di Sergio Benvenuto
[LPLC si prende un periodo di vacanze natalizie. Per non lasciare soli i nostri lettori ripubblichiamo alcuni pezzi già usciti. Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2018].
Da mesi, dopo la sconfitta elettorale della sinistra del 4 marzo 2018, si moltiplicano esortazioni e ammonimenti al PD da parte di gente comune e di intellettuali. Tutti ripetono più o meno la stessa cosa: che la sinistra ha perso il contatto con la gente, che occorre tornare ad ascoltare chi si duole nelle periferie, che occorre una politica che aiuti i più deboli, ecc. ecc. Sembra quasi la nenia incessantemente ripetuta Namu Myōhō Renge Kyō del buddismo Nichiren. Queste virtuose sollecitazioni, se applicate però alla realtà politica, rivelano la loro intrinseca vuotezza.
Che si debba andare tra la gente ad ascoltare le loro lamentele, è certamente cosa necessaria. Ma la gente non vuole solo politici a cui parlare, vuole anche che siano i politici a fare proposte, tanto meglio se demagogiche (che siano poi realizzabili o meno, conta poco). Lega e M5S sono andati tra la gente agitando queste parole d’ordine: aboliamo la Fornero! (Lega e M5S) Armiamo la gente contro i ladri! (Lega) Mettiamo il reddito di cittadinanza! (M5S) Tagliamo le tasse! (Lega) Fermiamo l’ondata di migranti e cacciamone un bel po’ (Lega) Togliamo i vitalizi ai parlamentari! (M5S) Proposte precise, anche se alcune – per me – deleterie. La sinistra invece è andata alle elezioni esaltando semplicemente il modo in cui ha governato per cinque anni (PD) o agitando i soliti filosofemi di Libertà ed Eguaglianza (LeU). Nessuna proposta concreta per attirare voti. Possibile che la sinistra non si sia resa conto che la massa della gente non vuole affatto più eguaglianza (economica)? L’eguaglianza è un dato statistico, coefficiente Gini, mentre quel che importa a ciascuno è stare meglio. Ciascuno vuole avere di più di quel che ha, non essere eguale. Anche chi è benestante piange miseria e vuole di più.
Quasi tutte le forze politiche praticano oggi una retorica populista, dall’estrema sinistra (“Potere al Popolo”) fino all’estrema destra del popolo nazionale e identitario. Tutti dicono che vogliono fare il bene del popolo nel suo insieme. Ma si tratta di un raggiro, perché il popolo non è una massa coesa con uguali interessi, bensì una miriade di interessi e richieste per lo più tra loro contraddittorie. Gli interessi di chi lavora non sono gli stessi di chi non lavora, di quelli del Nord non sono quelli del Sud, alcuni vogliono pagare meno tasse altri invece vogliono essere più assistiti grazie alle tasse pagate da altri, alcuni vogliono più facilmente evadere le tasse e altri invece vogliono che tutti le paghino… All’interno di una stessa persona possono agitarsi esigenze tra di loro di fatto contraddittorie: la più tipica, volere pagare meno tasse e avere più servizi pubblici efficienti. E’ demagogia quindi invocare “politiche per il bene di tutti”. Non esiste un bene per tutti. Se si dà qualcosa a qualcuno, si toglie ad altri.
Il solo slogan che una sinistra che si voglia tale potrebbe fare proprio è quello che i grillini – oggi magari piuttosto dimaiani – hanno chiamato pomposamente reddito di cittadinanza. E in effetti il governo Gentiloni aveva introdotto il “reddito di inclusione” che gli è molto simile, ma troppo poco, e senza strombazzarlo come si deve strombazzare, ormai, in politica. Si tratta di un ammortizzatore sociale che altri paesi europei hanno, e che di solito assume questa forma: se non hai lavoro, io stato ti do dei soldi e ti cerco il lavoro; se rifiuti due o tre lavori che ti propongo, perdi il sussidio. Mi chiedo perché la sinistra non abbia puntato tutto su questa riforma, cercando di togliere ai dimaiani quello che gli americani chiamano issue ownership, ovvero l’aver lanciato per primi un dato tema.
E’ interessante che le critiche alle misure del governo giallo-verde (non a caso nessuno lo chiama governo Conte) che vengono oggi da sinistra non riflettano bandiere o utopie della sinistra, ma semplicemente quelle del buon senso amministrativo. Un tempo si accusava la sinistra di non avere una cultura di governo. Umberto Eco ricordava un aneddoto del 1996, quando la sinistra per la prima volta vinse le elezioni. Un’anziana militante andò a congratularsi con D’Alema dicendogli: “Adesso sì che potremo fare una opposizione efficace!” Eco lo citava per lamentare la mancanza di una mentalità governativa a sinistra. Bisogna dire però che negli ultimi anni la sinistra (ovvero il PD) ha preso una mentalità di governo, non diversamente dalle altre socialdemocrazie occidentali – e proprio per questo ha perso una barca di voti a favore dei dimaiani. Avere senso di governo significa capire che fare riforme troppo generose costa troppo, e che alla fine, per l’eterogenesi dei fini, quelle riforme concepite per servire il popolo finiscono con l’affamare il popolo. Per chi non volesse capirlo, ce lo ricorda il “bolivarismo” del Venezuela: Chávez e Maduro, per sostenere la povera gente, hanno prodotto più povertà e l’emigrazione all’estero di milioni di venezuelani… Ormai la sinistra che ha messo la testa a posto sa che in politica non si può fare quello che si vuole, che non basta sbraitare contro i mercati, le banche, l’Europa, la troika, ecc., che ogni sistema economico-politico è molto complesso, e che non basta volere il Bene per fare bene. Per questa ragione, si dice, la sinistra ormai è quasi indistinguibile dalla destra, nella misura in cui entrambe governano. E’ proprio così, e così la sinistra – almeno quella rispettabile, per chiamarla così – ha rinunciato alla demagogia. Diciamo che è diventata troppo seria… Siccome però viviamo in un mondo dove invece la politica diventa sempre più demagogica, dove sembra di stare sempre in campagna elettorale (“argomenti deboli, urlali forte” diceva un politico americano), è evidente che la sinistra di governo perde colpi dappertutto. Ormai per vincere bisogna spararla grossa, più una misura è insostenibile più attrae consenso.
Fa perciò impressione vedere esponenti di sinistra anche radicale tirare le orecchie ai nostri nuovi governanti in nome dell’equilibrio di bilancio, della riduzione dello spread, della crescita della Borsa, della riduzione dei costi pubblici: hanno l’aria di pignoli economi di un’azienda, ma certamente questa opposizione “saggia” non scalda alcun cuore. Perché i cuori sono irrazionali, e la sinistra è diventata razionale, saggiamente grigia.
Certamente alcune riforme indispensabili per il rilancio economico – ovvero, per creare più lavoro e più ricchezza – sono state fatte dalla sinistra. Fu il capolavoro di Schröder a cavallo del 2000: una serie di riforme dure, certo non “socialiste”, che hanno però permesso alla Germania di uscire dalla crisi e di ridiventare la locomotiva economica dell’Europa. Schröder divenne impopolare, ma ha messo la Germania sulla retta via. E discorsi analoghi si potrebbero fare per il Jobs Act italiano e per la Loi Travail di Hollande. La conversione della sinistra “rispettabile” al realismo pragmatico ha certo creato in certi paesi una forte reazione di sinistra radicale, come è stato il caso di Bernie Sanders in US, di Corbyn in Gran Bretagna, di Mélenchon in Francia, e di Tzipras in Grecia (prima che anche Tzipras uscisse dall’eterna adolescenza della sinistra e diventasse un politico maturo, cioè disincantato). Ma la reazione alla “saggezza” della sinistra assume per lo più forme di destra xenofoba e sovranista – Lepenismo, Lega, Afd in Germania, Trump in US, ecc. Perché le classi meno favorite ormai in tutto l’Occidente stanno slittando dalla sinistra alla destra. E’ un ribaltamento più che epocale. Per circa 150 anni essere povero era un buon indicatore di voto a sinistra, oggi essere povero è un buon indicatore di voto a destra estrema. Dopo un secolo e mezzo, è cessata la sintonia tra i meno abbienti e le élite intellettuali (di sinistra): una rottura catastrofica.
Perché la realtà è questa ormai: i ceti più poveri – culturalmente ed economicamente – non credono più allo slogan classico della sinistra, “più eguaglianza”, ma alle sirene identitarie. Io nel mio piccolo ho provato a spiegare il perché. Ovvero, nelle periferie povere delle grandi metropoli quel che sembra essenziale è: meno emigranti (e magari nessuno), più repressione della piccola criminalità (anche se da decenni la criminalità diminuisce in Occidente), più rispetto per i valori tradizionali della “mia parrocchia”. La sinistra rivincerebbe tra i più sfavoriti se facesse proprie queste istanze, ovvero, se smettesse di essere sinistra.
Perché allora questa spettacolare inversione, per cui i quartieri bene delle metropoli votano per la sinistra e i quartieri più sgarrupati per la destra? Perché i benestanti e più colti credono meno nella demagogia, dato che hanno meno rabbia in corpo. Chi sta meglio è mero adirato. Chi vota oggi a sinistra pensa che la nostra vita nelle società più industrializzate non è certo la migliore delle vite possibili, ma è, tutto sommato, la migliore rispetto a tutte le altre sparse per il pianeta, in paesi non industrializzati o non democratici. Così, in tutto l’Occidente la sinistra ha assunto le posizioni, rimaste sempre minoritarie, del partito radicale di Pannella e Bonino qui da noi: fondamentale accettazione del liberalismo globalizzato, puntare tutto sull’estensione dei diritti civili, ovvero delle libertà individuali e delle minoranze.
Negli ultimi decenni lo stato, ovvero la politica, ha perso molto potere nei confronti dell’economia. Le banche centrali si sono del tutto autonomizzate rispetto al potere politico, il mondo finanziario si è globalizzato sfuggendo ai controlli degli stati, le multinazionali trovano il modo di non pagare le tasse… Negli stati democratici, questo significa semplicemente che la democrazia – e quindi la politica che essa genera – perde colpi rispetto ai mercati e all’economia in generale. Da qui la paradossalità dell’odio per i politici: sono sempre più disprezzate figure elette democraticamente, anche se di fatto perdono sempre più potere nel regolare la vita economica dei propri paesi. Il cosiddetto populismo – in cui includo il nostro governo italiano – sembra essere quindi un tentativo di riscossa della politica, ovvero della democrazia: ci si ribella ai meccanismi economici che sfuggono a qualsiasi controllo politico. Ma i tentativi sovranisti – che sono di fatto tentativi di dare più spazio alla politica – si infrangeranno sempre, prima o poi, di fronte alla sovranità dei mercati e delle istituzioni economiche (borse, grandi banche, multinazionali, banche centrali).
Il paradosso è che la sinistra ha sempre combattuto per dare il maggior spazio possibile alla politica (quindi allo stato) contro gli automatismi economici, ma oggi le parti si sono rovesciate: sono demagoghi come Trump o Boris Johnson o Salvini che si ribellano all’internazionalizzazione dell’economia e rivendicano un potere decisionale alla politica, che resta essenzialmente politica nazionale. L’utopia è scivolata dalla sinistra alle destre estreme e ai populisti. La sinistra ha cessato di essere cultura di opposizione, e proprio per questo perde il governo.
Qualcuno chiederà allora: che cosa deve fare la sinistra? Credo che la sinistra debba fare meglio quello che già fa: richiamare alla ragione attraverso scritti, discorsi, comportamenti. Persuadere sulle posizioni che la caratterizzano: combattere la povertà tagliando sprechi e privilegi; accettare l’immigrazione come grande opportunità mantenendo però il controllo dei flussi; integrare al meglio gli immigrati dando loro diritti e protezione; ampliare l’area dei diritti civili (matrimonio gay, diritti e parità delle donne, diritto a morire); diminuire la pressione fiscale sulle imprese produttive; lottare contro l’evasione fiscale e contro la corruzione; rendere efficiente la burocrazia oggi vessatoria; investire di più nelle regioni più arretrate…. In breve: fare come hanno fatto e fanno i paesi scandinavi, paesi con meno problemi degli altri. Non sono questi i tratti che distinguono uno che vota la sinistra non radicale? Certo, anche se deve sapere che, con queste proposte, andrà incontro a una lunga serie di sconfitte.