di Mauro Piras

 

Il 15 maggio 2018 è morto a Pisa Mario Mirri, all’età di 93 anni. Mirri era uno storico dell’età moderna, aveva studiato la politica agraria e i contadini nella Toscana leopoldina, le riforme nel Settecento italiano e francese, i catasti e i sistemi fiscali, la società e le istituzioni degli stati preunitari; si era anche occupato di storia della cultura italiana nell’Ottocento, e aveva pubblicato interventi su fascismo, antifascimo, Resistenza e Repubblica. La sua opera intellettuale non è contenuta in uno o più grandi libri, ma in numerosi lunghi articoli o brevi volumi, che hanno disseminato tante idee, e lasciato un’eredità nello studio del rapporto tra amministrazione, riforme e illuminismo nel Settecento. Gli articoli di commemorazione lo ricordano come il fondatore della “scuola pisana”, definizione un po’ vaga. Forse bisogna capire un po’ meglio che cosa significa.

 

1.

Mirri era soprattutto un maestro. Per lungo tempo il Dipartimento (prima Istituto) di Storia Moderna e Contemporanea di Pisa si è per così dire identificato con lui. Dagli anni sessanta, quasi tutti quelli che vi hanno studiato questa disciplina sono stati suoi allievi, generazioni di studiosi che vanno da quelle nate nella seconda metà degli anni quaranta fino a quelle nate negli anni settanta. Così nasce la cosiddetta “scuola pisana”. Anche io mi sono trovato tra queste schiere di allievi, nella penultima coorte, diciamo così. E studiando con lui ho potuto farmi un’idea concreta e “politica” della conoscenza storica che altrimenti non avrei potuto avere.

 

All’epoca, la ricerca di storia moderna, sia italiana che europea, rischiava di cadere in opposte astrazioni. Da un lato, dopo il boom della storia quantitativa negli anni sessanta e settanta, le “scuole francesi”, così influenti, viravano verso lo studio delle “mentalità”: in entrambi i casi, la storia veniva vista un po’ per grandi insiemi, per “strutture”, come si amava dire. Cosa importantissima, certo, perché non c’è consapevolezza storica senza la conoscenza di ciò che sostiene la vita quotidiana e nei secoli cambia solo lentamente. E questo valeva anche per il cantiere delle strutture mentali. Ma questo tipo di storiografia pendeva in modo troppo unilaterale da una sola parte, rendeva irrilevanti, come puro événementiel, i conflitti politici, la lotta per il potere, le vicende individuali. Persino la storia istituzionale francese era un po’ irrigidita: le istituzioni venivano ordinate e descritte come in un manuale di diritto pubblico d’antico regime.

 

Dal lato opposto, una parte innovativa della storiografia italiana cercava di liberarsi di questo eccessivo “strutturalismo” con la microstoria: raccontare percorsi individuali, biografie di personaggi umili e sconosciuti, per vedere dentro la loro vita, in atto, come agiscono le strutture, materiali e culturali. Anche questa diventava però un’astrazione, perché di nuovo si perdeva di vista la dimensione dell’azione politica, cioè della contingenza: lo spazio di quell’azione che può modificare, in parte e nel tempo, le strutture ereditate. Il legame tra la società e la politica scompariva comunque.

 

Così come questo legame si perdeva, agli occhi di Mirri, in quella che lui considerava la sua vera “scuola rivale”: la cosiddetta scuola di Torino, di Franco Venturi, di Giuseppe Ricuperati, e in Toscana di Furio Diaz, del “Settecento riformatore”. Troppo “alta”, per lui. Certo, tutto vero, tutto importante: la diffusione della cultura scientifica e illuministica, il suo intreccio, spesso contraddittorio, con le riforme, i grandi progetti di cambiamento della società. L’eroismo, quasi, di certi intellettuali “spiantati” (il gruppetto degli enciclopedisti ai suoi inizi, nel bel libro di Venturi Le origini dell’Enciclopedia). E il ruolo dei libri, della loro diffusione, nel trasformare questa cultura e questa politica. Ma, diceva spesso Mirri, noi siamo “uomini di lettere” (lo ripete nel suo ultimo libro pubblicato postumo, un po’ il suo testamento intellettuale, il primo in cui parla a lungo di se stesso: Mario Mirri, La guerra di Mario, Laterza 2018, pp. 90, 118-119): studiosi che leggono libri, li commentano, ne traggono conoscenze. Non siamo uomini d’azione. La storia politica è fatta invece dagli uomini d’azione (che solo accidentalmente possono essere uomini di lettere). È fatta da persone e gruppi che lottano per il potere, e anche, a volte, per grandi (o piccole) visioni della società; ma lo fanno nell’azione, dentro le istituzioni e i rapporti di dominio sociale, inserendosi in essi, sfruttandoli, anche modificandoli. In questo gioco i libri, le letture, hanno un ruolo piuttosto marginale. Non bisogna cadere nell’errore prospettico dell’uomo di lettere, che li sopravvaluta. E quindi quello che per Furio Diaz era il “secolo dei Lumi”, per Mirri era il secolo delle riforme amministrative e politiche; riforme senza la maiuscola, perché molte di esse nascevano dalle dinamiche interne alla formazione dello Stato moderno, non tanto dalla cultura illuministica; e soprattutto andavano seguite “rasoterra”: leggi agrarie e annonarie, catasti, imposte, assemblee locali ecc. E quindi, contro queste astrazioni che minacciavano la storia politica (“i francesi capiscono poco di politica”, mi disse una volta scherzando), Mirri proponeva, in modo umile e un po’ artigianale, una storia che si muoveva tra i conflitti politici, le istituzioni e le strutture sociali.

 

 

 

 

Questo era il senso della “scuola pisana”, se è esistita: storia concreta della politica, ma ancorata alle sue basi istituzionali e sociali; la consapevolezza che anche se tante cose, nella vita umana, cambiano molto lentamente, all’interno di queste strutture si aprono gli spazi per l’azione che può cambiare e modificare i destini individuali (“[…] la vita degli uomini in società è sempre uguale, ma solo in senso molto generale: in realtà le forme della vita cambiano e si trasformano nei tempi e nei luoghi. […] questi cambiamenti dipendono dagli uomini e dalle scelte che essi fanno”: La guerra di Mario, p. 4). E soprattutto la consapevolezza che per capire quello che fa veramente la politica, quanto incide effettivamente nella vita delle persone, bisogna guardare il dettaglio delle norme e della loro applicazione, cioè l’amministrazione. Non c’è storia politica concreta senza storia dell’amministrazione. Capire che cosa vuol dire passare dalle imposte di riparto (solidali, non proporzionali) alle imposte di “quotità” (proporzionali al reddito), o ai catasti come misurazione delle ricchezze e dell’imponibile, significa capire come le decisioni politiche (più o meno “riformatrici”) cambiano la vita delle persone, spostano per esempio gli equilibri sociali, prelevando da certi redditi o da altri. Lo storico non può fare a meno di questo terreno umile di conoscenza, che gli permette di vedere dove le decisioni dei potenti non solo veicolano forme di dominio sociale esistenti, ma modificano concretamente le condizioni di vita delle classi subalterne.

 

2.

Mirri era un maestro anche in senso proprio. Seguiva i suoi allievi da vicino, era profondamente impegnato nell’insegnamento. Quando iniziai a studiare a Pisa, nel Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea c’era un sistema di “corsi istituzionali” (quelli generali, per i primi anni di corso) che imponeva a tutti i docenti di tenerli regolarmente, a rotazione. Quell’anno, il corso istituzionale di storia moderna era tenuto proprio da Mirri. La didattica non era una scocciatura da trattare con la mano sinistra. Ma soprattutto, Mirri insegnava nel confronto continuo con i suoi allievi. Qualsiasi testo scritto da questi veniva letto attentamente, vagliato, tempestato di appunti scritti a mano nei margini, tra le righe. Si usciva un po’ storditi, per la gran quantità di cose che bisognava rivedere: dalle informazioni sulle fonti ai giudizi politici ingenui, fino alle espressioni linguistiche; niente sfuggiva. E, prima e dopo, lunghe conversazioni sullo sfondo di questi lavori, sulle cose che lui scriveva, anche sulla politica e sull’università. Ogni tanto ti passava un testo, o un lunghissimo articolo appena uscito in rivista (era sempre così: non scriveva libri, ma articoli che andavano dalle ottanta alle centocinquanta pagine, come se niente fosse), o un altrettanto lungo articolo ma ancora manoscritto, per chiederti un parere; oppure, una volta, quando si discuteva di riforma universitaria, una lettera scritta a un Rettore di non so quale ateneo, per contestare alcune decisioni recenti, come quella di poter restare in cattedra oltre i settant’anni (“un privilegio peloso”, diceva la lettera). Gli inediti tutti rigorosamente manoscritti, Mirri scriveva solo a penna, altri battevano i testi per lui (il come e il perché è spiegato bene ne La guerra di Mario, pp. 124-125).

 

Era un maestro perché sapeva ascoltare, oltre a raccontare a lungo, ti faceva sentire un interlocutore alla pari, su argomenti sia storici che politici. Ci ha guardato un po’ sornione, ma sempre curioso, all’epoca delle occupazioni universitarie del 1990 (la “Pantera”), ingenue, velleitarie, presuntuose, e fuori tempo massimo. In una di quelle assemblee, discutendo con un mio compagno di corso, ora parlamentare, che attaccava l’automazione della produzione automobilistica perché avrebbe creato disoccupazione, sollevò il sopracciglio perplesso, obiettando che la cosa non era così semplice. Sempre alla ricerca di un riformismo che riuscisse a tenere la barra della giustizia sociale, sapeva, e cercava di insegnarci, che era facile sbagliarsi, in un senso o nell’altro. Una volta, preso dalle mie letture sulle classi sociali in Francia nell’Ottocento, cercavo di spostare il discorso sulle classi sociali nell’Italia contemporanea, sui bassi livelli di retribuzione dei lavoratori salariati o dei piccoli artigiani. E lui: “Eh, ma devi tenere conto anche di tutto quello che non è visibile, dei tanti lavoretti che fanno e che non rientrano nel reddito dichiarato”. Mi sembrò un’osservazione di destra, ma la sua era una risposta da storico, attento al dettaglio: per definire il livello di reddito devi mettere insieme molti pezzi, anche quelli che sfuggono alla vista.

 

Abbiamo vissuto in presa diretta i cambiamenti della sinistra italiana, la crisi del PCI e la nascita del PDS, con tutte le perplessità di chi difendeva una classica prospettiva socialdemocratica, per quanto calata nella atipica situazione italiana (“Non bisogna cercare di fare il lavoro della destra, lo fa comunque meglio la destra”). Ero nel suo studio quando arrivò la notizia dell’attentato di via dei Georgofili, nel mezzo di una crisi politica e istituzionale profonda. Quasi non commentò, non capivamo, annaspavamo. Ma c’è sempre stata questa lucidità di vedere che la democrazia si difende secondo un disegno politico fondato su libertà, eguaglianza e diritti sociali (anche questo è chiarito bene nel suo libro-testamento: “ho sempre tenuto fede all’idea che qualunque proposta o soluzione politica deve includere il tentativo di contribuire a ridurre, per quanto possibile, l’ingiustizia sociale, nella prospettiva (sebbene utopica) di un mondo di liberi ed eguali”, La guerra di Mario, p. 71). Una volta sbottò, non ricordo più per quale ragione: “Ma bisognava opporsi comunque al fascismo, perché era una dittatura, anche se non ci fosse stata la persecuzione degli ebrei”. Il metro è la difesa della democrazia possibile, non l’orrore per lo sterminio degli ebrei, che è un fatto morale, pre-politico. E in questa ricerca di una linea democratico-sociale ma anche liberale raccontava ridendo la sua ingenuità giovanile: “Nel 1947 ho fatto la campagna elettorale per il PSDI, chi lo sapeva che poi diventava peggio della DC?” (anche questo raccontato in dettaglio ne La guerra di Mario, pp. 95 e sgg.).

 

3.

Infine, Mirri era un maestro anche in un senso tutto speciale del termine. Era stato uno dei “piccoli maestri” di Meneghello, il più giovane, che compare verso la fine del romanzo: Marietto. I piccoli maestri, si sa, alla lettera non sono affatto tali: sono degli outlaws, i “banditi di strada inglesi che con grazia e cortesia depredavano le carrozze”, passando però per i petits-maîtres francesi per definire con autoironia questi giovani ribelli “ipercritici e perfezionisti” (Maria Corti, “Introduzione” a Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Oscar Mondadori 1986, pp. XIV-XV): “Possedevamo una nostra tecnica, non ci sentivamo più apprendisti, ma maestri in proprio, gelosamente indipendenti da ogni scuola, rigorosi, esigenti. […] Arcigni nei concetti di fondo, garbati e quasi soavi nella fattispecie, non prendevamo nemmeno in considerazione l’idea di fucilare qualcuno villanamente. […] un gruppo di artigiani-artisti, dalla produzione severamente limitata […]” (Meneghello, I piccoli maestri, p. 200).

 

Mirri si unisce al gruppo nell’estate del 1944: “Lo mettevamo ultimo quando camminavamo in fila per uno, col suo bislungo 91 in spalla. La canna alta pareva un’antenna. Marietto era miope, vergine di naia, e con questo fucilone in spalla arrossiva di piacere. Era il più giovane di noi, matricola di filosofia, e bravissimo” (I piccoli maestri, p. 199). Ma retrospettivamente formula un giudizio severo sullo spirito “elitario” di questo nucleo: “Il gruppo ricostituito da Meneghello nel giugno del 1944 sotto Torreselle doveva essere un gruppo selezionato, composto di giovani più consapevoli: di fatto, tutti studenti, e prevalentemente studenti di liceo e Università; dunque eravamo appena una quindicina […]. Oggi sono convinto che quella di Meneghello fosse una scelta elitaria. Giuriolo [Antonio Giuriolo, “grande maestro” di Meneghello e Mirri nella lotta antifascista, in quel momento coordinatore politico provinciale dei gruppi partigiani nel Bellunese], invece, concepiva la Resistenza come una ‘guerra di popolo’, e per questo aveva tentato sempre di organizzare bande più numerose, composte prevalentemente da ragazzi delle classi popolari” (La guerra di Mario, p. 71). Figlio di un tecnico della Montecatini laureatosi in chimica da autodidatta, cresciuto in un ambiente familiare in cui dominavano mentalità scientifica e molto senso pratico, Mirri diffida dei voli letterari e filosofici dei suoi amici, e rimette in prosa storica, con questo giudizio, la brillante rappresentazione letteraria di Meneghello. Che avvertiva già questo dislivello all’epoca delle loro escursioni partigiane in bicicletta verso Padova: “Io e Marietto partimmo in bicicletta dalla sponda del lago, per la stradicciola di terra in mezzo ai campi […]. Mi misi a recitargli versi di Gozzano, del quale ammiravo la tecnica, e lui che era sospettoso verso le frivolezze della poesia, mi ascoltava con poco entusiasmo” (I piccoli maestri, p. 231).

 

Ma questi giovani erano anche i piccoli maestri della nuova Italia, cercavano di insegnare al Paese nato dopo il fascismo una nuova etica e una nuova politica. Mirri però non ha mai voluto fare l’“ex-partigiano” (“Non mi sono mai sentito un ex partigiano: ho cessato di essere partigiano il giorno della Liberazione”: La guerra di Mario, p. 115), non è mai andato in giro a fare conferenze o nelle scuole a raccontare la sua esperienza. Dopo la guerra si è messo normalmente a fare il suo lavoro. Poche volte ha raccontato qualcosa, in occasione di interventi sulla Resistenza. Ancora negli ultimi anni, nel 2015, per i settant’anni della Liberazione, fu intervistato da Radio3, e in particolare su un episodio raccontato da Meneghello, il progetto di uccidere un ufficiale fascista (“il Maggiore, la più grossa delle nostre vittime etico-politiche”: I piccoli maestri, p. 223). Nel romanzo viene raccontata nel dettaglio tutta la preparazione, ma Meneghello non dice come va a finire: “Quando fummo al punto giusto mi fermai ad aspettarlo, e in un momento lo vidi entrare nel mio mirino, coi suoi tristi pensieri; e lì in questo cerchietto di ferro lo voglio lasciare” (I piccoli maestri, p. 225). “Ma poi alla fine l’avete ucciso?”, chiede il giornalista a Mirri. “No, no, non l’abbiamo ucciso, non eravamo capaci”.

 

Per anni Mirri non ha mai raccontato niente sulla conclusione della sua esperienza da partigiano, quando venne arrestato dai fascisti (“Me lo arrestarono, Marietto, al principio della primavera […]”: I piccoli maestri, p. 247), pestato e torturato per diversi giorni, e si salvò solo perché erano ormai gli ultimi giorni, ci fu l’insurrezione e Padova venne liberata. Lo ha fatto solo alla fine, nel suo libro personale e postumo, e ora sappiamo meglio come è andata: “Sono stato arrestato alla fine del marzo 1945, a Padova, per un madornale errore […]. La mattina presto, a strade vuote, passando in bicicletta per via del Santo, presi una buca e mi cadde un pacchetto di stampa clandestina, che avevo collocato precariamente nel portabagagli sopra la ruota posteriore. I fogli si sparsero per terra ed io, non vedendo nessuno, frenai di colpo e scesi per raccoglierli; ma proprio in quel momento usciva da una caserma lì davanti un capitano dell’esercito: si avvicinò, mi puntò la pistola alla tempia e mi arrestò, portandomi in caserma, per poi consegnarmi alla Guardia Nazionale Repubblicana […]. Nella sede della GNR fui immediatamente interrogato, con i loro classici metodi, cioè torturato in vario modo, fino alle scosse elettriche” (La guerra di Mario, pp. 71-72). Mirri resiste, non tradisce (“Marietto in prigione non parlò punto, come avrebbe detto lui”: I piccoli maestri, p. 248) e viene trasferito, malconcio (“piagato e sanguinante […], non stavo in piedi, respiravo a fatica”: La guerra di Mario, p. 72), a Palazzo Giusti, dove si trovavano i torturatori del Maggiore Carità. Da lì viene liberato la mattina del 26 aprile.

 

Nei giorni successivi si fa curare e poi, grazie a Meneghello, trova alloggio con lui all’Antonianum, il Collegio dei Gesuiti. Da qui, qualche giorno dopo, escono insieme proprio il giorno in cui arrivano i carri armati degli alleati in città, sono i primi a incontrarli: “Ci mettemmo entrambi ad agitare le mani e le braccia e a fare segnali, nella speranza che si fermassero; ma quei carri armati proseguirono, regolarmente, sferragliando, diretti verso il centro. La guerra era finita e, senza entrare in agitazione e correre verso il centro, Gigi e io rientrammo all’Antonianum e andammo a letto” (p. 78). Meneghello, alla fine del romanzo, racconta lo stesso episodio in modo ben diverso: al posto di Mirri c’è Simonetta, la compagna di Meneghello, che ferma la “lunga colonna” (erano invece non più di tre o quattro carri), sale su un carro e fraternizza con i soldati. Mirri riporta tutto alla prosaicità del vero finale: “Certo, costruite così, le ultime pagine de I piccoli maestri sono più godibili rispetto a un finale i cui si racconta che, dopo avere visto i carri armati inglesi entrare in città, Gigi e io ce ne andammo a letto” (pp. 78-79).

 

Questo era Mirri: prosaico e leggermente ironico, senza retorica tragica, senza grandi visioni filosofiche o sociologiche (“Non amo questi che cercano di mettere le braghe alla storia”, mi disse una volta parlando di Weber), fedele ai fatti, ma pronto a fare lunghe analisi interpretative, per mettere a fuoco le idee giuste (le “pensate”, diceva), quelle che lasciano il segno.

(Firenze, 7 dicembre 2018)

[Immagine: Partigiani ad Asiago].

4 thoughts on “Per Mario Mirri. Ricordo di un maestro

  1. Bravo Mauro, bellissimo e fedele ritratto (unico neo: non hai ricordato il suo fedele basco!)

  2. Grazie Andrea. Già, il basco, hai ragione :)

    Aggiungo a chiarimento della foto iniziale che Mirri (“Marietto”) è il primo da sinistra, mentre il quarto, al centro, è Meneghello.

  3. Grazie per questo meraviglioso commento a 365 gradi sull’uomo che è stato, anche per me, un grande maestro di vita, come padre.

  4. Cara Francesca Mirri,
    grazie a lei per il suo commento, confesso che mi ha emozionato.
    Un caro saluto,
    mp

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