di Franco Arminio
[Franco Arminio ha fatto parte dei collaboratori fissi di LPLC dal 2011 al 2014. Questo testo è uscito il 12 dicembre 2012].
Noi diamo agli altri sempre una parte di noi stessi anche quando ci sforziamo in ogni modo di dare tutto, di andare oltre. Anche nell’amore più vivo, più infiammato rimane qualcosa in noi che non ci lascia, che non prende la via dell’altro. E così fanno anche gli altri con noi. Ci accolgono, ci sorridono, ci fanno grandi promesse, ma poi tramonta il sole, arriva la notte, poi c’è il giorno dopo. Sono anni che penso alla macchina di demolizione che è il giorno dopo. Fai un incontro con tante persone, si parla di politica, di letteratura, si parla con calore, pare che tutti vogliano iniziare una vita nuova, pare che abbiamo trovato una casa per tutti e per tutto. E invece niente, il giorno dopo cadono i ferri dalle mani, l’intreccio è perduto, il filo spezzato. Accade così anche negli incontri d’amore. Ogni volta proviamo a raccontare il nostro guasto per intero, proviamo a raccontare il nostro naufragio senza fine. Sembra che veniamo accolti, ma qualcuno vuole asciugarci un braccio, qualcun altro vuole asciugarci un piede.
Quello che non pare possibile tra esseri umani è essere presi interamente. Solo la morte ci prende interamente, non scarta niente di noi. Se mi butto dal balcone la morte si prende il mio corpo, si prende le mie storie, le mie paure, i miei desideri. La morte non sceglie, non dice che ha altro da fare, è sempre a nostra disposizione, non è mai distratta. Ci accoglie, non ci dice che è troppo presto o troppo tardi, la morte non ha mai altri impegni, non è mai disinvolta. La morte è con noi se noi vogliamo. Forse arriva un momento della nostra vita in cui dobbiamo davvero arrenderci, rassegnarci. In me c’è un sogno, uno solo, è il sogno di incontrare una persona con cui è possibile sfasciarsi assieme. Il mio è il sogno di un amore disumano. Non è questione di fedeltà, di assiduità, di coerenza. Non è neppure questione di rispetto, di attenzione per l’altro. In questo fiume siamo sassi aguzzi, coccodrilli a bocca aperta, siamo spine negli occhi. Io continuo ad avanzare, a proporre il mio sogno. So che è incomprensibile.
Ognuno di noi è incomprensibile, intraducibile. Comincio a pensare che le relazioni sociali e quelle intime alla fine si reggono propria grazie al fatto che noi non entriamo mai davvero in gioco. Quando questo accade, quando ci spingiamo veramente fuori ci accorgiamo che nessuno ci vuole, che nessuno sa che farsene di noi. Il mondo è indisponibile e gli altri non ci sono. Noi siamo indisponibile e non ci siamo. Bisogna farsene una ragione. Dio, le poesie, i palazzi, tutto quello che c’è in giro e nella nostra testa è la prova che non c’è niente da fare, che possiamo solo fare qualche smorfia, qualche prova. a cui crediamo sempre meno. La novità di quest’epoca è proprio il fatto che la forma umana mostra di non reggere. Non solo per le scelte che abbiamo fatto in campo politico ed economico. Non regge l’idea della crescita e del ricavo nel momento in cui diventano idee democratiche, alla portata di un numero grande di persone. Non regge la forma umana del nostro sentire gli altri, del nostro amarli, del nostro tradirli. Non abbiamo più consistenza e non sappiamo accogliere l’inconsistenza. Ci annoia la coerenza e ci indigna l’incoerenza. Siamo delle bestie che non possono usare la loro ferocia, degli angeli che non possono usare le loro ali. Abbiamo messo noi stessi e la vicenda umana in uno spazio piccolo e senza luce. Per uscire, per avere ancora terra e cielo dentro e davanti a noi, adesso dobbiamo celebrare la nostra fine, chiudere col fiocchetto della morte questo lungo disordine che chiamiamo vita e vedere se resta qualcosa, vedere se c’è un oltre, se c’è un prima, se c’è qualcosa al fianco dell’umanità che abbiamo trascurato, qualcosa in cui versare il sacchettino della nostra avventura.
[Immagine: Spencer Tunick, Der Ring des Nibelungen, Monaco di Baviera, 2012 (gm)].
Ma non è un po’ banale? Poi, queste metafore sensualdecadenti…
“La morte è con noi se noi vogliamo”. Purtroppo anche se non vogliamo.
E’ un pezzo molto particolare, perché è banale, ma allo stesso tempo non sta in piedi neanche a puntellarlo (le metafore sensualdecadenti sparate fuori senza badare a spese si afflosciano una dopo l’altra come soufflé malriusciti).
Già il fatto di mettere insieme le relazioni sociali e quelle intime (di mettere sullo stesso piano un ambito in cui un certo grado di dissimulazione e di ipocrisia – Molière docet – è richiesto e necessario, e un altro invece in cui dissimulazione e ipocrisia dovrebbero essere, se non assenti, almeno fortemente ridotte) testimonia del carattere raffazzonato del pezzo.
Vorrebbero essere le riflessioni di un “moraliste”, ma i moralisti erano precisi e le loro metafore esatte, mentre qui una pretesa “letterarietà” è il lasciapassare per il pressappoco e l’effetto a buon mercato ( “qualcosa in cui versare il sacchettino della nostra avventura” – ma che è? Per non parlare della ferocia delle bestie e delle ali degli angeli, ma perché non la corda tesa fra la bestia e il superuomo).
Il fatto è che su queste mistificazioni Franco Arminio ci ha costruito una bella carriera, il che la dice lunga sui livelli – sotterranei – raggiunti dal gusto del pubblico, e per di più di un pubblico che si considera raffinato.
In questo senso, Franco Arminio è una parte del problema denunciato da Franco Arminio.