di Osip Mandel’štam

 

[Esce oggi per Giometti & Antonello di Macerata L’opera in versi di Osip Mandel’štam, a cura di Gario Zappi. Pubblichiamo in anteprima alcuni testi tradotti da Zappi, ringraziando l’editore].

 

51.

 

Non cresce sulla luna

neppure un filo d’erba;

tutto il popolo sulla luna

fa cestelli:

intreccia con la paglia

lievi cestelli.

C’è penombra sulla luna

e sono più linde le case;

non ci sono case sulla luna,

ma semplici piccionaie;

case azzurre:

meraviglie-piccionaie…

 

1914

 

***

 

63.

 

La fiamma annienta

la mia secca vita,

ora non è la pietra

ma l’albero che canto.

È rozzo e leggero;

d’un unico pezzo

sono il cuore della quercia

e i remi del pescatore.

Conficcate le palafitte più a fondo,

coi vostri colpi, o martelli,

rievocate il paradiso di legno

dove gli oggetti son così lievi.

 

***

 

 

69.

 

Insonnia. Vele tese. Omero.

Ho letto fino a metà la lista delle navi:

stormo di cicogne, lunga covata,

che un tempo sull’Ellade s’è levata.

Come in confini stranieri cicogne incuneate,

divina spuma sul capo di sovrani, verso dove navigate?

Se non fosse per Elena, v’importerebbe forse qualcosa

della sola Ilio, o viri achei?

E il mare, e Omero: tutto è mosso dall’amore.

A chi prestare ascolto? Ed ecco tace Omero,

e rigonfiandosi ondeggia il mare nero

e s’appressa al capezzale con greve fragore.

 

1915

 

***

 

 

74.

 

Su una slitta foderata di paglia, a stento

coperti da una stuoia fatale, dai Colli

dei Passeri alla chiesetta così familiare

traversavamo Mosca, sconfinata.

Ad Uglič, frattanto, giocano all’astragalo i bimbi

e sa di bruciaticcio il pane lasciato nel forno.

A capo scoperto mi trasportano per le strade,

baluginano nella cappella tre candele.

Non erano tre candele, ma tre incontri,

uno dei quali da Iddio stesso benedetto,

né un quarto vi sarà ed è ben lungi

quella Roma che non aveva mai amato.

La slitta si tuffava nei borri oscuri

e il popolo tornava dalla sagra.

Mugichi emaciati e donnone malvagie

battevano i piedi fermi sui portoni.

L’umida lontananza nevicava di stormi d’uccelli,

le mani legate s’erano intorpidite; trasportano

il principe, s’agghiaccia orrendamente il corpo

e alla paglia fulva hanno appiccato il fuoco.

 

1916

 

***

 

75.

 

Fa freddo. La tersa primavera

veste Petropoli d’una verde peluria,

ma l’onda della Nevà, come una medusa,

m’infonde un’avversione lieve.

Le lucciole delle auto sfrecciano

lungo la riva del nordico fiume, si librano

libellule e coleotteri d’acciaio,

scintillano le stelle, capocchie d’oro

a nessuna delle quali riuscirà d’annichilire

il greve smeraldo dell’acqua del mare.

 

1916

***

 

 

108.

 

Poiché non ho saputo trattenere le tue mani,

poiché ho tradito le tue morbide labbra salate,

devo attendere l’alba in quest’inaccessibile acropoli.

Quanto le odio queste fragranti antiche travature!

I viri achei nella tenebra allestiscono il cavallo,

azzannano saldi con lame dentate le pareti,

il secco tremestio del sangue non si placa in modo alcuno,

e non c’è nome, né suono, né calco per te.

Come ho potuto pensare che saresti tornata, come ho osato?

Perché mi son distaccato da te anzitempo?

L’oscurità non s’è ancor dileguata e il gallo non ha cantato,

l’ascia arroventata non s’è ancora confitta nel legno.

Lacrima tersa, la resina imperla le mura,

e percepisce la città i propri costoni di legno,

ma s’è riversato il sangue sulle scale e ha dato l’assalto,

e per tre volte è apparsa in sogno agli achei un’immagine adescatrice.

Dov’è Ilio mia dolce? Dov’è la regale di virgo dimora?

Verrà distrutto l’inclito di Priamo abituro

e cadono le saette in secca pioggia legnosa,

e altre saette si spiccano come avellani dal suolo.

Si placa indolore la trafittura dell’ultima stella,

il mattino, rondine bigia, picchietterà alla finestra,

e il giorno tardivo, come bove destatosi tra la paglia,

sui cumuli di fieno, arruffati dal lungo sonno, si muove lieve.

 

1920

***

 

125.

Ode d’ardesia

Solo dalla voce comprenderemo

cosa vi si scalfiva, cosa vi lottava.

 

Stella con stella: possente congiunzione,

siliceo viatico da un vecchio canto,

linguaggio della selce e dell’aria,

la selce con l’acqua, col ferro di cavallo l’anello,

sul soffice schisto delle nubi

il latteo disegno d’ardesia:

non tirocinio di mondi,

ma delirio di dormiveglia ovini.

 

Noi, ritti in piedi, dormiamo nella notte fonda

sotto un caldo colbacco di pecora.

All’inverso, nella puntellatura, gorgoglia la sorgente

a catenella, tenue spuma e discorso.

Qui scrive la paura, qui scrive la frattura

con il plumbeo gessetto latteo,

qui matura il brogliaccio

dei discepoli dell’acqua corrente.

 

Erte città caprine,

stratificarsi possente di selci,

e ciononostante ancora un’aiuola:

chiese ovine e villaggi!

Predica loro lo strapiombo,

li ammaestra l’acqua, li affila il tempo;

e l’aria del bosco diafano

già da tempo è satura di tutti.

 

Come un morto calabrone presso i favi

il giorno variegato è spazzato ignominiosamente via.

E la notte-sparviera porta

gesso che riarde e nutre l’ardesia.

Dalla lavagna iconoclasta

sfregare via le impressioni diurne

e, come fosse un uccellino, scrollarsi di mano

le già diafane visioni!

 

Il frutto marciva. Maturava l’uva,

il giorno smaniava come smania il giorno,

e il tenero gioco degli astragali,

e nel meriggio le pellicce dei feroci cani da pastore.

Come immondizia dalle altitudini ghiacciate –

rovescio di verdi parvenze –

scorre l’acqua famelica

torcendosi e giocando come una bestiola.

 

E come un ragno mi striscia incontro,

là dove ogni nesso è spruzzato di luna,

sullo stupito ripido pendio

odo lo stridio dell’ardesia.

Spezzo la notte, gesso rilucente,

per una salda iscrizione istantanea,

permuto il rumore col canto delle frecce,

permuto l’accordo con l’iroso strepitare.

 

Chi sono io? Né un retto muratore,

né un carpentiere, né un costruttore di navi:

sono un doppiogiochista dall’anima bifronte,

sono un amico della notte, un pioniere del giorno.

Beato chi definiva la selce

discepola dell’acqua corrente!

Beato chi ha stretto la cinghia

ai piedi dei monti, sul saldo suolo!

 

E anch’io ora imprendo il diario

dei graffi degli annali d’ardesia,

il linguaggio della selce e dell’aria,

con un’intercapedine di tenebra, un’intercapedine di luce,

e anch’io voglio infilare le dita

nel siliceo viatico da un vecchio canto,

come in una piaga, congiungendo

la selce all’acqua, il ferro di cavallo all’anello.

 

1923

***

 

 

181.

 

Impressionismo

Il pittore ha raffigurato per noi

il profondo deliquio del lillà

e i sonanti gradini dei colori

ha posto sulla tela come croste.

Ha compreso la densità dell’olio,

la sua estate abbrustolita

è riscaldata da un cervello lilla,

dilatata dall’asfissia.

E l’ombra, dunque, l’ombra è sempre più lilla,

il fischietto o la sferza si spengono come fiammiferi.

Mi dirai: i cuochi in cucina

approntano dei pingui colombi.

S’intuisce un’altalena,

veli non finiti di tingere,

e in questo caliginoso sfacelo

già spadroneggia un bombo.

 

23 maggio 1932

***

 

189.

Ariosto

 

In Europa fa freddo. In Italia è buio.

Il potere è repellente come le mani d’un barbiere.

Oh, se si spalancasse, ma al più presto,

un’ampia finestra sull’Adriatico.

Sulla rosa muschiosa il ronzio di un’ape,

nella steppa a mezzogiorno un grillo muscoloso,

sono grevi i ferri del cavallo alato,

la clessidra è gialla e aurata.

Il linguaggio delle cicale irretisce col suo miscuglio

di mestizia puskiniana e di fretta mediterranea,

come un’edera fastidiosa, che s’avviticchia tutta

egli mente con coraggio, combinandone con Orlando di tutti i colori.

La clessidra è gialla e aurata,

nella steppa a mezzogiorno un grillo muscoloso,

e dritto alla luna spicca il volo il contafole spalluto.

Gentile Ariosto, volpe d’Ambasceria,

felce in fiore, veliero, aloe,

tu udivi sulla luna i versi dei calenzuoli,

e a corte eri savio consigliere dei pesci.

Oh, città di lucertole, in cui non v’è anima viva,

dalla strega e dal giudice hai partorito prole siffatta,

Ferrara dal cuore di pietra, alla catena lo tenevi:

e l’astro del rosso intelletto si levò sul folto del bosco.

Noi ci stupiamo del banchetto del macellaio,

del pargolo appisolatosi sotto una rete di mosche azzurre,

dell’agnello sul monte, del monaco sull’asinello,

dei soldati del duca, un po’ folli in Dio,

per le bevute di vino, la peste e l’aglio,

e della recente perdita, come l’aurora, ci stupiamo…

 

1933; 1935

***

 

194.

[Ode a Stalin]

 

Viviamo, senza sentire il paese sotto di noi,

i nostri discorsi non s’odono a dieci passi,

e dove ne basta per un mezzo discorsetto

là si ricorderanno del montanaro del Cremlino,

le sue grosse dita sono grasse come vermi,

le parole sicure come pesi da un pud.

Ridono i baffi da scarafaggio,

rilucono i suoi gambali.

E, intorno, la sua marmaglia di ducetti dal collo sottile,

egli gioca coi servizietti di mezzuomini.

Chi fischia, chi miagola, chi piagnucola,

lui solo blatera e addita.

Come ferri da cavallo forgia editti su editti:

a chi all’inguine, a chi in fronte, a chi sul sopracciglio, a chi nell’occhio.

Ogni esecuzione è per lui una cuccagna

e l’ampio petto da ossetino.

 

Novembre 1933

***

 

426.

 

Marciano gli anni in ferrei battaglioni,

l’aria è ricolma di sfere di ferro.

Incolore nell’acqua che s’inferra,

rosa sulla coltre della fantasia.

Verità ferrea: viva sì da generare livore,

di ferro è il pistillo, ferreo l’ovario.

E ghiandola la poesia nel ferro,

lacrimosa nell’incisione del parto.

 

22 maggio 1935

 

 

 

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