[Questo articolo di Massimo Raffaeli, collaboratore della prima ora di LPLC, è uscito il 14 giugno 2018 ed è tratto dal numero 4 della nuova serie di «nostro lunedì», periodico di scritture, voci e immagini ideato e diretto da Francesco Scarabicchi].

di Massimo Raffaeli

 

Non è che Dondero fosse seduttivo, perché era ammaliante. Si trattava di un talento nativo, prima che elettivo, quasi l’effetto di ricaduta della sua semplicità o di una forma di umiltà capace di disporlo all’incontro con gli esseri umani senza il diaframma di alcun pregiudizio. Semplicemente lui era curioso della umanità dell’altro e all’altro devolveva la propria nella forma di un dono fortuito, tanto gli era naturale farlo. E nessuno, nessuno, sapeva resistergli e chiunque abbia avuto la fortuna di incontrarlo ne possiede la prova tangibile. Che Dondero fosse un individuo la cui humanitas era letteralmente persuasiva (“soave” è l’aggettivo che ne richiama infatti l’etimologia) deve averlo provato su di sé, per esempio, lo scrittore impenetrabile per eccellenza, un nemico dichiarato del genere umano, impassibile e algido nella sagoma grifagna e quasi spettrale, ovviamente Samuel Beckett.

 

L’aneddoto tante volte reiterato da Dondero (perché l’epica affabulatoria, qui va detto, era parte integrante della sua leggenda di fotografo nomade e di uomo ubiquitario) vuole che un giorno egli si appostasse davanti a un villino della banlieue parigina spiando o forse solo indovinando i gesti di un uomo acquattato, il quale tentava invano di abbassare le tapparelle di casa e così di rendersi invisibile al di là del cancello. Quell’uomo era Beckett ma (e non si sa dopo che genere di abboccamenti e parlamenti o di miti trattative: Dondero in effetti non trattava ma semmai, ammaliando, si imponeva) fatto sta che cedette e si lasciò fotografare. Dondero deve avergli prestato, per l’occasione, o deve avere proiettato su di lui una quota della propria mitezza e simpatia, tant’è che i suoi ritratti beckettiani, del tutto anticonvenzionali, ritraggono un individuo posato, distratto e come arreso al contesto quotidiano. (Vale a dire un Beckett in qualche modo postumo rispetto al cipiglio da uccello rapace, un Beckett che pare più vecchio dei suoi anni o sembra un qualunque anziano finalmente liberatosi della corazza). L’altro scatto che Dondero vagheggiava da sempre tuttavia lo mancò.

 

Arrivando a Parigi in pieno dopoguerra il suo credo era scritto nella poesia di Eluard, J’écris ton nom Liberté, il suo quartiere Saint-Germain, i suoi maestri (ma oggi si dovrebbe dire i suoi compagni di via) Robert Capa, Albert Camus, Jean-Paul Sartre. Confesserà di avere letto per la prima volta in quegli anni il Voyage au bout de la nuit, senza troppo intenderne il gergo ma ricevendone la suggestione del ritmo pulsionale e lo spiazzamento di una voce che parla dal basso della vita. Aggiungerà di averlo ripreso molte volte in mano subendone via via la musica infera, la violenza stilizzata dove esplodono i tabù secolari del capitalismo, dell’imperialismo e del colonialismo. Dondero allora non sapeva che Louis-Ferdinand Céline, l’ex collaborazionista e feroce antisemita, aveva proclamato senza mezzi termini di avere scritto l’unico romanzo “comunista” del secolo. Dondero non lo sapeva ma l’avrebbe sottoscritto, lui che non teneva per sé neanche i libri che amava, prodigandoli agli amici e ai compagni, e però non avrebbe mai potuto separarsi dalla copia sgualcita del Voyage che col tempo aveva imparato a memoria e che lo accompagnava ovunque: ora giace nel piccolo scaffale dell’ultima dimora, a Fermo, in vicolo Zara. Nell’autunno del ’60 non ebbe comunque bisogno di appostarsi a Meudon dove Céline viveva rinserrato con sua moglie Lucette, la ballerina, e una muta di cani. L’appuntamento era fissato e lì Dondero avrebbe accompagnato il suo amico Giancarlo Marmori, raffinato scrittore, per un servizio da inviare all’”Espresso”. Ma il giorno prima squillò il telefono e Lucette in persona disse che il dottor Destouches era malato e non avrebbe potuto riceverli. Non se ne fece più nulla. Céline morì pochi mesi dopo, il 1° luglio, e a Parigi come in tutto il mondo i giornali aprirono con la notizia del suicidio di Hemingway riservando solo poche righe reticenti e imbarazzate alla vecchia canaglia delle lettere francesi. Sui giornali italiani non comparivano fotografie di colui che pure aveva scritto il Voyage, cioè il romanzo del XX secolo, così Dondero fu indotto a pensare, con sgomento, che invece avrebbe potuto esserci la sua. Non se ne diede mai pace.

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[Immagine: Mario Dondero].

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