di Massimo Rizzante
[Domani esce, per Effigie, L’albero del romanzo di Massimo Rizzante, versione definitiva, ampliata e corretta del saggio uscito dieci anni fa da Marsilio. Contiene capitoli su Svevo, Broch, Sabato, Saramago, Nabokov, Oe, Gombrowicz, Kiš, Kosztolányi, Piglia, Bellow, Boccaccio, Calvino, Kundera, Houellebecq. Si chiude con un Post scriptum intitolato Addio, piccolo uomo!, che pubblichiamo]
L’arte e la scienza
Qualche tempo fa ero a Firenze.
Sotto la pressione dei Verdi e delle associazioni animaliste, il consiglio comunale di centrosinistra non permetteva, su mozione del capogruppo del centrodestra, lo spettacolo del celebre artista belga Jan Fabre. Le proteste più intelligenti avevano questo tenore: «Siamo dalla parte della libertà artistica e contro la censura, purché tale libertà non vada a ledere i diritti e la dignità della persona umana e degli altri esseri viventi…».
Jan Fabre si serve in molti spettacoli teatrali o per diverse installazioni di animali morti o imbalsamati: gatti appesi per il collo a ganci da macellaio, teste di cigno mozzate, pareti costellate da milioni di scarabei. A Firenze, in quei giorni, voleva portare sulla scena Another Sleepy Dusty Delta Day, una performance sul tema dell’eutanasia, già molto applaudita al Festival di Avignone. In scena, oltre a una sedia a dondolo, ci sarebbero stati carboni, trenini elettrici, bottiglie e nove gabbie di canarini vivi penzolanti dal soffitto.
Sembra che i canarini in gabbia abbiano scatenato il fondamentalismo animalista. Fabre si è difeso, affermando che «gli animali sono i migliori dottori e i migliori filosofi del mondo», che non tortura né uccide animali in scena, che i canarini durante la pièce sono vispi e nutriti e che poi vengono riconsegnati al negoziante.
Ho visto diverse opere di Fabre: carcasse di cani, sculture che immortalano i cervelli di suo padre e di sua madre, disegni fatti con le sue lacrime e il suo sangue, installazioni composte da corazze di insetti e da ossa animali.
L’arte di Fabre vuole scioccare. Il suo intento è metterci in guardia. L’installazione di cani imbalsamati, ad esempio, è un j’accuse contro chi li abbandona per le strade. Certo, questo ex post, come sempre nell’arte contemporanea. Forse per questo l’arte oggi non è più oggetto di giudizi estetici, ma sottoposta a una caterva di giudizi etici, politici, ecologisti, animalisti…
Ma c’è un altro aspetto di Fabre che, al di là di tutti i suoi anatemi contro l’attuale società dei consumi, è sintomatico della situazione dell’arte all’inizio del XXI secolo.
Fabre ha spesso ripetuto che l’arte «è un laboratorio», che i suoi veri eroi sono gli scienziati e che «principio base» di ogni suo spettacolo è «la spiegazione scientifica». Il suo lavoro sul corpo degli esseri viventi è, in altri termini, la resa dell’arte alla scienza. Che cosa significa?
Nella civiltà occidentale l’ubris, la volontà di superare i limiti, è insita nell’uomo fin dai tempi della tragedia greca. Ma la tragedia era tale perché alla fine gli dei colpivano l’eroe che aveva voluto trasgredire l’ordine divino. Quando, a partire dall’età moderna e ancor più ai nostri tempi, il giudizio divino degli dei viene sostituito dalle spiegazioni della scienza, l’ubris dell’uomo si libera da ogni peso, perdendo sempre più di vista la misura di ciòhe è umano, misura senza la quale ogni trasgressione, anche la più scioccante e blasfema, perde di significato. L’arte, se vuole continuare a trasgredire e allo stesso tempo non smettere di produrre una visione individuale del mondo, dovrebbe, invece di rincorrere la scienza che non pone a se stessa alcun limite, rivendicare l’orizzonte tragico dell’uomo. Tale rivendicazione non ha nulla di imperioso, ma al contrario è un atto di umiltà nei confronti di ciò che l’uomo non ha prestabilito, che non è opera sua, che non può comprendere fino in fondo e che perciò conserva tutto il suo mistero.
È forse necessario aggiungere che perduta la dimensione tragica, l’uomo non è neppure più in grado di ridere della sua precaria condizione? Di che cosa, infatti, può mai ridere un uomo la cui umanità non ha limiti?
La scienza e l’arte
Superata la frontiera della riproducibilità tecnica dell’uomo – a mio avviso circolano indisturbati nel mondo già parecchi cloni umani, ma nessuno si prende la briga di appurarlo – e approdati definitivamente nell’era della tecnoscienza, non ci resta che ridurre le nostre pretese: l’idea plurimillenaria che l’uomo sia qualcosa di speciale è finita.
Questa estate ho letto un saggio di Margaret Somerville (Preserving Humanity, «The Vancouver Sun Tuesday»), direttrice del McGill Centre for Medicine, Ethics and Law di Montréal, tanto puntuale quanto allarmato. Ci sono filosofi e scienziati come Peter Singer, oggi una star della Princeton University, che ha teorizzato (fin dal lontano 1975, quando pubblicò Animal Liberation, una bibbia per gli animalisti e post-umanisti di tutto il mondo) che la differenza tra gli esseri umani e gli altri animali è una forma totalmente iniqua di discriminazione. Singer la chiama «specismo» (il termine è ripreso da Richard Ryer, uno psicologo britannico che lo coniò nel 1970). In breve, rifiuta che nell’uomo vi sia qualcosa di così singolare da meritare un particolare rispetto. Gli animali soffrono come gli uomini. Questi ultimi, perciò, non hanno il diritto di infliggere ai primi ciò che non infliggono ai loro simili: niente cannibalismo, niente eutanasia, niente aborto. Dal punto di vista etico non fa una grinza: siamo o non siamo nell’epoca dei Diritti e delle Differenze? Di tutte forse, tranne che di quella umana.
Ma c’è dell’altro. La vita degli esseri viventi non si fonda solo sul dolore. Molti animali hanno caratteristiche e capacità del tutto comparabili a quelle umane: sanno proteggersi, possiedono il senso del tempo, possono entrare in relazione con gli altri. Certi macachi e scimpanzé sembra abbiano anche un certo grado di autocoscienza e una sfera affettiva molto stratificata. Ricordo di aver letto che nel lontano 1957 Desmond Morris, il celebre etologo inglese, fece esporre all’Institute of Contemporary Art di Londra le opere di Congo e Betsy, due scimpanzé, con grande successo di pubblico e di mercato (e con enorme soddisfazione dei neurobiologi per i quali la frontiera tra arte e natura non è appunto una questione di specie). D’altra parte Morris, fin dal suo libro del 1963, Biologia dell’arte, ha avuto sempre le idee chiare sull’arte del nostro tempo: «La scimmia e l’uomo moderno hanno quasi lo stesso interesse per la produzione di dipinti».
Nulla o quasi ci separa dagli animali, secondo Morris e Singer. Oggi, ancor più che negli anni sessanta del secolo scorso, uno scimpanzé è in grado di avere lo stesso successo di un Damien Hirst. Dunque, merita lo stesso rispetto. Dunque, in virtù di che cosa l’artista-uomo avrebbe più dignità dell’artista-scimpanzé? Grazie alla sua intelligenza?
E qui si chiude il cerchio. Infatti, al di là di ogni pia etica umanitaria e animalista, l’idea di conoscenza che dagli anni sessanta si è imposta e che oggi viene sopra ogni altra rispettata è quella operativa, binaria, funzionale, insomma è quella della «scienza». Per cui quegli stessi scienziati che rispettano il loro cane come una persona umana, sono poi costretti a inchinarsi con rispetto superumano di fronte alle prodezze di un robot. Forse sono gli stessi che preferiscono avere nel loro letto un Intelligent and Sex Toy, un automa in grado di soddisfare ogni esigenza sessuale. La robotica sessuale è già una realtà grazie a cui ben presto la nostra civiltà animalizzata e artificiale sarà completamente interattiva ed eticamente pura: niente più puttane, niente più transessuali, niente più vibratori, bambole gonfiabili, peni in vetro soffiato, niente più chat-lines, niente più masturbazione.
Ne abbiamo abbastanza della vecchia umanità…
[Immagine: Jan Fabre, Globo 1997]