di Paolo Costa
[LPLC si prende un periodo di vacanze natalizie. Per non lasciare soli i nostri lettori ripubblichiamo alcuni pezzi già usciti. L’intervento di Paolo Costa è stato pubblicato il 24 settembre 2018].
Sovranisti e Macroniani
Osservato dal punto di vista di un filosofo della politica formatosi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento – anni dominati dal dibattito tra liberali e comunitari – il repentino cambio di tenore della discussione nella sinistra italiana causato dall’esito delle ultime elezioni politiche è un fenomeno allo stesso tempo sorprendente (per la sua velocità) e prevedibile (negli esiti). Per andare direttamente al punto, descriverei il nuovo scenario come dominato dalla polarizzazione tra sovranisti e macroniani (o macrosovranisti e micromacroniani, come mi piacerebbe chiamarli, se l’ironia non avesse effetti nefasti sulla qualità del ragionamento, soprattutto oggi, nell’epoca del sadismo blasé incentivato dai social network). Parlando in generale, i sovranisti sono accomunati da un’insofferenza spiccata verso la rappresentazione liberale della relazione tra i diritti come fonte di empowerment individuale e l’anonimo potere coercitivo dello Stato e del Mercato – una rappresentazione che considerano allo stesso tempo sbagliata, moralista e ipocrita – mentre i macroniani vivono tale ostilità verso la teoria e la pratica di un ordinamento sociale imperniato su procedure rigorose e innovazione dall’alto come il prodotto di una critica unilaterale, preconcetta e ingenerosa e, nelle sue punte estreme, come un rigurgito di barbarie che ha reso inopinatamente verosimile la prospettiva di una catastrofe politica ed economica anche in Europa.
Per molti aspetti, il nuovo dualismo ideologico rispecchia quello tra il costruttivismo liberale e il realismo comunitario, ma l’umore che domina la conversazione attuale è molto diverso da quello passato. In che senso? La prima differenza – la più macroscopica – è l’inversione dell’onere della prova. Mentre trent’anni fa gli esponenti della koiné liberale godevano di un vantaggio di posizione che faceva apparire tutti i loro avversari, a dispetto delle differenze, come dei neotradizionalisti, oggi il senso comune liberale è sulla difensiva. Che cosa ha minato alle radici un’egemonia che a un certo punto era apparsa inattaccabile? Per quel che vale, quella che seguirà è la mia interpretazione, pennellata a tinte grosse, del significato storico di questa inversione del campo di influenza intellettuale a cui aggiungerò alla fine qualche riflessione sui buoni motivi per resistere alla svolta sovranista nel nome di una visione della democrazia non meno critica nei confronti dell’eredità (im)politica del liberalismo.
La parabola storica del liberalismo
Fin dalle origini il liberalismo è stato non solo una teoria del governo imperniata sulla salvaguardia delle libertà individuali, ma soprattutto una filosofia della civilité. Parlando di «filosofia della civiltà» mi riferisco essenzialmente all’invenzione e diffusione di un ideale di soggettività potenziata a cui corrispondono, dal lato della teoria, il primato sistematico dell’individuo sulla comunità di appartenenza, una visione procedurale della ragione e una concezione non paternalistica (e, in ultima istanza, non dialettica) del rapporto tra desideri e conoscenza. In un’ottica liberale, detto altrimenti, una concezione esile e volontarista dell’identità personale è la condizione per l’insediamento dell’idea di autoaffermazione come principio di legittimazione dell’ordine sociale e, tacitamente, anche come segnaposto dell’unica destinazione immaginabile del genere umano: la libertà dalle interferenze esterne in un piano di vita scelto dall’individuo in piena autonomia.
Nel liberalismo delle origini, fatte le debite eccezioni (Hobbes e Mandeville, su tutti) il potenziamento della soggettività mantiene una patina di nobiltà perché la libertà autentica dell’individuo si realizza non come capriccio, ma come progetto ragionevole. Si manifesta cioè nella forma seducente di un’autodisciplina spontanea, quasi che esistesse un’armonia prestabilita tra il desiderio umano e la razionalità strumentale, tra il soggetto desiderante e l’individuo deliberante, tra gli impulsi e i mezzi più idonei per il loro soddisfacimento. Le nuove discipline del corpo (per esempio le buone maniere studiate da Norbert Elias) costituiscono infatti una forma di soggettivazione il cui orizzonte ideale è il riconoscimento istintivo del proprio interesse più autentico e una forma di cooperazione basata non sull’altruismo, ma su una forma di egoismo socialmente non distruttivo.
È questa armonia prestabilita che è andata via via erodendosi a mano a mano che la società cooperante dei produttori e lavoratori si è trasformata per gradi in una comunità di consumatori e imprenditori del sé sempre più in balia di forze impersonali deresponsabilizzate sia dal lato del soggetto (vittima di un dedalo di desideri sempre più compulsivi) sia dal lato del mondo (la gabbia di acciaio di cui parlava Max Weber). In un caso da manuale di eterogenesi dei fini, l’effetto generale è stato un indebolimento crescente della soggettività, anziché un suo potenziamento.
È importante notare en passant come questa diminuzione del senso di padronanza del proprio destino è proceduta parallelamente a due processi all’apparenza indipendenti: (1) la progressiva spoliticizzazione delle società affluenti e (2) il declino del potere di attrazione dei moventi ideali, di cui la crisi delle utopie politiche è soltanto il sintomo più eclatante. Osservati dal punto di vista degli individui, questi processi storici complessi ed enigmatici sembrano avere cause sia esogene sia endogene. Tra le cause esterne un ruolo di primo piano spetta evidentemente alle trasformazioni economiche che hanno condotto alla globalizzazione del capitalismo e del suo modello di stabilizzazione dinamica basata su una forma apparentemente inarrestabile di distruzione creatrice. Tra le seconde spiccano, da un lato, la diffusione di una concezione strumentale della politica e di una visione aggregativa dei beni comuni e, dall’altro, la perdita di radicamento nell’esperienza dell’idea che il destino personale dipenda in modo significativo anche dalla capacità di trascendere se stessi mediante l’accesso a un dominio immateriale di contenuti ideali (verità oggettive, norme intersoggettive, beni architettonici, valori intrinseci, ecc.). Con l’assottigliamento di questi contrappesi la soggettività moderna si è come dissolta nell’aria lasciando dietro di sé il suo simulacro nella forma di un bizzarro edonismo stoico che, memore della lezione del barone di Münchausen, spinge i suoi adepti a scommettere sulla propria autorealizzazione anche in un universo saturo di contingenza e caratterizzato da una moltiplicazione esponenziale e disordinata delle opzioni di scelta.
Democrazia e sovranità
È da questa crisi del liberalismo in quanto senso comune della civiltà occidentale moderna che trae gran parte della sua forza persuasiva il realismo politico sovranista ed è sempre essa, di converso, a spingere i macroniani a insistere ancora di più sulla forza civilizzatrice della forma di vita liberale, vissuta ora ansiosamente come ultimo baluardo contro la barbarie. Questa polarizzazione, a sua volta, accentua l’impressione di trovarsi di fronte a un conflitto tra l’élite (composta da coloro che non hanno grosse difficoltà a superare lo scoglio della socializzazione alla civilité) e il popolo (identificato con quanti invece faticano ad adeguarsi con successo al nuovo modello di personalità e sociabilità). È da tale tensione che scaturisce, infine, quel fenomeno politico registrato dalla maggioranza degli osservatori contemporanei e descritto in genere come la disponibilità di una porzione crescente dei cittadini delle democrazie occidentali a rinunciare a una quota significativa di una libertà che viene percepita come disabilitante – «negativa» in senso assiologico – in cambio di una condizione che viene immaginata invece come più sicura o, se vogliamo, di maggiore sovranità.
Il cambiamento appena analizzato concerne quindi il senso generale di una perdita di controllo sul proprio destino che i sovranisti hanno oggi buon gioco a sfruttare proponendo una radicale ripoliticizzazione delle questioni fondamentali dell’esistenza. Nel loro orizzonte, in effetti, il concetto di sovranità funziona retoricamente come un surrogato del senso di empowerment che deriva dalla certezza tacita di poter influire sul proprio destino. A quella che le persone percepiscono come una perdita di sovranità personale i sovranisti rispondono astutamente proponendo un recupero di sovranità politica che, significativamente, situano al livello intermedio dello stato-nazione: la più tipica delle invenzioni politiche moderne.
Già questo dovrebbe però far suonare un campanello d’allarme nelle teste di coloro che non sono insensibili al fascino di un appello alla politicizzazione del disagio esistenziale contemporaneo (e chi scrive appartiene a questo gruppo di persone). La scelta dello stato nazionale come comunità di destino, infatti, non solo non è teoricamente innocente, ma è anche il sintomo di un punto cieco nel discorso sovranista, che ha una rilevanza speciale soprattutto per chi si pone l’obiettivo di declinare tale discorso in un’ottica socialista.
Provo a spiegarmi meglio. Il primo nodo riguarda, per così dire, la diagnosi del tempo. Se il sovranista è infatti uno che sostiene che la soluzione alla crisi del liberalismo risiede in un sostanziale recupero di sovranità da parte degli stati nazionali, la sua preferenza per una comunità che è non meno immaginata delle comunità cosmopolitiche a cui orienta idealmente le proprie scelte il cittadino liberale, è tutt’altro che ovvia. Anzi, proprio questo deficit di giustificazione porta alla luce un dato di realtà troppo spesso trascurato dai critici della globalizzazione: il fatto, cioè, che, retorica della globalizzazione a parte, gli stati non hanno mai smesso di essere i principali attori sulla scena politica internazionale. Sono solo gli stati deboli che hanno perso la capacità di esercitare un controllo reale sul proprio destino. Ma questa non è una novità nella storia umana. Forse una volta la causa principale della perdita di sovranità era la debolezza militare e oggi è la fragilità economica, ma il risultato finale non cambia. Da questo punto di vista, non è un caso che, preso atto della tendenza geopolitica a premiare entità statuali di dimensioni «imperiali» dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il fallimento del progetto di unità europea si spieghi meglio con l’incapacità dell’UE di trasformarsi in uno stato sovrano a tutti gli effetti e di entrare in una competizione paritaria con le altre grandi potenze mondiali, che non incolpando un fantomatico progetto globalista. Riletta in quest’ottica, l’insistenza sulla perdita di sovranità finisce così per rivelarsi per quello che è: una petizione di principio. Si riduce, cioè, a un appello accorato a completare o emendare il processo di costruzione di una forma moderna di statualità – compito storico per il quale, notoriamente, non esistono ricette funzionanti.
Il deficit argomentativo del discorso sovranista non si limita, però, alla diagnosi del tempo. Un secondo punto debole è la sottovalutazione della questione politica per eccellenza in età moderna: il problema, cioè, dell’autogoverno democratico. Identificare democrazia e sovranità popolare non è sufficiente infatti per rendere conto del primato della forma di governo democratica in materia di affermazione dei principi di libertà e giustizia. Per certi aspetti, lo si potrebbe persino descrivere come un errore concettuale. Si può infatti ragionevolmente sostenere che, da un punto di vista ideale, il fine della forma di governo democratica non è tanto implementare un’entità misteriosa come la rousseauiana volonté générale, quanto piuttosto svuotare dall’interno l’idea moderna di sovranità, con cui l’ideale dell’autogoverno ha soltanto un legame contingente. L’esercizio dell’autogoverno presuppone infatti l’esistenza di uno stato sovrano robusto solo perché non c’è altro modo di salvaguardare la propria integrità territoriale di fronte ad altri stati che privilegiano la sovranità all’autogoverno (cioè all’ideale repubblicano del non-dominio). Su questa intuizione, d’altro canto, poggiava la singolare miscela kantiana di repubblicanesimo, cosmopolitismo e federalismo.
Compresi in quest’ottica, gli appelli al rafforzamento identitario del demos non si giustificano da sé, quasi che fossero un requisito funzionale dell’autogoverno democratico. Lo sarebbero, se la democrazia coincidesse con l’espressione della volontà popolare. Ma non è così. La vera sfida delle democrazie contemporanee sta piuttosto nell’escogitare contesti di azione comune e spazi di identità collettiva sufficientemente inclusivi da rendere il pluralismo una risorsa politica anziché un fattore di destabilizzazione nella prospettiva dell’estensione degli ambiti di autogoverno. Idealmente, dal punto di vista democratico, una comunità politica funzionante non è esemplificata da uno stato che esercita pienamente la propria sovranità, ma da un popolo che prende forma intorno a una sfera pubblica che opera come teatro della pluralità dei punti di vista dei cittadini in condizioni di sicurezza, stabilità e solidarietà.
Una volta superato il dualismo, e il conseguente stallo, tra sovranisti e macroniani, sarà forse possibile ragionare insieme sulla vera grande questione a cui ci pone di fronte la crisi attuale del liberalismo e che, detto lapidariamente, consiste nella colossale spoliticizzazione della forma di vita occidentale e negli effetti imprevisti che questo fenomeno storico di lunga durata ha avuto sulla struttura della personalità degli attuali cittadini/consumatori/risparmiatori e, conseguentemente, sulla loro possibilità di riacquistare un senso affidabile di controllo sul proprio destino.
[Immagine: Banksy, Bandiera europea].
Per quanto riguarda l’UE non vedo alcun liberalismo all’anglosassone. Si tratta di ordo-liberalismo tedesco e il prefisso ordo non è certo casuale (dall’ SPD all’ NSPA i le filosofie troppo liberal individualiste in Germany mai attecchirono). Il paradosso Macron è che per cultura sarebbe piuttosto vicino agli anglosassoni (malgrado un cattolicesimo di fondo che in Francia è tanto più sospetto quanto più si vuole universalista) ma siccome i ricchi europei guadagnano soldi e posizioni sociali grazie all’euro, è costretto a difendere un liberalismo alla tedesca fondato sulla sciocchezza, tipicamente ordo-, del 3 %. Per fortuna in Francia, come in Spagna e in Italia, tale sciocco progetto sta naufragando contro la realtà. Dopo il naufragio bisognerà svegliarsi in fretta perché l’UE si rivelerà per quello che è: buon vecchio espansionismo economico tedesco già causa di due guerre mondiali -e già guardato con occhi luccicanti dalle suicide élite europee. L’Italia, come successo regolarmente nella sua storia, dovrà scegliere tra Francia e Germania. La seconda opzione non le ha mai portato molta fortuna.
Nell’attuale esperimento di superamento della Nazione, condotto in nome del mercato unico – il mercato è il nostro nuovo Sovrano per grazia di Dio – i propagandisti dell’internazionalismo e del globalismo accusano di tutti mali i “sovranisti”, razza dannata. I globalisti sono nemici della Nazione, e pertanto si fanno promotori all’interno dei singoli paesi di un “comunitarismo” di tipo tribale tendente alla separazione e all’esclusione reciproca tra un gruppo e l’altro; e spezzettano cosi’ i figli della Nazione in gruppi, sette, centri d’interesse, tribu’…
Il “comunitarismo” di oggi mira apertamente a demolire l’idea stessa d’identità e di unità nazionale, attraverso, appunto, questa sacralizzazione delle singole identità tribali. La solidarietà che un tal sistema intende introdurre al posto della coesione, dell’uguaglianza, e della lealtà e dell’amore per la Nazione, poggia sull’appartenenza al singolo gruppo e non si estende all’insieme del Paese, il quale è ridotto al ruolo di contenitore indifferenziato di identità particolari. È il ritorno al tribalismo, insomma. A un tribalismo anche planetario.
La stessa Unione Europea invece di voler divenire per gli Europei una grande patria (una nuova grande Nazione) ha abbracciato il credo mondialista, e ha adottato fino in fondo la logica del Mercato. Afflitta da una vergognosa denatalità, essa non fa che esaltare il Diverso, depositario di ogni virtu’ e presunta vittima, nei secoli, della nostra secolare cattiveria: fascismo, colonialismo, razzismo, omofobia, e tutto il resto. L’UE, termine che identifica un organismo soprattutto burocratico indebitamente assimilato a “Europa”, ha abolito i valori d’origine europei, ad esempio il cristianesimo, come punti di riferimento per il proprio sviluppo. Il tutto in nome di un fasullo ecumenismo che nega le differenze tra i popoli e che consacra, come governo di fatto, una superpagata élite burocratica senza radici e senza fedeltà.
L’Europa, vergognosa del suo passato e priva di una vera forza vitale – vedi la sua denatalità, con la celebrazione pero’ degli accoppiamenti omosessuali – rivela i tratti di una civiltà che si è esaurita e che è ormai disposta a farsi conquistare dal mitico “Diverso”, concentrato di virtu’ morali e anche fisiche. Trovo appropriato proporre queste righe scritte da Giuseppe Prezzolini in “Dio è un rischio” (Rusconi, 1979). “ Sarebbe curioso che l’anima, nata per la difesa del corpo, finisse per infiacchirlo e corromperlo, togliendogli la forza di vivere. Ci sono molti sintomi di questa malattia che sta scalzando le razze piu’ avanzate divenute disilluse e pusillanimi, timorose di compiere quegli atti decisivi che fino ad ora le hanno condotte alla potenza e alla ricchezza.”
L’effetto di questo “comunitarismo” multiculturale e “multivaloriale” è di tenere smembrata, frazionata, atomizzata la Nazione in una serie di collettività distinte per colore di pelle, origine etnica, appartenenza religiosa, stili di vita, pratiche sessuali, handicap fisici, passati nazionali; collettività o comunità unite a loro volta tra loro grazie all’ideologia del “mondialismo” che abolisce le identità nazionali… Ed è stata soprattutto l’immissione senza regole nella terra europea di popoli di culture spesso antinomiche alla nostra ad aver suscitato l’allarme in chi crede ancora nella validità della nazione e nella necessità dei suoi confini.
Da qui la reazione, in Europa, di larghe masse di gente autoctona, rimasta fedele, se non altro parzialmente, ai valori considerati da tutti fino a ieri sacrosanti, insegnati a scuola e oggetto di una miriade di statue e monumenti, e che nonostante la loro abrogazione di fatto, avvenuta a Bruxelles, vengono ancora esaltati negli inni nazionali.
“E’ ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione.
La classe operaia moderna è il nerbo delle nazioni, non solo per il suo numero, ma per la sua funzione economica e politica. L’avvenire della nazione riposa innanzi tutto sulle spalle delle classi operaie. I comunisti, che sono il partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro nazione se non vogliono troncare la loro radici vitali.
Il cosmopolitismo è una ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale, dei cartelli e dei trusts internazionali, dei grandi speculatori di borsa e dei fabbricanti di armi. Costoro sono i patrioti del loro portafoglio. Essi non soltanto vendono,ma si vendono volentieri al migliore offerente tra gli imperialisti stranieri.”
Palmiro Togliatti – Il patriottismo dei comunisti (Rinascita 1945)
“Il vero Essere, era stato affermato nella Logica, è l’Universale, il quale è in se stesso individuale e ha in sé il particolare. Questo vero Essere, definito nella Logica concetto, ritorna ora come Stato, in cui si manifestano concretamente la Ragione e la Libertà.
Esso è ‘L’Universale’ che ha sviluppato la sua vera razionalità’ e rappresenta l’identità della volontà generale e della volontà particolare’. Lo Stato rappresenta ‘l’incarnazione della libertà concreta, in cui la persona e i suoi particolari interessi trovano il loro completo sviluppo e ricevono un adeguato riconoscimento dei loro diritti’.
Gli interessi particolari degli individui non devono in nessuna circostanza essere trascurati o repressi; tutto dipende dall’unione dell’universalità e della particolarità dello Stato.
[…] L’idea liberale dello Stato veniva così demolita.
Affinché lo schema dell’ordine sociale costituito non venga infranto, l’interesse comune deve dipendere da un’istituzione autonoma e l’autorità dello Stato deve essere posta al di sopra del campo di battaglia tra gruppi sociali in concorrenza.
Lo Stato ‘deificato’ di Hegel non può in nessun modo essere messo a confronto con quello fascista. Quest’ultimo, infatti, rappresenta proprio quel livello dello sviluppo sociale che lo Stato di Hegel doveva evitare, cioè il dominio diretto e totalitario sull’insieme da parte di interessi particolari (di classe)”.
Herbert Marcuse – Ragione e rivoluzione
“Le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della questione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte di maggioritari (nota: Bolscevichi) se vede che la loro originalità coniste nel depurare l’internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica.
Il concetto di egemonia è quello in cui si annodano le esigenze di carattere nazionale e si capisce come certe tendenze di tale concetto non parlino o solo lo sforino. Una classe di carattere internaizonale in quanto guida di strati sociali strettametne nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve ‘nazionalizzarsi’, in un certo senso, e questo senso non è d’altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di un’economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di naizoni) possono essere varie.
Che i concetti ‘non nazionali’ (cioè, non riferibili a ogni singolo paese) siano sbagliati si vede per assurdo: essi hanno portato alla passività e all’inerzia in due fasi ben distinte: 1) nella prima fase, nessuno credeva di dover cominciare, cioè riteneva che incominciando si sarebbe trovato isolato, nell’attesa che tutti iniseme si muovessero, nessuno intanto si muoveva e organizzava il movimento;
2) la seconda fase è forse peggiore perché si apsetta una forma di ‘napoleonismo’ anacronistico e antinaturale (poiché non tutte le fasi storiche si ripetono nella stessa forma).
Antonio Gramsci – Note sul Machiavelli, la politica, e lo Stato moderno, in Quaderni dal carcere
“Il compito della teoria del nazionalismo deve abbracciare entrambi i corni del dilemma.
Essa deve vedere il fenomeno nella sua totalità, in un modo che si innalzi al di opra di questi aspetti ‘positivi’ e ‘negativi’. […] (Tali) distinzioni non implicano l’esistenza di due tipi di nazionalismo, uno sano e uno malato. Sia progresso che regresso sono iscritti infatti nel codice genetico di principio’ (Tom Nirin, cit.).
Nè quest’insistenza sul carattere simultaneamente ideologico e utopistico del fenomeno nazionale è un problema meramente teorico.
Al contrario, è sempre chiaro nel mondo d’oggi (semmai fosse stato in dubbio) che una sinistra che non sia in grado di capire l’immensa attrazione utopistica del nazionalismo (non più di quanto sia in grado di comprendere quella della religione e del fascismo) non può avere molte speranze di riappropriarsi di tali energie collettive ed è inevitabilmente condannata all’impotenza politica”.
Frederic Jameson – L’inconscio politico
“La questione coloniale rinviando a quella nazionale, vale a dire ad un’emancipazione che si può realizzare solo attraverso il riconoscimento del diritto dei popoli oppressi a costituirsi quali Stati nazionali indipendenti, chiama alla storica resa dei conti alcuni presupposti ingenui del marxismo occidentale: l’estinzione dello Stato, la fine dell’economia del denaro, la sfiducia nella scienza-tecnologia, una visione restrittivamente sciovinista dell’idea di nazione.
E dunque, mentre a Oriente il marxismo si concentra sulla questione coloniale attraverso un tormentato processo di apprendimento che andava a ridefinire il ruolo della nazione, dello Stato, dello sviluppo economico, a Occidente questo processo non viene compreso nella sua drammaticità e nella sua forza costruttiva.
In questo caso a condurre alla divaricazione è la lettura che in Occidente marxisti come il giovane Lukács, Bloch, Benjamin fanno dello Stato alla luce dell’apparato statale e militare quale espressione della volontà di potenza e di conquista e del nazionalismo che ha trasformato lo Stato-nazione in una macchina di morte e distruzione.
La giusta critica che si fa alla connotazione che in un determinato periodo storico la forma Stato assume viene generalizzata in una critica assoluta che identificando Stato, potere, dominio e violenza sfocia in toni anarcoidi.
Toni che evidenziano la carente comprensione della lotta che i popoli coloniali iniziavano a rivendicare non solo per liberarsi dallo sfruttamento economico, ma anche per il riconoscimento della loro capacità di autogovernarsi: «a ispirare la rivoluzione dei popoli coloniali è la parola d’ordine non di “uno Stato in via di estinzione”, bensì di uno Stato in via di formazione» (p. 10).
È ancora una volta la parola d’ordine del marxismo-leninismo ereditata alla luce della concreta situazione di oppressione e di disprezzo in cui si trovano i popoli colonizzati, si pensi soprattutto alla Cina di Mao, ad esigere la formazione di Stati nazionali indipendenti tanto necessari per liberarsi dall’oppressione del colonialismo e dell’imperialismo”.
Elena Fabrizio su “Marxismo occidentale” di Domenico Losurdo – Sinistra in rete
“Per un verso, non possiamo non renderci conto di una integrazione economica in costante aumento, la quale spinge oggettivamente nella direzione di un essere economico unitario del genere umano.
Anche la nazione difatti non avrebbe potuto imporsi come forma di unità più ampia senza la base di questa tendenza all’integrazione economica […].
Per l’altro verso, vediamo con quanta forza le tendenze unitarie integrarsi in nazioni si oppongono a tutte le forme nuove di unificazione a livelli economici più alti […]”.
Se finiranno per fondersi completamente l’una con l’altra, come i normanni e i sassoni in Inghilterra, oppure continueranno a esistere fianco a fianco come nazioni (etnie), al modo degli scozzesi, gallesi, ecc.?
Ancora in Inghilterra è un problema di sviluppo sociale (politico), che in pratica non tocca il momento evolutivo generale (arretramento delle barriere naturali) e di regola è riconducibile a tendenze concrete presenti nello sviluppo socio economico […].
Il processo sociale, in quanto adattamento attivo dell’uomo al suo mondo ambiente, in quanto trasformazione di tale ambiente in base ontologica al servizio dei bisogni sociali, fa sì che le unità sociali concrete, ogni volta in funzione, non posseggano per principio un carattere fissato definitivamente […]”
Gyorgy Luckàcs – Ontologia dell’essere sociale
Tutti sul neonato mondialism.com che ho l’onore di coordinare (ma non mi paga nessun Soros, ahime’)!