proteste siano nominalmente dirette contro la logica brutale del mercato, questi ceti stanno in realtà protestando contro la progressiva erosione della loro posizione economica (politicamente) privilegiata. In La rivolta di Atlante (Atlas Shrugged) Ayn Rand immagina uno sciopero di capitalisti ‘creativi’. Questo racconto trova la sua realizzazione perversa negli scioperi odierni, la maggior parte dei quali vengono condotti da una borghesia salariata che ha paura di perdere il proprio surplus. Non sono proteste proletarie: sono proteste contro la minaccia di diventare proletari. Chi osa scioperare oggi, quando avere un lavoro a tempo indeterminato è di per sé un privilegio? Non i lavoratori a bassa retribuzione in ciò che rimane dell’industria tessile, ma i lavoratori privilegiati con posti garantiti (insegnanti, operatori del trasporto pubblico, polizia). Questa spiega anche l’ondata di proteste degli studenti, la cui motivazione principale è probabilmente il timore che l’istruzione superiore non garantisca più un surplus di salario nella vita adulta.
Allo stesso tempo è chiaro che la rinascita estesa della protesta nel corso dell’ultimo anno, dalla Primavera araba all’Europa occidentale, da Occupy Wall Street alla Cina, dalla Spagna alla Grecia, non dev’essere liquidata come una rivolta della borghesia. Ogni avvenimento dovrebbe essere giudicato per sé. Le proteste degli studenti contro la riforma universitaria del Regno Unito sono chiaramente diverse dai tumulti d’agosto, che erano un carnevale consumistico di distruzione, una vera esplosione degli esclusi. Si potrebbe sostenere che le rivolte in Egitto sono cominciate in parte come una rivolta della borghesia salariata (i giovani istruiti che protestano per la mancanza di prospettive), ma che questo processo rientrava in una protesta più ampia contro un regime oppressivo. D’altra parte, la protesta non ha realmente mobilitato i lavoratori e i contadini poveri, e la vittoria elettorale dei partiti islamici mette in evidenza che l’originaria protesta secolare ha una base sociale ristretta. La Grecia è un caso a parte: negli ultimi decenni è sorta una nuova borghesia salariata (soprattutto nella sovradimensionata amministrazione statale) grazie all’aiuto finanziario dell’UE, e le proteste sono in gran parte motivate dalla minaccia che tutto questo finisca. La proletarizzazione della borghesia salariata nei suoi strati più bassi si colloca all’estremo opposto rispetto alla retribuzione irrazionalmente elevata di manager e banchieri (irrazionale, poiché, come hanno dimostrato le indagini negli Stati Uniti, tende ad essere inversamente proporzionale al successo di una società). Piuttosto che sottoporre queste tendenze a una critica moralistica, dobbiamo leggerle come segni che il capitalismo non è più capace di darsi una stabilità autoregolamentata. Rischia, in altre parole, di sfuggire al controllo.
[Questo articolo è uscito sulla «London Review of Books». Traduzione di Maurizio Acerbo, rivista da «Le parole e le cose»].
[Immagine: Banksy, Follow Your Dreams (Cancelled) (2010), Essex St., Chinatown, Boston (gm)].
Ecco, questo pezzo è l’esempio di come il marxismo teorico, che pretendeva di essere una scienza, sia diventato una favola. A non andare non è soltanto la premessa che il predominio del “general intellect” segni una fase a sé dello sviluppo capitalistico (quando per Marx, che non poteva immaginare l’introduzione del computer, non era che il vertice di un processo iniziato con la prima rivoluzione industriale), ma l’idea stessa che il rapporto capitale-lavoro, sia pure nel senso del lavoro “immateriale”, sia il centro nevralgico dell’intera situazione del mondo contemporaneo. Il fatto che anche il comunismo cinese abbia preso una via “capitalistica” può essere letto in due modi: come il segno della inevitabilità del capitalismo (a cui non si saprebbe più, del resto, con quale rivoluzione replicare), oppure come la circostanza che non si dà un solo capitalismo ma molti. Il che è il contrario della possibilità di leggere il mondo con un’unica lente. (Questo per restare nell’ambito dei problemi posti dall’articolo, perché lo stesso discorso intorno alla pluralità potrebbe essere svolto sotto altri aspetti).
Ma se è vero che non si dà un solo capitalismo, bensì molti, come affrontare i problemi che questo universo sfaccettato pone? Abbandonando l’idea di mutamento strutturale ed affrontando le varie esigenze di lotta e di cambiamento a partire dal particolare (idea verso la quale mi pare propenda Laclau)? Del resto, questo dovrebbe determinare anche l’abbandono di ogni tentazione rivoluzionaria a favore di un certo riformismo (non quello delle finte socialdemocrazie odierne, certo, ma sempre di riformismo si tratterebbe, credo). Resta in gioco – mi pare – la scommessa di riportare la dinamica dello scontro su un piano universalistico, proprio nel momento in cui gli organismi sovranazionali (Fmi, BM, UE) tengono sotto scacco i vecchi e consunti organismi statuali.
“l’inevitabilità” del capitalismo è un’ipotesi come la possibilità del suo superamento.
Zizek non mi pare sostenga che la contraddizione capitale-lavoro sia il centro nevralgico…infatti ha più volte preso le distanze dall’ortodossia marxiana di Negri e Hardt. Che di capitalismi se ne diano molti è una tesi di Zizek: il capitalismo può adattarsi a ogni civiltà.
In verità non si capisce neppure bene dove l’articolo vada a parare. Sembrerebbe critico della posizione di Negri e Hardt sul “general intellect”, per ciò che riguarda la “privatizzazione” dello stesso, ma non sembra poi uscire dalla loro logica. Il capitalismo non è in linea di principio inevitabile, certo: ma in Marx era chiara la possibile dinamica del suo superamento, che partiva dal nodo capitale-lavoro salariato. Già parlare di “borghesia salariata” è un ossimoro. Se si dicesse che c’è un ex proletariato diventato classe media precaria e flessibile, e che oggi sarebbe questo il centro della contraddizione capitale-lavoro, il discorso sarebbe più chiaro (anche se non più in linea con Marx). C’è soprattutto nell’articolo un tentativo di far tornare i conti che non convince: perfino le rivolte nel mondo occidentale – dalla Grecia alla Spagna, fino agli Stati Uniti – hanno connotazioni tra loro diverse; figuriamoci poi quelle nel mondo arabo, dove stiamo assistendo a vere e proprie guerre civili. L’idea che in quei paesi ci si faccia massacrare in nome dell’anticapitalismo (o al contrario, come suppongono altri, in nome della democrazia liberale) appare risibile: serve solo a far tornare i conti. Senza una forte componente religiosa (per un illuminista, anche fanatica) non andrebbero al martirio.
Mi sembra vero ciò che scrive Andrea Amoroso. Un mondo sfaccettato e complesso può essere affrontato solo in un’ottica “riformista” (superfluo aggiungere che non si tratta di quella del Pd). L’ipotesi rivoluzionaria, infatti, presuppone una contraddizione principale che non si vede più.
Questo articolo di Zizek è un bell’esempio di come si giri a vuoto, nella teoria, se non si sono digerite costruttivamente le critiche al marxismo.
Intanto, l’analisi iniziale presuppone come un dato di fatto che il valore delle merci sia il lavoro incorporato. Se si partisse invece dalla teoria soggettiva del valore, legata alla scarsità, i paradossi proposti all’inizio non sarebbero per niente tali. E si potrebbero comunque spiegare le posizioni monopolistiche di Microsoft ecc. E anche partendo dalla teoria soggettiva del valore si può proporre una teoria dello sfruttamento.
Poi la tesi centrale dell’articolo, devo dire, mi fa sorridere. Già Dahrendorf (temibile rivoluzionario) negli anni cinquanta e sessanta aveva cercato di comprendere i manager nella categoria dei salariati, in quanto non proprietari. Su questo è intervenuto correttamente Giddens negli anni settanta: il problema è quello del dominio sociale, non quello della proprietà in senso stretto. Gli amministratori delegati hanno proprio quel potere sociale che non fa di loro dei salariati, ma dei capitalisti. Qui si vede bene quanto serva una analisi attenta del concetto di classe sociale.
Concordo quindi con Rino Genovese: questo è un modo piuttosto fantasioso di fare teoria marxista. Ma in ogni caso non si dovrebbe “fare teoria marxista”, bensì fare teoria sociale critica e basta, utilizzando quello che vale e scartando quello che non funziona.
Ringrazio Rino Genovese, ma in realtà mi ponevo il problema del rilancio di un’ottica pienamente rivoluzionaria, di emancipazione universale al di là dei diversi movimenti particolaristici. In quanto tali, le varie battaglie localistiche (marcos, sem terra, indignados e – certamente con connotazioni molto diverse e con diverse poste in gioco – le rivolte del medio oriente) non fanno il gioco del capitalismo se non trovano uno sbocco più ampio? è possibile la lotta riformista, è auspicabile la lotta all’interno di un orizzonte di un cambiamento graduale affidato all’ampiamento dei “diritti”? In sostanza mi chiedo: “la lotta per la Legge può essere condotta dentro l’alveo della Legge”? Non sarebbe un po’ come giocare una partita di cui l’altro può determinare di volta in volta le regole e cambiarle a suo piacimento a partita in corso? Mi rendo conto che sono domande un po’ troppo generali e per le quali ci sarebbe bisogno di ben altro spazio che non quello di un post, però sono questioni alle quali mi pare ci sia bisogno di nuove risposte. Sul “general intellect”: siamo sicuri che si tratta di qualcosa di veramente “general”; a me pare che, di nuovo, si rischi di confondere la somma delle parti con un Tutto (quello marxiano) che ancora non si dà (per ovvie ragioni).
Accettando senz’altro il saggio suggerimento di Piras di uscire da una presunta ortodossia marxista o di altro tipo, farò un ragionamento molto banale, ma che apparentemente sfugge a Zizek.
Ecco, io proprio non vedo la specificità del caso della microsoft. Mi pare che da sempre si sia ottenuto profitto utilizzando la conoscenza senza necessariamente dover ricorrere ad alcuna catena di montaggio. Del resto, la microsoft può operare, può vendere i propri prodotti perchè parallelamente c’è chi produce hardware in senso lato.
Lo stesso web esiste in quanto ci sono cavi, fibre ottiche, emettitori e ricevitori via etere, proprio non capisco in cosa differirebbe dal resto di tante parti del settore dei servizi che certo Zizek non vorrebbe farci credere che sia una cosa nata oggi.
Il punto mi pare quindi un altro, che la tecnologia permette di ridurre la richiesta di lavoro umano, ed anche questo non è proprio qualcosa che osserviamo solo oggi.
Così, a me pare che qualunque processo di cambiamento effettivo, che mi esimerei dal definire rivoluzionario o riformista, in quanto nulla aggiunge e nulla toglie alla sostanza del cambiamento, non può che confrontarsi su cosa produrre, quanto produrne e come produrlo. Il capitalismo impedisce il cambiamento proprio in questo snodo, nel senso che la sua logica contrasta con la possibilità di dare a queste domande una risposta collettiva secondo un procedimento democratico e dal punto di vista dell’interesse collettivo. Se il profitto e la correlata competitività sono il metro secondo cui rispondere alle domande che ponevo, allora solo chi compete e riesce ad ottenere profitto ha il potere, l’unico che appunto conta (o in subordine una sua parte fondamentale), quello di decidere cosa, quanto e come produrre.
Pare anche a me, con Cucinotta, “che qualunque processo di cambiamento effettivo, che mi esimerei dal definire rivoluzionario o riformista, in quanto nulla aggiunge e nulla toglie alla sostanza del cambiamento, non può che confrontarsi su cosa produrre, quanto produrne e come produrlo. Il capitalismo impedisce il cambiamento proprio in questo snodo”.
L’utilità del pezzo di Zizec sta nel ridimensionare la mistica delle “moltitudini” sul suo stesso terreno teorico. Quanto al nesso con la prassi, tende a entrare in una spirale…
Anch’io condivido l’interesse centrale per la sostanza della produzione che incide sulle forme del capitalismo. E credo che la dialettica tra capitale e lavoro non viene superata dalle nuove forme, piuttosto si modificano i termini, come nota l’articolo. Curiosamente la cosa mi fa pensare alle tecniche retoriche per deviare il discorso messe in atto da chi ha torto e cerca lo stesso di giustificare proprie presunte ragioni confondendo le acque. Forse la necessità storica del capitale induce ironicamente la realtà a spostare i termini della dialettica per confonderla e prolungare l’agonia.
E’ giusto indagare i limiti delle possibilità per considerare gli ambiti di movimento, ma è da tener presente che l’autolesionismo di sinistra non sta solo nell’avventatezza delle utopie, è anche nella visione di limiti eccessivi della propria prospettiva, dimenticando quelli della prospettiva capitalista che si evidenziano tragicamente ad ogni crisi, ma che sono presenti iniquamente anche nei modi dello sviluppo e non solo nell’ottica dei quattro, avvilenti, dispositivi simbolici riferiti dall’articolo.
Ecco, concentrarsi sulla produzione (di cosa, quanto, come) e cercare di stabilire delle priorità può farci individuare meglio i limiti reali. Ed in questa fase storica credo che vi siano anche i presupposti per cercare di coinvolgere la cultura media in questa critica alla società.