di Silvia Costantino

Il viaggio in autobus dal Valdarno a Siena passa per paesini interni che altrimenti conoscerei a malapena. Faccio lo stesso tragitto, con lo stesso bus, dal 2005. L’autobus percorre strade che sembrano fatte unicamente di curve, parte alle sette e venti e io, per essere sotto la pensilina in orario, mi devo alzare molto prima, svegliare mio padre perché mi accompagni in macchina, finire di preparare uno zaino, chiudere una valigia. Spesso la sera prima della partenza vado a letto tardissimo, perché devo salutare gli amici che non vedo mai. Di solito ho sonno, ma la prima parte del tragitto non dormo: ho paura di mancare la fermata di Pietraviva, dove chi va verso Siena scende e aspetta il cambio, cercando il sole delle 8,30. Di solito leggo, a volte sono troppo stanca e mi limito ad ascoltare musica.

Un giorno, l’autobus prendeva una salita che è anche una rotonda e forse anche una piazza, ho alzato gli occhi mentre passavamo davanti ad un loggiato con dei negozi.
“Luana Beautyfull”.
Questa Luana che fa scrivere un’insegna sbagliata, che accetto perché è esposta in un paesino minuscolo e la giudico ingenua, mentre se fosse a Firenze mi farebbe rabbrividire – questa Luana chi è? Quanti anni ha? Sicuramente è un’estetista.
Il nome, l’insegna rosa fucsia senza nessuna pretesa: tutto fa pensare ad una donna adulta, sulla cinquantina, di quelle che passano la ceretta col mestolo di legno, con la piega a bigodini e le dita sporche di tintura rossastra. Luana è anche un nome difficile da adolescente, un nome porno – Luana Liana (conoscevo una Liana) Luana – Luana la puttana, Luana Moana ana ana ana ana, potrebbe anche essere una signora con le labbra rimpolpate e gli zigomi al botulino, che sfrega la pelle delle cosce con le unghie rifatte al gel quando stende la cera.
Oppure è una ragazza, vittima di una madre teledipendente. Sicuramente qualche vecchio telefilm aveva una Luana. Questa Luana potrebbe avere la mia età e non essere mai uscita dal suo pezzo di Bucine, comune italiano di 10.194 abitanti della provincia di Arezzo, se non per andare a scuola o a ballare. Non ho modo di sapere cosa pensa al riguardo. Luana – con i capelli biondocenere legati stretti – applica la cera rosa appiccicosa sulle mie gambe e mi chiede E tu cosa fai, studi? Sì. E cosa? Lettere. Ah. Appiccica la striscia di carta-cotone sulla cera, mi chiede E cosa vuoi fare, la maestra? No. Non provo a proseguire il discorso, le possibilità, le strade chiuse e quelle con uno spiraglio. Non ho intenzione di tirare fuori l’argomento politico. No, non voglio insegnare. Luana strappa leggermente troppo forte (nell’autobus ruoto la caviglia, contraggo il polpaccio). E cosa vuoi fare?

Sono le nove. Sono in Piazza Gramsci, è il mio settimo anno di università, non ho visto più niente della strada che conosco a memoria dopo l’insegna di Luana (non ho visto il cartello stradale “Duddova” che mi fa pensare alla Russia, né ho visto le prostitute scendere dall’autobus via via, lungo la Valdambra). Penso a Luana: avrà trovato le chiavi in borsa, adesso apre la porta, accende le luci, apre il negozio.

[Immagine: Erin Cone, Adieu (gm)].

16 thoughts on “Beautyfull

  1. Perché questa pagina di diario di una giovane precaria della conoscenza si trasforma in apologo che tascende la dimensione individuale? Perché (gramscianamente) risponde al bisogno di istituire un nesso non ironicamente postmoderno ma contraddittoriamente ulcerante, tra universo “colto” e universo “pop”. (“Che cosa rende la pubblicità tanto superiore alla critica? Non ciò che dice la scritta mobile del giornale luminoso, ma la pozza infuocata che, sull’asfalto, la rispecchia”, scriveva W. Benjamin ). Qui le forme simboliche “di massa” che governano il senso comune compaiono in una onomastica esemplare, che accosta l’inconscio collettivo di due generazioni: Luana, la regina esotica dei fumetti anni Quaranta, e la soap opera americana degli anni Ottanta. I fumetti degli albi dell’Avventuroso, e la regina Luana, hanno colonizzato anche i sogni esotico-erotici degli scrittori giovani durante il fascismo (Luana non solo compare nel titolo di un libro di Eco ma abita il ben più interessante “Lanciatore di gavellotto” di Volponi :”La regina casta, la sovrana senza età né sesso, la dea di bellezza mezzo nuda, ma impenetrabile per tutti. Proprio in quell’albo la regina cedeva all’amore di un esploratore fuggendo il suo vano regno d’ombre. Anche Luana lo tradiva…Luana la regina puttana.”(p. 155). Ridge, Brooke, Taylor, Thorne e tutti gli altri all’alba delle televisioni commerciali hanno invece abitato i ceti medi degli anni “rampanti”, quando il ministro De Michelis ballava la disco dance con Deng Xiao Pin, fra craxismo e primi vagiti del berlusconismo.

  2. L’ “apologo” è bidimensionale, semplifica troppo. L’estetista è per forza “vittima di una madre teledipendente”, “potrebbe avere la mia età e non essere mai uscita dal suo pezzo di Bucine se non per andare a scuola o a ballare”. é una con cui “Non ho intenzione di tirare fuori l’argomento politico”. E perchè no?
    Qui non vedo lo scontro “ulcerante” tra due realtà stereotipate. Non è neanche uno scontro vero e proprio, perchè il giudizio di valore emerge subito, anche se si cerca di tenerlo in secondo piano attraverso una scrittura falsamente trasparente,
    Cosa, di tutto questo, dovrebbe arricchire la visione della realtà del lettore? cosa mi rappresenta questo “precario della conoscenza” (espressione di un’ élite che oscilla tra il vittimismo e la chatechizzazione del prossimo – solo se ritenuto degno) vs estetista (irrecuperabilmente ignorante e inconsapevole)? e se per una volta l’estetista fosse laureata? e se con l’insegna Beautyfull volesse ridere di chi l’avrebbe giudicata comunque? e se la precaria della conoscenza un giorno dovesse fare l’estetista per vivere? o la commessa da Liu Jo? specificherebbe a tutte le giovani clienti studentesse che non ha avuto una madre teledipendente e che possono stare tranquille, può capire l’argomento politico?

  3. @laura

    invece l’apologo è riuscito proprio perché non c’è tono di superiorità. C’è un confronto fra due realtà che si toccano ma non si possono incontrare. Luana vive nel paese (e nel mondo della TV), commette errori di inglese, ma ha un lavoro. L’autrice del racconto è uscita dal paese e studia lettere, sa come si scrive Beautiful, ma non ha un lavoro. Non ci sono vinti né vincitori. L’ultima parola spetta a Luana: “che cosa vuoi fare?”.

  4. @ luca
    concordo sul fatto che non ci siano vinti nè vincitori. Ciò che contesto, è il presupposto che le due realtà non si possano incontrare: se ciò non accade, è perchè si rappresenta un distanziamento preventivo. Luana è stereotipata già dal nome, appunto, la studentessa no. Lei riflette, ha il privilegio di un’interiorità, di uno sguardo sul mondo. L’estetista ne è priva, non le è concesso perchè è un’estetista. Questo non mi dice niente e non mi fa riflettere su niente. Il contrasto estetista con lavoro – studentessa senza lavoro che significa? che solo chi ha lo spessore intellettuale (tendente allo zero) dell’estetista è deterministicamente destinato a diventare estetista e a trovare a suo modo un posto nel mondo? non capisco perchè all’estetista non può mai piacere davvero il lavoro che fa, perchè deve vivere nel paese e nel mondo della TV.
    Per fortuna la realtà è molto, molto più complessa.

  5. Luana, infine, comunque sia, chiunque essa sia, accende le luci, apre il negozio. Fa qualcosa. E’ radicata, in qualche modo. Il soggetto narrante invece compie una traversata, è di passaggio. E’ questa la sua dimensione costitutiva. Un pendolarismo, nel senso più ampio del termine, estenuante. Conoscenza. Limbo.

  6. la discussione è interessante, come lo è questo appunto per la scrittura di un racconto – (@laura) capisco cosa vuoi dire e sono d’accordo, ma forse è un giudizio troppo duro il tuo: forse l’apologo avrebbe bisogno di più respiro, per capirne bene la direzione.

    bisognerebbe dire una volta per tutte che la dimensione della propria diversità è un’illusione che si autoalimenta: poco importa che questa illusione sia cognitiva, politica, estetica, esistenziale, ecc. Di solito l’illusione più forte è quella che ha tutti questi colori – come raccontano bene molti romanzieri.

    questo apologo mi interessa perché si racconta la paura che l’incontro abbia strappato questa illusione: “Luana strappa leggermente troppo forte (nell’autobus ruoto la caviglia, contraggo il polpaccio). E cosa vuoi fare?”

  7. Secondo me a volte è meglio dedicarsi alla lettura di un racconto senza buttarsi in favolosi voli pindarici dove vengono chiamati in causa Craxi, Xiao ping e tanto altro.
    Il puro piacere estetico della scrittura, e naturalmente della lettura, potrebbe essere un buon motivo per cimentarsi nella creazione di un racconto.
    Apologie, idiosincrasie, messaggi, li lascerei ai critici, che sono gente che utilizza la scrittura come metodo per ricavarne qualcosa. Un libro, forse, può nascere da un’idea, può mandare un messaggio. Un racconto come questo potrebbe semplicemente essere la storia di una vita, senza tanti fronzoli.

  8. Ecco, questo racconto, insieme alle poche righe di commento di Zinato, pongono molte delle questioni sul tavolo della critica militante italiana.
    Zinato ci dice che si tratta di una giovane precaria della conoscenza. E da cosa lo ha desunto? non lo sappiamo. Sappiamo che è una studentessa, questo sì, forse leggermente fuori corso (ma non è detto,potrebbe semplicemente aver studiato prima medicina, di lettere), oppure una dottoranda, e allora anche lì andrebbe censita la questione della precarietà (è precario il dottorando? domanda certo complessa, dipende).
    Non lo sappiamo. o meglio Zinato lo sa. Lo so anch’io, essendo amico dell’autrice. Ma l’orizzonte ricettivo penso (spero?) sia più ampio del board redazionale che accetta il pezzo, e degli amici più stretti degli autori. Ma niente, a Zinato non importa, poche tracce e già ci troviamo un’esegesi completa. Che fa perno sul nome, Luana. Certo, la questione del nome è inquadrata nel pezzo nelle sue possibili archeologie. Ma c’è poi un incontro, probabilmente una proiezione del personaggio nel pullman. Questo incontro sfugge alla lettura di Zinato. Vale la pena di focalizzare, siccome secondo me è da esso che bisogna partire per guardare alle articolazioni più significative del testo. Lì, come accennava Baldini, si gioca il testo. Lì le attivazioni cognitive e culturali che Zinato ha poi enormemente approfondito (la persona colta che incontra il pop, dà sue valutazioni) esplodono nella realtà dell’umano (passando tra l’altro per la dimensione del corpo, con la ceretta). Lì c’è essenzialmente un dialogo mozzato, Luana parla, fa domande. L’io-personaggio del testo non risponde, taglia corto. Sa già che si tratterebbe di “insegnare”, o di “tirare fuori l’argomento politico”. La narrazione si ferma lì, ma l’incontro resta presente in un nuovo frammento. Ora l’io è solo in Piazza Gramsci. Nella scrittura riemerge la dimensione dell’unviersità, che viene ribadita ancora, e poi ritorna Luana. Un pensiero: cosa starà facendo, cose normali (lavorare) ma che ci vengono presentate sotto una sfumatura (attraverso l’utilizzo ritmico delle virgole, per es.) che richiama la ripetitività dei gesti, quasi la loro incoscienza.
    Ecco, la straordinarietà di questo testo sta proprio nell’incomunicabilità dell’io-personaggio e narratore. Un personaggio che non riesce a comunicare: non fa domande a Luana e non le risponde, o forse addirittura non la incontra, dando per “verisimile” l’immagine cognitiva e culturale che si è fatta del possibile dialogo. L’io, nella gran parte del suo riattraversamento di questo frammento, riceve Luana attraverso una stratificazione di elementi analitici e culturali, ergendo un muro insormontabile, fatto di giudizi (affievoliti nella loro durezza dal fatto che ci si trovi in provincia e non a Firenze-Firenze), di orizzonti di attesa, di categorizzazioni dell’altro.
    Luana non esiste come persona, il suo fatto individuale non può esistere. Esiste come funzione del simulacro di realtà ideologicamente prodotto dall’io. Ma qui l’ideologia non ha il sapore nè la potenza dell’analisi critica delle forme di vita. Ha invece il carattere della falsa coscienza, del soggetto che disconosce l’alterità dandola per completamente conosciuta. L’anaforicità dell’elemento autodescrittivo (Lettere, università ) sta lì appunto a leggere anche se stessi nella lettura, nello schema della realtà, e, ammesso che esista una sfumatura di dannazione nella descrizione di questa propria dimensione (questa secchezza della chiusa: sono le nove, è il mio settimo anno di università, potrebbe lasciarlo intendere), ad autorizzare così anche la propria lettura dell’altro.
    Anche Zinato, nella sua critica mi pare intrecciare i motivi dell’io-personaggio, si muove come il personaggio. Tratta il testo come un giàconosciuto, e lo assume nella propria mappa del proprio “che fare?” letterario. Da Luana partono mille rivoli sulla storia degli ultimi 30 anni, ma della sua consistenza nel testo nulla è detto. E sappiamo già che il personaggio è un precario della conoscenza, autore-personaggio sulla cui schiena vengono già caricate migliaia di pagine del dibattito culturale sugli intellettuali in Italia degli ultimi anni, senza nemmeno ascoltare cosa abbia da dire e chi sia veramente.

    Ecco, questa falsa coscienza diffusa unisce i testi, un muro fra soggetto e altro, che è nel primo fra personaggio e Luana (e luanità, e Luane) e nel secondo fra critico e testo (nel più palese dei collassi del triangolo jaussiano). Questo muro è ideologia, e quasi potremmo dire sovrastruttura ideologica, tentati come siamo dai numerosi indizi testuali circa le avventure sociologiche di chi fa cultura.
    Ma permane una differenza: nel testo narrativo il debrayage ci porta a guardare il testo anche come, chissà, una confessione dell’autrice, che forse vuole guardare/guardarsi da fuori non necessariamente con approvazione rispetto alle dinamiche dell’io-personaggio (e su questo quoto Baldini, che chiede altri scritti per valutare); nel testo critico di Zinato invece si tratta di un atto di linguaggio diretto, e non può che essere valutato per tutte le connotazioni ideologiche che presenta.

  9. Una domanda.

    Emanuele Zinato e Laura, nei vostri commenti avete scritto che il narratore coincide con un “precario della conoscenza”.

    Luca M, lei sostiene che “l’autrice del racconto” (autrice?) “non ha un lavoro”.

    Potreste giustificare le vostre affermazioni con dei riferimenti al testo?

  10. E’ a mio vedere strano che non si colga che si tratta di uno scritto profondamente autobiografico.
    Laura in particolare, nei suoi commenti, polemizza su cosa Silvia dice di Luana. Ma, e qui sta l’equivoco, Silvia non parla certo di Luana, un personaggio che neanche incontra, di cui non sa nulla, ma parla invece di Silvia, cioè di sè stessa. Quando parla di Luana, in realtà parla di cosa ella stessa pensa di Luana, questo, potrei dire, è l’oggetto del breve racconto. Silvia non si tira fuori dalla storia guardandola da un imprecisato luogo altro, ma in realtà ne è l’unico personaggio, Luana è solo parte del suo mondo simbolico.

  11. E’ singolare, e utile per me, l’intervento polemico di Bruno PR che del mio brevissimo pezzo fa un modello esemplare (in negativo) delle prevaricazioni e semplificazioni operate dalla critica letteraria sui testi. Per rispondere anche alla domanda di dm, l’ipotesi che a scrivere sia una “precaria della conoscenza” è dettata dal fatto che praticamente tutti i laureati di area umanistica oggi lo sono. A conferma di ciò, vi è la stessa lettura di Laura che ipotizza un’estetista colta, che grazie alla laurea in lettere può giocare consapevolmente e ironicamente con l’insegna del suo negozio.
    E’ vero che ogni lettura è in parte soggettiva e riduttiva. Anche quella di un testo semplice come questo abbozzo di apologo lo è (semplice, ma anche potenzialmente ricco proprio perché esemplare, nel senso dell’exemplum). Dunque,ben vengano le difformi ipotesi interpretative, che si accostano l’una all’altra, come nel caso della lettura di Alessio che mette in risalto il passaggio semanticamente più ricco del testo (che io ho trascurato: il ritrarre la gamba in autobus implica l’incontro, un dolore e una immedesimazione, un’uscita fisica e fenomenica dal mondo simbolico).
    Ma, mi chiedo, perché polemizzare? La polemica, a volte anche molto più violenta e gratuita di quella di Bruno PR, in fondo civile e urbana, abita troppo spesso i blog. E invece bisogna considerare che la rapidità e la concisione di questo modo di fare critica esige – di più che nel “cartaceo” – il rispetto della parzialità, la ricerca di una condivisione, l’accostamento cordiale delle voci che possono completarsi e correggersi a vicenda. (L’opposto di quanto accade di solito).
    Ciò non significa essere sempre e comunque daccordo: significa invece saper ripristinare la civile conversazione. Un po’ alla volta impareremo tutti a farlo, sfuggendo dalla coazione alla rissa a cui ci hanno abituato. A esempio, io non sono dello stesso parere di Bruno e lo dico con ferma pacatezza: credo che ricostruire la genealogia dei nomi o storicizzare un testo serva a rendere la lettura critica un discorso meno effimero e più comunitario, pur nel rispetto delle sue variabili soggettive. Così come il rispetto per la rilevanza delle forme, anche i nessi contestuali aiutano l’interpretazione a uscire dalla prigione dell’io, e non sono forme di dittatura del discorso secondario della critica. Sempre che la critica resti paradossalmente disposta al dialogo, in una congiuntura che a ogni livello lo nega.

  12. Ma non capisco perchè, quando tu polemizzi, stralegittimamente, con operazioni e posture che non condividi (da demichelis a eco ai postmoderni) stai compiendo un’operazione critica, e se invece lo fa qualcun altro la sta mettendo in rissa. Capisci che io, te e De Michelis non sia diversi : sia soggetti, umani, che compiono azioni. Non capisco perchè esistano codici critici differenti a seconda degli oggetti. Mah.
    Il punto è che, nel mio discorso, il rifiuto e l’incomunicabilità fra il personaggio e Luana, così come quello fra te e il testo, vengono analizzate esattamente come tu analizzi il balletto di Deng Xiao Pin: analisi critica, disamina del simbolico e della microfisica dell’ideologia.
    Giusto abbandonare la società della rissa, ma non per stabilire una concordia fra i sapienti, quanto semmai per alimentare i dibattiti (e i conflitti, sociali magari più che critici) con contenuti.
    Abbandonando il metodo e tornando al testo: qui non si tratta di dittatura, giammai. La questione è che la critica non deve far uscire il testo dalla prigione dell’io, per la semplice ragione che la ratio essendi del testo comporta di necessità l’estroversione, che è il risultato del processo di negoziazione del senso che ogni lettura richiede (anche quella del famoso lettore modello). Il testo è sempre estroverso, fuori da sè, e le coordinate dell’io che nel testo possiamo trovare saranno sempre e per forza coordinate storiche, per il sol fatto di essere nella storia. Quindi è un problema di merito, e nel merito a me sembra che il collasso del triangolo jaussiano, unito ad una preoccupazione critica troppo ristretta a certi formanti, ad un certo stile, e ad un certo telos che il testo letterario dovrebbe assumere, tutto questo mi sembra produca in Italia non una dittatura del discorso secondario, ma al contrario un governo miope e poco aperto al paese reale, che in questo caso è il testo nelle sue articolazioni complesse.
    Capiamoci: l’interpretazione di Zinato legge nel testo un soggetto-colto-precario alle prese con una x società contemporanea che si rapprende nel nome Luana (bastevole, unito agli studi della protagonista, ad articolare fiumi di senso). Questo congegno interpretativo va già bene per il titolo più le prime tre righe o quasi del testo. E’ una mediazione al ribasso e soprattutto è una totale negazione del contenuto narrativo del testo. Si da una lettura lirica del testo, ma senza neanche svolgere i motivi e il profilo dell’incontro fra soggetto e alterità, trovando nella sola presenza del soggetto e della realtà già lo sviluppo ideologico dell’incontro: un po’ come fa la protagonista appunto, che manco incontra Luana.
    il problema è che se noi pensiamo, veramente, che esista un tipo di soggetto x, l’intellettuale, l’uomo di lettere, e una realtà x, la società postmoderna, e che esista un solo modo in cui possano relazionarsi (contraddizioni varie di sguardo), e da questo desumiamo il testo modello, il “che fare” letterario appunto, la critica diventa allora direi platonica: cerca di scoprire, per parusia, quale copia si avvicina di più all’idea iperuranica del testo-modello-oggi. E così, nella negoziazione interpretativa, si selezionano solo quelle marche e quei dispositivi che spingono verso l’idea.
    Per storicizzare un testo bisognerebbe cercare di capire che storia il testo ci propone. Solo le differenze proposte dalla narrazione ci consentono di produrre un oggetto ricco di Storia. E la storia del testo è quella dell’incomunicabilità della protagonista, il suo silenzio e il suo sottrarsi dalla realtà di Luana, dal suo lavoro, dai suoi problemi. La propria cultura che diventa fascismo relazionale. Cosa c’è di più sociologico di questo? Di pensare che il nome di Luana, o la sua ignoranza, bastino a dirci che persona sia?

    E in chiusa: altro che rissa, questi dibattiti sono il sale dei blog letterari. E mi piacerebbe che anche Silvia ci dicesse qualcosa in più. Con Silvia io condivido un esperimento di ricerca comune su questi temi, cioè quello del blog 404, in cui quanti dibattiti così sono nati, e quanto ci hanno fatto crescere! Che mille “risse” e mille analisi sorgano!

  13. Continuo a pensare che il testo e la discussione siano interessanti. Riprendendo il senso dell’intervento di emanuele zinato, mi chiedo però se scrivere testi brevi non giovi alla singola argomentazione. Seguire le regole non scritte del gioco (ogni genere di scrittura ha dei criteri di leggibilità – è l’ “aptum”) aiuta a selezionare ciò che si vuol dire. “Less is more”

  14. @ Alessio Baldini: le forme brevi di scrittura (e in particolare l’apologo, come insegna Baudelaire nello Spleen di Parigi) sono per me interessantissime e attuali: armi leggere adatte all’ambiente digitale e alle capacità di ascolto e di attenzione puntiformi, modellate sul visuale.
    Analogo discorso va fatto per l’uso e per la scelta della citazione esemplare durante una lezione o incorporata in un saggio.
    @ Bruno PR: per evitare confusioni, preciso che mi riferivo a Gianni De Michelis, ministro degli esteri in Italia dal 1989 al 1992, negli stessi anni di diffusione della soap opera Beautiful, in cui si narra la saga della famiglia Forrester, proprietaria di una casa di moda, denominata Forrester Creations. Dunque, non polemizzavo con un critico (Cesare De Michelis, contemporaneista) ma tentavo invece di ricostruire per bagliori il clima culturale che ha generato insegne luminose come quella in oggetto. Il ministro era noto per la frequentazione di discoteche: l’immagine della disco dance ballata con Deng mi sembrava allegorica di un certo trend mondiale (e ciò in effetti non ha a che fare con il testo, se non per il principio fortiniano secondo il quale il critico per parlare di un’opera deve mobilitare tutto ciò che sa dell’extratesto).

  15. So benissimo che parlavi di quel demichelis. Ci mancherebbe. E ribadisco il concetto. Perchè l’analisi critica e simbolica che si fa è legittima se l’oggetto è DeMichelis e rissosa se l’oggetto è Zinato? Siete extratesto allo stesso titolo(anzi, io in questo caso facevo quasi un’analisi comparativa dei due testi, Costantino-Zinato), soggetti allo stesso titolo, che compiono azioni, e sono portatori di relazioni e significati.
    Dicevo questo, nel mio preceente commento, riguardo all’idea da te espressa che io la volessi buttare in rissa. Mah.
    Per il resto: su fortini extratesto etc. rimando ai miei commenti precedenti.

  16. Però è speciale assai Luana. Non scrive al posto del forresteresco “beautiful”, “biutiful” (come ha fatto recentemente Inarritu, il regista di Babel). No, lei lo riconsegna (beautiful) quasi per intero alla sua etimologia: beauty + ful (“full of”). Forte. Un saluto

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