di Gilda Policastro
Le Historiae di Antonella Anedda parlano di rinnovamento cellulare, di manutenzione del dolore, ed esplicitamente di morte: senza enfatizzarne i traumi o sfumarne i contorni, ovvero senza pietà. Anedda ha il bisturi del verso per scandire le fasi dell’esistenza (storia privata più storia del mondo: ed ecco spiegato, semplicemente, il rinvio tacitiano del titolo), finché non ne esaurisce l’impressione di vita ma non di persistenza. Nelle poesie di Historiae ci sono tante immagini funebri: dall’armadio ingombro di vestiti dei trapassati, all’ombra che beve il latte dal frigo come facevano le anime omeriche col sangue, al padre che si seppellisce sotto «un cumulo di stoffa», per decidersi ormai tardi a «innaffiare/ le piante già secche sul balcone», alle dita della madre infilate nel ditale per l’ultimo rammendo. Anche la presenza dei colori che compaiono nel libro, soprattutto nella prima parte, si carica di predicati minacciosi: il verde-gelo, l’azzurro-fumo, la terra calva e gialla, il bianco metallo, il rosso-cupo, l’ora grigia. Eppure l’io che si esprime in versi non può concepirsi se non in uno spazio naturale perché plastico («entro con mia madre nella morte») e riformulare il tempo come fatto organico che si rinnova («ogni sette anni»). Il sentimento della natura (intesa come alberi, piante, mare e organi rotti, malsani, ospedalizzati), così quello del tempo, non ha nulla di spirituale: c’è poca o nessuna anima (a differenza che in altri poeti, soprattutto donne), come in un orizzonte premoderno o definitivamente postcristiano. Anedda è in grado di creare immagini di vita (e, dicevamo, di morte) in cui si fondono esistenze singole, private, personali e fenomeni di portata millenaria: la vita del cosmo e del corpo, dell’uomo e della schiuma, tutto diventa scienza del sentire (più che litania animista, alla maniera di certa poesia dissonante con l’oggi – e “femminile”, perché sbagliata). Il verso plastico di prima, «entro con mia madre nella morte», ha una chiusa riumanizzante («Lei ha paura») a rendere altrettanto plastico che la malattia e il corpo danno forma alle vite del pianeta, degli esseri, alla nostra singola, come accadeva già in Salva con nome, precedente raccolta: «pensò in termini di rosso, di lana gialla e ghiacciata:/ coaguli di cose». È sempre a partire da quella raccolta che lo spazio domestico si faceva aggressivo, proprio nelle sue forme più consuete e rassicuranti (la cucina, le porte, i panni da stirare). Qui un dettaglio su tutti: «il parrucchiere a casa», il toccante privilegio degli ammalati.
È maestra di dettagli, Anedda, e la poesia stessa è un ritaglio di vita, isolato e portato fuori dal contesto (con «effetto dislocante», direbbe lei con Daniel Arasse), usando insieme violenza e protezione: tagliare prelude al ricucire, al riportare ad uno. I dettagli riscrivono la pura percezione del reale entro l’ambito dell’immaginazione: meno precisione e più proprietà (dicendola stavolta con Leopardi), sembra il monito sottaciuto ma costante. Il dettaglio si può intendere infatti come parte minuta, individuata, disarticolata di qualcosa di più esposto: nel discorso corrente è l’aggiunta di un’informazione supplementare e particolare, oppure l’indugio su elementi di scarso rilievo. In Anedda non solo il dettaglio ha plasticamente rilievo, ma è qualcosa da cui derivare il senso della scrittura, a partire dal procedimento. Essenziale a comprenderne il valore e l’uso, il saggio eponimo, La vita dei dettagli (2009), in cui la formazione da storica dell’arte vale a guidare lo scrittore-viewer (ma anche il lettore, evidentemente) nell’osservazione: al contempo con concentrazione e spaesamento, mentre un’altra storia ci raggiunge proprio nel momento in cui fissiamo un particolare dell’immagine che si è offerta ai nostri occhi. I dettagli della poesia di Anedda sono elementi totemici, il primo dei quali è il buio, talmente ricorrente da investire anche la luce di un’impressione di attesa smarrita o di paura: «basta un sogno sbagliato e la luce rode dove non c’è riparo» (in Salva con nome). Ci sono poi la «tregua» (che torna in Historiae come invocazione al sonno e ai dolori fisici: «siate gentili durare tanto a lungo non è saggio») e, in connessione a questa, di nuovo il tempo, che scandiva i notturni mensili di Notti di pace occidentale o le età della vita («invecchiando») poste sullo stesso piano delle variazioni del tempo-meteo all’interno di una singola giornata, in Salva con nome. Il nome è un altro dettaglio, per Anedda: legame con la vita molto esile, se gli scheletri ci confonderanno, così le foto, nella loro fissità funeraria («il loro, il nostro nome sarà spazzato via tra poco?»). I dettagli sono i resti della trama (non a caso la sezione di Salva con nome intitolata Cucire omaggiava Bourgeois), l’attività calma e domestica quotidiana tradisce l’ambivalenza dello spazio di dentro, cui dalla tragedia euripidea, si accosta la donna: «siamo sopravvissuti almeno per sederci in cucina/ le mani sul tavolo, le teste in fiamme». Così non arriva a sorpresa, nell’ultimo libro, la definitiva rinuncia: «In questa cucina invasa dal vapore/non ho un viso e tantomeno un nome».
Nell’introduzione alla poesia di Anedda in Dopo la lirica (2005), Enrico Testa definiva quest’estrema concentrazione sul dettaglio «un guardare con pazienza agli spazi e ai momenti del vivere»: ciò che farebbe pensare a una vettorialità orizzontale, immanente, mentre è lo stesso Testa a notare come poi la verticalità si recuperi attraverso una altrettale concentrazione di pensiero sull’orizzonte «metafisico», oltre «la materia terrestre» e il suo «sobrio vocabolario». In altri suoi saggi Testa ha parlato del «senso di colpa» del sopravvissuto, in relazione alla poesia che il Novecento dedica ai morti e al colloquio con le ombre, da Montale a Sereni a Caproni. Per la poesia di Antonella Anedda più che di senso di colpa, si parlerà ancora una volta di spaesamento, essendo le ombre così prossime, così vicine a qualunque possibilità di esperienza del quotidiano da scambiarsi consistenza e posizione coi vivi: la figura che beve il latte dal frigorifero in Historiae è «spettrale soprattutto a se stessa/assetata di bianco».
La morte è una presenza viva e familiare anche soprattutto in relazione alle pretese affettive: «cerca tra le cose che ami quale morirà per prima», incipit dell’ultima poesia di Notti di pace occidentale, libro dedicato una volta di più al tempo che trascorre, nel passaggio simbolicamente terminale tra vecchio e nuovo millennio. Quella che Testa chiamava «metafisica» è forse, allora, più un’esplorazione creaturale deprivata di automatica commozione e nutrita di quella calma contemplazione della finitudine umana che imita o doppia Leopardi, eternamente diviso tra protesta e nostalgia. La dimensione di Anedda non è spirituale, ma non è nemmeno del tutto immanente e scientista: se la vita dell’uomo è un dettaglio, la vita dei dettagli è anche una ricerca del senso, da una prospettiva pacata e metodica, ossessiva e appassionata. Nelle ultime poesie il pensiero si fa metariflessione concentrandosi sul pronome interdetto alla poesia contemporanea:
Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica
ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome.
Al massimo lo declino al plurale.
Tale scelta si rivela però «falsamente magnanima», la terza persona «confonde», ma l’io può smarcarsi dall’aderenza empirica, virando verso l’oggettività dell’esperienza più intimamente umana e più oscenamente sovraesposta: quella che Anedda chiama in altro testo «putrefazione» (non a caso l’io era un involucro, «una busta come quelle usate per la spesa/piena di verdure o pesce surgelato»). Il dettaglio è dunque l’invocata «tregua» dal pensiero ossessivo della morte, in quella sospensione dello spazio e del tempo in cui l’uomo in sé è dettaglio: dalla vita millenaria dell’universo alle possibilità infinite di altri mondi che intravediamo col relativismo, senza persuadercene mai veramente. In questa sfida all’insignificanza della vita singolare, la maestria nel dettaglio è una grande lezione di scrittura, con quella speciale “chiarezza enigmatica” che affida il sovrasenso all’esperienza comune, anche se non alle parole di tutti (come nella canzone o nel romanzo contemporaneo, costretti ormai irreversibilmente a comunicare). «La poesia», scrive Anedda, «non è diversa da una stretta di mano»: il consueto e il vertiginoso si ritrovano al crocevia tra l’orrore e la pazienza, lo sbriciolamento e la ricomposizione. Il sottotitolo de La vita dei dettagli era per l’appunto Scomporre quadri, immaginare mondi: il dettaglio non è allora solo tregua ma anche rincorsa perenne del senso, perché «solo chi è inseguito conosce davvero la notte, davvero il respiro».
[Immagine: Foto di Luigi Ghirri].
“Kabir era considerato nell’India antica il più grande poeta vivente. Si diceva che dovesse la sua virtù nel comporre versi al suo lavoro di tessitore. Stando al telaio fin da bambino aveva adottato i ritmi delle canzoni per impostare i disegni e memorizzare gli schemi. In lui linguaggio e tessitura si fusero per comporre poemi e tessuti.
Anni fa, durante un viaggio in Tibet, vidi da un mercante di stoffe un tessuto di seta che proveniva da uno dei monasteri buddisti attorno a Lhasa. Il tessuto color indaco sul quale sono visibili caratteri tibetani e immagini devozionali è un’esemplare offerta votiva destinata a decorare le spalle di una sacra scultura. A un’occhiata distratta la sua superficie può sembrare liscia e priva di segni. Ma al più lieve movimento i raggi della luce rendono evidenti figure e parole scritte che risultano luminose su un fondo opaco”.
Isabella Ducrot. La stoffa a quadri. Quodlibet, Macerata, 2018. p. 67