di Anna Baldini
[Oggi, giornata della memoria, ripubblichiamo questo saggio di Anna Baldini apparso il 27 gennaio 2015].
Negli ultimi ven’anni, in molti Paesi occidentali la memoria della persecuzione e dello sterminio nazista degli ebrei e di altre minoranze è diventata un dovere civile, supportato dalle istituzioni dello Stato.[1] Parallelamente, gli storici hanno cominciato a interrogarsi sulle condizioni che hanno reso possibile il consolidarsi di questa formazione culturale così peculiare, una “memoria collettiva”. I dati analizzati da Tom Segev per Israele, Annette Wieviorka per la Francia e Peter Novick per gli Stati Uniti[2] – per citare solo i lavori seminali di questo filone storiografico – hanno mostrato come, in ciascuno dei diversi case studies, questo processo si evolva su due traiettorie parallele: da una parte, la memoria dello sterminio si focalizza intorno ad alcuni “oggetti” o “eventi” culturali globali, che cioè si diffondono contemporaneamente in diversi contesti nazionali e la cui fortuna si avvicenda o si integra secondo schemi comuni; dall’altra, le modalità di importazione o esportazione di questi oggetti variano a seconda dei contesti nazionali, mentre i loro significati si connotano di sfumature specifiche.[3] Le peculiarità nazionali dipendono da molti fattori: la rielaborazione delle memorie della seconda guerra mondiale, che varia di Paese in Paese intrecciandosi ai conflitti ideologici internazionali e alla loro declinazione locale; il rapporto che ogni contesto nazionale instaura con la propria comunità ebraica, e di entrambi con lo Stato di Israele; le iniziative pubbliche, soprattutto legislative ed educative, e gli interventi degli apparati mediatici, che in Paesi e periodi differenti svolgono un ruolo diverso nel forgiare il discorso pubblico.
Uno stesso oggetto – prodotto culturale o evento storico – dà così luogo a risonanze distinte a seconda del campo di forze politiche, sociali e culturali che lo ospita: non è lo stesso “Olocausto” quello che, messo in scena da un serial televisivo, commuove i telespettatori statunitensi nel ’78 e turba quelli tedeschi nel ’79, come diversi sono, a partire dai nomi, i percorsi di senso veicolati dai musei costruiti nelle rispettive capitali (lo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, aperto nel 1993, e il percorso al piano inferiore dello Jüdisches Museum di Berlino, aperto nel 2001); la presenza di Giorgio Perlasca nel Giardino dei Giusti dello Yad Vashem ha una funzione che non coincide con quella che la stessa figura assume quando viene “scoperta” in Italia; diverso è leggere Se questo è un uomo in una scuola media degli anni Settanta o in un’aula universitaria del Duemila; negli anni Ottanta, Primo Levi non riscuote la stessa approvazione incondizionata da noi e negli Stati Uniti, dove l’interpretazione dominante del sopravvissuto-testimone è quella mistico-teologica di Elie Wiesel.
Pur all’interno di dinamiche sociali complesse, infatti, l’impronta delle scelte, della cultura e della personalità di alcuni individui può risultare determinante per i tratti specifici assunti da una memoria nazionale. «What would talk of the Holocaust be like in America», si è chiesto Petere Novick, «if a skeptical rationalist like Primo Levi, rather than a religious mystic like Wiesel, had been its principal interpreter?».[4] La storia, come ben sappiamo, non si fa con i se; quel che un’indagine storica può fare è invece rovesciare l’interrogativo: quali tratti culturali caratterizzano la memoria dello sterminio nel nostro Paese, dove la figura e l’opera di Levi sono state effettivamente decisive? A tentare di rispondere a questa domanda è stato per primo uno studioso britannico, Robert Gordon, in un saggio del 2006 cui fa ora seguito un libro ampio ed esaustivo, che va ad affiancarsi ai case studies già citati di Segev, Wieviorka e Novick: The Holocaust in Italian Culture (1944-2010).[5] Non posso certo, nel breve spazio di questo saggio, rendere ragione dell’intero panorama ricostruito da Gordon; cercherò invece di ripercorrerne i punti di snodo più importanti, servendomi come filo conduttore della traiettoria intellettuale di Primo Levi, che è stata effettivamente, per quarant’anni, insieme filtro e cartina al tornasole della memoria italiana dello sterminio.[6]
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Cominciamo dal principio, cioè dalla prima edizione di Se questo è un uomo, pubblicato nel 1947 da una piccola casa editrice di Torino, la De Silva di Franco Antonicelli. Prima di approdare a questo editore, il libro era stato rifiutato da diverse case editrici, tra le quali sicuramente Einaudi.[7]
Questa vicenda è doppiamente significativa. Da una parte, è esemplare di un più vasto fascio di traiettorie editoriali: storie di insuccessi e resistenze che nel primo decennio del dopoguerra non caratterizzano il solo panorama italiano, e che mettono in luce quanto sia stato accidentato il percorso che ha trasformato il racconto dello sterminio da ricordo individuale in memoria pubblica. Da un altro punto di vista, il caso di Se questo è un uomo è esemplare di quel che accade a un “oggetto” culturale (in questo caso, alla relazione tra un libro e il campo editoriale dei suoi esordi) nel momento in cui viene appropriato al di fuori del suo contesto originario. Partiamo di qui.
Nella seconda metà degli anni Ottanta, la “scoperta” di Levi da parte del mondo culturale statunitense introduce l’opera dello scrittore, e in una posizione preminente, nel canone narrativo dell’Holocaust Discourse; i suoi scritti cominciano perciò ad attrarre l’interesse di studiosi che non necessariamente sono anche esperti di storia sociale e letteraria italiana. Un esempio significativo dei fraintendimenti prodotti da questa ricezione sfasata nel tempo e nello spazio è la prima biografia di Levi, che viene pubblicata nel 1996 da una giornalista-scrittrice francese, Myriam Anissimov.[8] Se è indiscutibile il lavoro di documentazione svolto dalla biografa, il materiale raccolto viene però interpretato sulla base di una conoscenza grossolana e approssimativa della storia italiana del Novecento, ed è soprattutto la particolare vicenda dell’ebraismo italiano, e i tratti identitari che ne derivano, a essere mal compresa.[9]
Ma è un altro aspetto della ricostruzione di Anissimov a suscitare in Italia, a cavallo tra ’96 e ’97, una vivace polemica (ripresa occasionalmente anche in seguito).[10] Nella biografia di Anissimov il mancato riconoscimento nel ’47 dell’eccellenza di Se questo è un uomo da parte del mondo editoriale – e soprattutto da parte dei redattori einaudiani Natalia Ginzburg e Cesare Pavese – diventa un capo di accusa contro l’intera cultura italiana, colpevolmente incapace, per quarant’anni, di dare il giusto valore a un grande scrittore.
La posizione relativamente marginale di Levi nel campo letterario italiano, almeno finché lo scrittore fu in vita, è un fatto, che andrebbe però spiegato con più fini strumenti di analisi – quelli, per esempio, di una sociologia della letteratura che consenta di sottrarsi al rischio, implicito in ogni canonizzazione, di dimenticare il quadro storico e letterario in cui un determinato testo viene creato e diffuso. I canoni, d’altra parte, son fatti proprio per questo: per universalizzare le opere, cioè per sottrarle ai loro contesti originari; è però storicamente e anche eticamente scorretto giudicare in base a criteri di valore odierni il comportamento di scrittori, critici o redattori editoriali che venivano a contatto con un determinato testo per la prima volta. Cerchiamo allora di ricostruire il significato che un libro come Se questo è un uomo poteva avere nel 1947, a partire dal suo tratto più appariscente, e cioè dal suo contenuto: la storia di un sopravvissuto ebreo alla deportazione in un Lager nazista.
Se oggi Primo Levi è un autore noto in tutto il mondo, è soprattutto perché negli ultimi trent’anni è entrato a far parte del canone globale dell’Holocaust Discourse. Ora, non solo nel 1947 quel canone, e i criteri che lo strutturano oggi, non esisteva, ma non esisteva neppure il concetto di Holocaust/Shoah/“distruzione degli ebrei d’Europa”. Tra il ’41 e il ’45, scrive Novick, «For the overwhelming majority of Americans» – e lo stesso si può dire degli Europei – «what we now call the Holocaust […] was not “the Holocaust”; it was simply the (underestimated) Jewish fraction of the holocaust then engulfing the world».[11] E successivamente, dopo il ’45, la figura del deportato rientrato in patria, pure così caratteristica dell’Europa postbellica, era percepita quasi esclusivamente in chiave politica: i Lager erano stati creati per stroncare gli oppositori al nazismo; tutti gli internati erano perciò “resistenti”.[12] Le ragioni di questa semplificazione sono comprensibili: era troppo presto perché fossero chiare la natura, le funzioni e le distinzioni interne all’“universo concentrazionario” nazista; inoltre, e soprattutto, la maggior parte dei deportati che stavano facendo ritorno provenivano, e pour cause, da campi di concentramento, non di sterminio.[13] In quegli anni, in Italia, il simbolo del terrore nazista era il filo spinato di Mauthausen, non ancora i camini dei forni crematori di Auschwitz; subito dopo la guerra, sia la contabilità delle vittime, sia una loro distinzione in categorie erano operazioni ancora troppo difficili.
Né dobbiamo dimenticare che i racconti dei deportati, ebrei e non ebrei, si confondevano in un coro di altri lutti, tragedie ed eroismi: un coro emerso dopo la guerra da quella «smania di raccontare» di cui parla Calvino nel 1964, nella Prefazione a una nuova edizione del suo primo libro, Il sentiero dei nidi di ragno, pubblicato proprio nel ’47. Diciassette anni dopo, lo scrittore ricorda che in quei mesi «si era […] carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca».[14] E di queste storie dolorose ambientate sullo sfondo della guerra appena terminata si riempivano le scrivanie delle case editrici.
Con questa accanita concorrenza, le storie dei deportati incontravano, in generale, poco ascolto. E quando lo trovavano, quando cioè approdavano alla pubblicazione, era grazie a piccole case editrici, spesso eredi delle attività di stampa clandestina della Resistenza, o comunque caratterizzate da una spiccata impronta politica. Solo quindici o vent’anni più tardi, scomparso l’editore originario e ormai fuori commercio le prime edizioni, alcuni di questi libri saranno recuperati da editori più prestigiosi. Sui rifiuti di questi ultimi avranno pesato le difficoltà economiche dei primi anni dopo la guerra, particolarmente avvertite dal mondo editoriale, che certo non incoraggiavano la pubblicazione di memorie sgradevoli e dolorose, per le quali non si prevedeva un pubblico numeroso; avrà avuto sicuramente un ruolo lo stesso affollarsi di proposte memorialistiche. Presso i piccoli editori, invece, erano decisivi i rapporti personali, e il caso di Se questo è un uomo è ancora una volta emblematico: il libro arriva alla De Silva – cioè a Franco Antonicelli, ex Presidente del cln piemontese – grazie ad Alessandro Galante Garrone, ex partigiano e rappresentante del PdA nel cln regionale, al quale era stato dato in lettura da Anna Maria Levi, sorella di Primo, che aveva militato come staffetta nelle brigate azioniste.[15]
Torniamo dunque al «falso scandalo» del libro di Levi respinto da Einaudi: questo rifiuto rientra in una linea editoriale coerente, perché Se questo è un uomo non è l’unico testo concentrazionario che Einaudi lascia inedito in questo periodo – né è l’unico dirottato sulla De Silva.[16] Neppure l’insistenza di Elio Vittorini, che dopo il ’45 è uno dei più importanti consulenti della casa editrice, convince Einaudi a tradurre il libro di Robert Antelme L’Espèce humaine, e anche un’altra importante testimonianza francese sui campi di concentramento, L’Univers concentrationnaire di David Rousset, pubblicato in Francia nel ’46, viene lasciata cadere, perché non si considera il momento propizio alla pubblicazione.[17] Le valutazioni di mercato degli einaudiani si rivelano tutt’altro che infondate, come dimostra proprio la sorte di Se questo è un uomo: delle duemilacinquecento copie stampate, più di un migliaio rimangono invendute. Per altre memorie di deportati possiamo immaginare un destino simile, se non ancor meno fortunato: «in mancanza di dati sulle tirature, la difficoltà a rintracciare i testi è un indizio attendibile sulla loro effettiva diffusione».[18] In particolare, delle otto testimonianze di ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio pubblicate in Italia tra il ’45 e il ’47,[19] solo Se questo è un uomo e Il fumo di Birkenau di Liana Millu hanno una seconda chance già negli anni Cinquanta;[20] le altre restano confinate a quella prima, unica apparizione, o dovranno aspettare trentacinque, quaranta, cinquanta o sessant’anni prima di tornare a circolare in una nuova veste editoriale.[21] Tutte quante, però, senza eccezioni, incontrano nell’immediato dopoguerra un’eco scarsa e di breve durata, secondo una dinamica che caratterizza la letteratura sui campi, sia di concentramento che di sterminio, in ogni lingua e in ogni contesto nazionale.
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Nel 1955, in un articolo apparso su «Torino. Rivista mensile della città» in occasione del primo decennale della Liberazione, l’autore di uno di quei libri dimenticati, il chimico Primo Levi, trae uno sconsolato bilancio: «A dieci anni dalla liberazione dei Lager, è triste e significativo dover constatare che, almeno in Italia, l’argomento dei campi di sterminio, lungi dall’essere diventato storia, si avvia alla più completa dimenticanza».[22] A chi legge oggi quest’articolo nella raccolta delle Opere di Levi basta voltare qualche pagina per fare un balzo in avanti di cinque anni, imbattendosi in un incipit – e in un clima culturale – completamente diversi: «La Mostra della deportazione, che era stata aperta a Torino (si può dire) in tono minore, ha conseguito un inaspettato successo. Per tutti i giorni di apertura, a tutte le ore, davanti a quelle terribili immagini ha sostato una folla serrata e commossa; la data della chiusura ha dovuto essere rinviata per ben due volte. Altrettanto soprendente è stata l’accoglienza del pubblico torinese ai due successivi colloqui destinati ai giovani, che hanno avuto luogo nei locali dell’Unione Culturale a Palazzo Carignano: un pubblico fittissimo, attento, pensoso».[23]
Tra i due testi – tra il 1955 e il 1960 – qualcosa è cambiato. Il nesso istituito tra deportazione e Resistenza fa sì che le celebrazioni pubbliche del primo decennale della Liberazione stimolino anche i reduci dai campi a riesumare i loro racconti; proprio nel ’55 Primo Levi propone nuovamente Se questo è un uomo alla casa editrice Einaudi, e questa volta con successo: il libro esce in una nuova edizione (ampiamente rivista dall’autore) nel 1958 – lo stesso anno in cui, vale la pena rilevarlo, La Nuit di Elie Wiesel, una cui versione più ampia era stata pubblicata in yiddish a Buenos Aires nel 1955, esce in francese da Seuil, dando il via alla fortunata parabola internazionale del suo autore (la traduzione inglese del libro sarà di due anni successiva).
La nuova edizione di Se questo è un uomo presenta diverse varianti.[24] Quella più cospicua riguarda l’aggiunta di un intero capitolo, Iniziazione, in cui si narra l’incontro con il sergente Steinlauf, il personaggio che per la prima volta nel libro pone in relazione sopravvivenza e testimonianza: «anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza».[25] Non è probabilmente un caso che un’affermazione così netta si trovi in un capitolo aggiunto tra il ’55 e il ’58: il decennio trascorso aveva probabilmente maturato in Levi la consapevolezza dell’importanza sia del significato di quanto aveva vissuto, sia della scrittura come strumento di comunicazione e conoscenza.
Sempre nel 1955, e sempre in occasione del decennale della Liberazione, era partita da Carpi la Mostra nazionale sui Lager nazisti, di cui Levi parla nell’articolo del 1959.[26] La mostra era stata inaugurata l’8 dicembre a Carpi, nei cui pressi si trova Fossoli, la località sede del principale campo di raccolta italiano, in cui la maggior parte degli ebrei rastrellati veniva temporaneamente internata prima di partire per Auschwitz. Successivamente, la mostra comincia un lungo viaggio in Italia: in cinque anni passa da Ferrara (22 gennaio-20 febbraio 1956), Bologna (17-31 marzo 1956), Verona (18 gennaio-2 febbraio 1958), Roma (26 giugno-15 luglio 1959), Torino (14 novembre-8 dicembre 1959) e Cuneo (dicembre 1959). A Torino, nei locali dell’Unione Culturale presieduta da Franco Antonicelli, l’Associazione Nazionale Ex Deportati (Aned) organizza due serate in cui storici, personalità illustri della Resistenza ed ex deportati dialogano con il pubblico. Alla prima serata presenziano circa 1300 persone; alla seconda 1500. Tra gli altri, a prendere la parola in pubblico per la prima volta c’è Primo Levi.
Il Primo Levi che parla all’Unione Culturale nel dicembre ’59 non è più l’autore di un libro dimenticato, ma l’autore di un libro di sucesso: la prima edizione del Se questo è un uomo targato Einaudi era già esaurita alla fine del ’58, e la prima ristampa lo sarà alla fine dell’anno successivo. Nel risvolto di copertina, il libro viene paragonato a La specie umana di Antelme, che Einaudi aveva pubblicato nel 1954; il titolo successivo della collana è Ricordati che cosa ti ha fatto Amalek, uno dei primi resoconti storiografici apparsi in lingua italiana sulle vicende del ghetto di Varsavia; l’autore, Alberto Nirenstajn, è uno studioso polacco da tempo residente in Italia. La linea editoriale di Einaudi è, ancora una volta, coerente: a partire dal 1954, anno della traduzione del libro di Antelme ma anche del diario di Anne Frank, un libro che era già un successo mondiale, la casa editrice comincia a esplorare l’argomento dei campi nazisti, sia recuperando (letteralmente, visto che si tratta spesso di proposte declinate meno di dieci anni prima) diverse scritture testimoniali, sia portando in Italia i primi lavori storiografici che fanno della “soluzione finale” un oggetto specifico di analisi, distinto dagli altri eventi tragici legati alla seconda guerra mondiale: il libro di Nirenstajn segue la traduzione di Il nazismo e lo sterminio degli ebrei di Léon Poliakov (1955)[27] e precede la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice (1961). Einaudi non è sola a esplorare questo nuovo campo di ricerca: nel 1962 il Saggiatore – la casa editrice fondata nel ’58 da Alberto Mondadori per competere con Einaudi e Laterza nel settore della saggistica di qualità – pubblica La soluzione finale. Il tentativo di sterminio degli ebrei d’Europa, 1939-45 dello storico britannico Gerald Reitlinger: un testo apparso originariamente nel 1953 e discusso tempestivamente, in una lunga recensione a puntate sulla rivista «Comunità», da uno studioso di letteratura italiana residente nel Regno Unito, non ancora scrittore in proprio, marito di una reduce dai campi di sterminio, Luigi Meneghello.[28] Ma è soprattutto Feltrinelli, la casa editrice nata nel ’55 e orientata a soppiantare Einaudi nel predominio sull’editoria di cultura, a entrare in concorrenza con la casa torinese in questo campo specifico: Feltrinelli pubblica nel ’55 Il flagello della svastica di Lord Edward Russell (uno dei consiglieri giuridici del processo di Norimberga), nel ’56 la testimonianza di un ebreo italiano (Perché gli altri dimenticano di Bruno Piazza), nel ’61 la traduzione del libro vincitore del Premio Goncourt 1959, L’ultimo dei giusti di André Schwarz-Bart, e nel 1964, a solo un anno di distanza dall’edizione originale, la traduzione di un testo che aveva fatto molto discutere negli Stati Uniti, Eichmann in Jerusalem, il reportage che Hannah Arendt aveva scritto per il «New Yorker» durante il processo ad Adolf Eichmann, svoltosi a Gerusalemme tra l’aprile e l’agosto del ’61.
Il processo Eichmann è un evento-chiave nella storia della memoria dello sterminio. Sono molti gli elementi che contribuiscono a farne un evento che attrae l’attenzione dei media globali: l’avventurosa vicenda del rapimento dell’imputato in Argentina da parte del Mossad, che solleva una complicata controversia di diritto internazionale; la trasmissione del processo da parte della televisione statunitense; le riflessioni che ne trae un’intellettuale dal prestigio internazionale come Hannah Arendt, sintetizzate in una formula così efficace e così sconvolgente – la «banalità del male». Ma, come ha mostrato Annette Wieivorka, il processo Eichmann segna soprattutto la nascita della figura pubblica del “testimone”.[29] Il processo viene sapientemente orchestrato dal procuratore generale Gideon Hausner per fini estranei a quelli più strettamente giuridici; ciò che preme alla classe dirigente israeliana rappresentata dal procuratore, che chiama a testimoniare contro l’imputato decine e decine di sopravvissuti ai ghetti e ai campi di sterminio, non è tanto l’accertamento delle colpe e delle responsabilità individuali di Eichmann, quanto creare un’occasione per mettere in scena la storia della persecuzione e dello sterminio del popolo ebraico durante il nazismo: una vicenda che, pur facendo parte della mitologia fondativa dello Stato, era nei fatti avvolta, anche e forse soprattutto in Israele, da un silenzio gravato di ritegno e di vergogna.
L’impiccagione di Eichmann risulta così il meno rilevante degli esiti del processo. Dopo il ’61, la percezione della “Shoah” – termine adottato dallo Stato ebraico nei propri documenti fin dagli anni Quaranta – non si trasforma solo in Israele: l’attenzione al processo da parte dei media di tutto il mondo provoca ricadute ben più ampie. «It was the first time that what we now call the Holocaust was presented […] as an entity in its own right, distinct from Nazi barbarism in general», sintetizza Novick.[30] L’uso fatto da Hausner di testimonianze decontestualizzate rispetto alle necessità giuridiche trasforma inoltre il sopravvissuto-testimone in una sorta di garante della verità e dell’autenticità storica: «Le témoin n’est pas là pour administrer une quelconque preuve de la culpabilité du prévenu […], mais pour faire un récit dont la finalité est double: conter sa propre survie, mais surtout, évoquer ceux qui sont morts et comment ils ont été assassinés», commenta Wieivorka.[31] Tutte le società occidentali finiranno per riconoscere al sopravvissuto questa specifica funzione di “portatore” e “pedagogo” della storia.
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Quello ad Eichmann non è l’unico processo celebrato contro i responsabili dello sterminio negli anni Sessanta. Tra il 1963 e il 1965 a Francoforte si svolge l’Auschwitz Prozess, una serie di processi contro Kapos, ufficiali delle SS e della Gestapo che avevano operato nel campo polacco. Il drammaturgo Peter Weiss attinge alle carte processuali per costruire un’opera teatrale, Die Ermittlung. Oratorium in 11 Gesängen, che debutta contemporaneamente il 19 ottobre 1965 in quattordici teatri tedeschi (sia a ovest che a est) e all’Aldwych Theatre di Londra, nella messa in scena della Royal Shakespeare Company. In Italia L’istruttoria viene rappresentata l’anno successivo, nella stagione 1966-67, dal più importante teatro di ricerca italiano, il Piccolo di Milano, con la regia di Virginio Puecher. Dopo una tournée nazionale, la pièce viene trasmessa dal secondo canale della Rai il 9 giugno 1967, e nello stesso anno la traduzione dell’opera viene pubblicata da Einaudi.
Due anni prima dell’Ermittlung, un’altra opera teatrale tedesca aveva fatto scalpore, non solo in Germania ma in tutti i paesi in cui era stata esportata: Der Stellvertreter di Rolf Hochhuth. A differenza dell’Istruttoria, costruita attraverso un montaggio delle più significative tra le circa 360 testimonianze dell’Auschwitz Prozess, Il vicario di Hochhuth è un dramma con personaggi fittizi; l’autore vi mette sotto accusa la Chiesa, e in particolare papa Pio XII, che avrebbe fatto poco o nulla per impedire lo sterminio degli ebrei. In Germania Der Stellvertreter debutta il 20 febbraio del 1963 e fa subito discutere animatamente; già nel ’64 Feltrinelli pubblica la traduzione dell’opera, che però – come già era avvenuto negli Stati Uniti – in Italia non riesce a venire rappresentata a teatro. Una messa in scena semiprivata viene tentata a Roma, il 13 febbraio 1965, ma già la sera successiva la polizia chiude con un pretesto gli spazi dove si era svolto lo spettacolo; nei giorni seguenti il Prefetto della città vieta la rappresentazione, in quanto lesiva dei principi del Concordato tra Stato e Chiesa. Inutile è la protesta di intellettuali e giornalisti, sia italiani che stranieri.
Il vicario e L’istruttoria sono esempi di teatro documentario, uno degli strumenti con cui gli intellettuali tedeschi cercano di fare i conti con il passato del proprio Paese. Non molto diversa appare la funzione sociale e la percezione di sé di chi opera nel teatro di ricerca italiano, come mostrano le tempestive traduzioni e messe in scena di entrambi gli spettacoli – anche se il primo finisce censurato, e solo il secondo ha modo di mostrare, con uno straordinario successo coronato dal passaggio in televisione, quanto i nodi più problematici della storia contemporanea attirassero il pubblico italiano degli anni Sessanta.
Primo Levi non è estraneo a questa nuova messa in forma della memoria dello sterminio in Italia, benché in questo caso il suo ruolo sia marginale. Nella stessa stagione in cui il Piccolo rappresenta L’istruttoria, il Teatro Stabile di Torino mette in scena una versione drammatica, curata dallo stesso Levi e dall’attore Pieralberto Marché, di Se questo è un uomo.[32] Questa riduzione teatrale è l’esito di una catena di eventi piuttosto singolare: il libro di Levi era stato drammatizzato una prima volta dalla radio canadese CBC, i cui responsabili avevano inviato all’autore il copione e una registrazione della trasmissione. Suggestionato dalla produzione canadese, e soprattutto dal suo tessuto multilinguistico, volutamente straniante per lo spettatore, Levi propone un’operazione simile alla Rai, che trasmette la versione radiofonica del libro il 24 aprile 1964. Uno degli attori che avevano partecipato alla produzione, Pieralberto Marché, convince lo scrittore a rielaborare nuovamente il proprio libro, questa volta per il teatro.
Lo spettacolo non nasce sotto buoni auspici: la scrittura del copione e l’allestimento dello Stabile sono laboriosi, complicati da ritardi e incomprensioni tra Levi e i membri della compagnia.[33] La prima avrebbe dovuto svolgersi a Prato, il 12 novembre, nell’ambito del festival internazionale dei Teatri Stabili di Firenze, ma l’alluvione che paralizza la Toscana fa cancellare la manifestazione. Il debutto viene rimandato al 19 novembre 1966 e spostato al Carignano di Torino, ma lo spettacolo ha una fortuna quasi solo locale e di esigua durata: dopo una breve tournée fuori città, lo spettacolo torna a Torino e rimane in cartellone un paio di mesi. L’accoglienza critica è piuttosto tiepida: gli esperti di teatro, evidentemente, preferiscono l’Istruttoria di Puecher.
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Come abbiamo visto, la carriera di “testimone” di Primo Levi comincia prima del 1961, l’anno del processo Eichmann, l’evento che per Annette Wieivorka inaugura l’«èra del testimone».[34] L’inizio del “terzo mestiere” di Levi – quello, appunto, di «presentatore e commentatore di se stesso»[35] – va fatto risalire alle due serate organizzate nel dicembre ’59 dall’Aned e da Antonicelli, che si proponevano di soddisfare il desiderio, manifestato da molti visitatori, che qualcuno illustrasse loro distesamente la mostra sui Lager – e forse anche li aiutasse a superare lo choc suscitato da quelle immagini.
Il “format” dell’evento, che prevedeva la compresenza di storici e testimoni, viene riproposto l’anno successivo da Antonicelli per un ciclo di lezioni su «Trent’anni di storia italiana (1915-45)», svoltosi tra aprile e giugno. Iniziative simili, incentrate sulla storia del fascismo e dell’antifascismo, con studiosi e protagonisti messi a confronto con le domande del pubblico, si stavano svolgendo in quel giro d’anni anche a Roma (maggio-giugno 1959), Milano (gennaio-giugno 1961) e Bologna (1961: in quest’occasione Primo Levi e Giorgio Bassani sono chiamati a discutere della persecuzione degli ebrei).[36] Le cronache dei quotidiani dell’epoca sottolineano come il pubblico di queste conferenze-dibattito fosse composto soprattutto da giovani, che in questi anni sembrano, più che curiosi, quasi affamati di storia contemporanea; nel centro esatto di questo biennio, nel luglio 1960, questi “ragazzi dalle magliette a strisce”, come verranno chiamati dai giornali, pur essendo troppo giovani per aver vissuto la seconda guerra mondiale, riempiono insieme agli ex-partigiani le piazze di diverse città italiane per protestare contro l’ingresso dei neo fascisti del Msi nel governo Tambroni. Intorno al luglio ’60, “antifascismo” e “Resistenza” sono tornate a essere parole di attualità, e la memoria degli anni del regime e della guerra si riaffaccia prepotentemente nel discorso pubblico.
Possiamo leggere questi eventi come la risposta a esigenze simili a quelle che avevano portato la classe dirigente israeliana a imbastire il processo Eichmann in una forma che eccedeva i più immediati obiettivi giuridici. Tanto il processo di Gerusalemme quanto i cicli di lezioni su fascismo e antifascismo sono mossi da un fervore pedagogico, dal desiderio di trasmettere e riformulare, in un momento di crisi o di passaggio, il senso e la memoria di vicende storiche fondative: dello Stato di Israele, da una parte; della Repubblica italiana, dall’altra. I testimoni (i sopravvissuti convocati da Hausner, i protagonisti dei “trent’anni di storia italiana” chiamati ad affiancare gli storici nelle lezioni torinesi, romane, milanesi e bolognesi) sono i garanti della trasmissione intergenerazionale della memoria, contribuiscono a renderla più certa e incisiva: se in Israele l’intento è quello di modificare la percezione che gli israeliani nativi hanno del passato dei genitori o dei nonni, in Italia il passaggio di testimone rivitalizza l’idea della “Repubblica nata dalla Resistenza”.
Non può stupire che Primo Levi, “nato” come testimone in questo contesto, adotti il nesso fascismo/antifascismo come chiave di lettura privilegiata nella sua opera di interlocutore per la collettività.[37] Lo scrittore assume questa funzione nel corso degli anni Sessanta, e per quasi un trentennio la sua sarà, come ricorda un’altra testimone, la deportata politica Lidia Rolfi, «la voce della deportazione» in Italia.[38] Sono per esempio di Levi le parole che interpellano il visitatore dal padiglione italiano ad Auschwitz, il Block 21, inaugurato il 13 aprile 1980, alla cui realizzazione avevano collaborato alcuni dei protagonisti della vicenda memoriale italiana fino a quel momento: l’Aned aveva gestito il progetto, affidando la concezione architettonica allo studio milanese BBPR, che nel 1946 aveva disegnato il primo memoriale italiano dello sterminio, il “Monumento ai caduti dei campi di sterminio nazisti” del Cimitero Monumentale di Milano; la visita nel Block 21 è accompagnata da una rielaborazione di Ricorda cosa ti hanno fatto ad Auschwitz, le musiche di scena che il compositore Luigi Nono aveva creato per la produzione berlinese, curata da Erwin Piscator, dell’Istruttoria di Weiss; la “sceneggiatura” del padiglione, infine, era stata curata dal regista Nelo Risi, marito di un’altra importante scrittrice-testimone in lingua italiana, Edith Bruck.[39]
Alla fine degli anni Settanta, dunque, quello di pubblico interlocutore è per Levi un ruolo pressoché istuzionale. Ma come è arrivato lo scrittore a occupare questa posizione? Vale la pena riprendere il ricordo di Lidia Rolfi: «Quasi automaticamente veniva invitato Primo, perché Primo in quel momento era la voce della deportazione. Non c’erano altri testi che avessero avuto lo spazio, e detto fra virgolette, la fortuna di Se questo è un uomo; era diventato quasi il testo unico della deportazione in quel momento e lo rimane tuttora».[40] La presenza di Levi nelle scuole è certamente il fattore che ha più contribuito a farne il principale mediatore della memoria dello sterminio in Italia: sia la sua presenza in carne e ossa davanti agli studenti, sia quella del suo primo libro, la cui lettura nel corso dell’anno scolastico è tuttora una pratica ampiamente diffusa.
Per generazioni di studenti italiani Se questo è un uomo è stato, ed è ancora oggi, il primo approccio all’universo concentrazionario. Einaudi ne aveva pubblicato un’edizione scolastica, con note curate dallo stesso Levi nel 1973, otto anni dopo La tregua, che già nel ’65, due anni soltanto dopo la prima edizione, era entrata nella collana «Letture per la scuola media» della casa editrice. Nel 1976 Levi decide di aggiungere all’edizione scolastica di Se questo è un uomo un’Appendice, nella quale cerca di rispondere agli interrogativi più frequenti che gli venivano posti dai ragazzi.[41] Le medesime domande ricorrono anche nella maggior parte delle interviste allo scrittore sui giornali, alla radio o in televisione: quali sentimenti prova nei confronti dei tedeschi, chi era a conoscenza del progetto di sterminio, perché gli ebrei non fuggirono, quali differenze e quali analogie si possono riscontrare tra Lager e Gulag, quali sono le origini prossime e remote dell’antisemitismo nazista…
Questi temi riemergono nei Sommersi e i salvati, il libro che Levi pubblica nel 1986 e che costituisce la summa di una riflessione quarantennale sulla propria e altrui esperienza concentrazionaria. Il settimo capitolo, in particolare, intitolato «Stereotipi», trae spunto, come l’Appendice di dieci anni prima, dalle domande alle quali Levi si trovava a rispondere con maggior frequenza in conferenze, dibattiti o interviste. Circa a metà della trattazione, lo scrittore si sofferma ad analizzare il significato della ricorrenza così insistente delle stesse domande; la riflessione ha una sfumatura di amarezza: «Nei suoi limiti, mi pare che l’episodio» – quello che Levi ha appena narrato, di un ragazzino di quinta elementare che gli espone un “piano di fuga da Auschwitz” di cui servirsi la prossima volta – «illustri bene la spaccatura che esiste, e che si va allargando di anno in anno, fra le cose com’erano “laggiù” e le cose quali vengono rappresentate dalla immaginazione corrente, alimentata da libri, film e miti approssimativi. Essa, fatalmente, slitta verso la semplificazione e lo stereotipo; vorrei porre qui un argine contro questa deriva».[42] Come è tipico del suo modo argomentativo, Levi sfuma subito l’affermazione («in pari tempo, vorrei però ricordare che non si tratta di un fenomeno ristretto alla percezione del passato prossimo né delle tragedie storiche»[43]): rimane comunque l’impressione di una certa stanchezza del “testimone” nei confronti del proprio “pubblico”. Soprattutto il confronto con gli studenti si era rivelato usurante: i biografi Ian Thomson e Carole Angier hanno calcolato che Levi abbia visitato circa 150 scuole in meno di un ventennio: un periodo durante il quale, almeno fino al 1976, lo scrittore lavorava come direttore di una fabbrica di vernici di Settimo Torinese. Alla fine degli anni Settanta, Levi smette quasi completamente di accettare inviti nelle scuole.
Gli anni in cui Levi comincia a diradare gli impegni scolastici fino a interromperli del tutto sono quelli in cui ha inizio la lunga elaborazione dei Sommersi e i salvati; una prima traccia del libro la possiamo rinvenire nella prefazione scritta per la Notte dei girondini di Jacob Presser, un romanzo olandese tradotto dallo stesso Levi e pubblicato da Adelphi nel 1976. In quelle pagine introduttive lo scrittore accenna per la prima volta a quello che sarà il cuore filosofico del suo ultimo libro, l’argomento della sua riflessione più innovativa e complessa: quella sulla “zona grigia”. Se la necessità di un’analisi etica dello «spazio che separa […] le vittime dai persecutori»[44] costituisce l’origine più probabile dell’urgenza interiore che ha generato il libro, tra gli stimoli esterni ci fu invece l’emergere, dalla fine degli anni Settanta, di diverse ondate di negazionismo e revisionismo, in varianti prima rudimentali poi più raffinate. Levi si trova in prima linea su questo nuovo fronte, è il più noto intellettuale italiano ad armarvi contro la penna, sia con il lavoro confluito nei Sommersi e i salvati, sia con incessanti interventi sulla stampa, in interviste e articoli – l’ultimo dei quali, Buco nero di Auschwitz, apparve sulla «Stampa» un paio di mesi prima della morte dello scrittore.
Il revisionismo è però anche una prova che, dalla fine degli anni Settanta, una memoria dello sterminio pubblica, anche se non ancora istituzionale, esiste in Italia, come in generale nel mondo occidentale.[45] E infatti I sommersi e i salvati non è più un libro sulla memoria individuale, quanto sulla costruzione di una memoria collettiva. La concomitanza tra la redazione del libro e la fine dell’attività nelle scuole dipende sicuramente da una pluralità di motivazioni, ma non può non suggerire anche l’idea che un certo modo di interpretare la funzione del testimone, almeno per Primo Levi, fosse arrivato all’esaurimento.
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Verso la fine degli anni Settanta in Italia non arriva solo, dalla Francia, il dibattito sulle tesi di Faurisson, il meno screditato tra i sedicenti “storici” negazionisti. Tra maggio e giugno 1979 la Rai trasmette un altro prodotto culturale di importazione, questa volta proveniente dagli Stati Uniti: lo sceneggiato televisivo prodotto dalla NBC Holocaust, che l’anno precedente era stato trasmesso negli Usa e da allora non aveva fatto che riscuotere uno straordinario successo di pubblico, suscitando contemporaneamente intensi dibattiti, in America come in Israele, Francia e Germania ovest.
La ricezione italiana del serial, che pure fu seguito da quasi venti milioni di spettatori, non provocò un impatto di lungo termine paragonabile a quanto avvenuto in Germania, dove l’evento televisivo finì per segnare un punto di svolta nel tardivo confronto della cultura tedesca con il genocidio nazista. Le discussioni su giornali e periodici italiani, quando non deviavano l’argomento verso interpretazioni politiche attualizzanti (dalla violenza terrorista alla situazione in Medio Oriente), si limitavano ad affrontare, ma in maniera estremamente superficiale, il problema della “trivializzazione dell’Olocausto”, che negli Stati Uniti era stato sollevato da Elie Wiesel.[46] Quella dell’autore della Notte era sicuramente una posizione estrema – lo sterminio sarebbe stato un «a Holy Event that resisted profane representation»[47] –, ma Wiesel non fu l’unico testimone-sopravvissuto, negli Stati Uniti come in Francia, a sconfessare la produzione NBC in quanto incapace di restituire la realtà dell’esperienza vissuta. In Italia, per la maggior parte dei commentatori “intellettuali” il problema dell’appropriazione dello sterminio da parte dei grandi apparati spettacolari di massa era, per così dire, risolto in partenza dal pregiudizio che accomunava in uno stesso discredito qualsiasi prodotto televisivo e qualsiasi opera etichettabile come “hollywoodiana”. Holocaust fu insomma visto come un “polpettone americano”, buono al più per l’educazione delle masse incolte. Il serial aveva effettivamente i tratti del feuilleton, ma poneva anche, e per la prima volta a diverse culture nazionali contemporaneamente, la questione della messa in forma finzionale e non più testimoniale di eventi la cui «enormità» era «tale da renderli incredibili»:[48] eventi che sembrava quasi impossibile render degni di fede senza l’autenticazione della parola di chi li aveva direttamente vissuti.
Come era prevedibile, Levi viene chiamato a dare un giudizio sullo sceneggiato e sul romanzo di Gerald Green dal quale era stato tratto.[49] La posizione che lo scrittore assume pubblicamente è equilibrata:[50] pur non negando le imprecisioni, semplificazioni o edulcorazioni che accomunano il romanzo e la story televisiva, vi individua anche uno strumento per sconfiggere l’incredulità, e per garantire una quantomeno superficiale conoscenza diffusa di quanto avvenuto in Europa tra il ’33 e il ’45. «È insomma un alleato: ne avremmo preferito uno meno loquace, di maggiore sensibilità storica, meglio commisurato allo scopo: ma, anche così com’è, rimane pur sempre un alleato».[51] Siamo, è bene non dimenticarlo, nei mesi in cui il più autorevole quotidiano della sinistra francese, «Le Monde», pubblica articoli sulle tesi negazioniste di Faurisson.
Nella recensione a Holocaust apparsa sulla «Stampa», Levi accenna anche al fatto che «il filmato è stato visto […] non benché fosse una story, una vicenda romanzata, ma perché è una story. […] I due fattori associati, la forma romanzesca ed il veicolo televisivo, hanno mostrato appieno il loro gigantesco potere di penetrazione».[52] La recensione si chiude su una nota di timore nei confronti di questo «potere di penetrazione», che però, in questa occasione, è declinato in chiave esclusivamente politica.[53] Nel capitolo «Stereotipi» dei Sommersi e i salvati, invece, è avvertibile un’inquietudine diversa, questa volta per la capacità dell’industria culturale di dar voce e consolidare nelle menti meno avvertite una rappresentazione generica e imprecisa del passato; probabilmente anche Holocaust fa parte di quei «libri, film e miti approssimativi» all’origine degli “stereotipi” di cui Levi lamenta la pervicacia.
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Nell’analisi condotta da Levi su Holocaust e nella sua riflessione sugli “stereotipi” possiamo individuare una precoce intuizione dei tratti che caratterizzano la memoria dello sterminio oggi: viviamo in un tempo in cui il pericolo maggiore non è tanto l’oblio, quanto la semplificazione, se non addirittura l’assuefazione, alla memoria di quegli eventi passati. Nel mondo occidentale si può dare per assodata una consapevolezza diffusa dell’assassinio sistematico di milioni di ebrei portato avanti dal regime nazista durante la seconda guerra mondiale; questa consapevolezza corrisponde però spesso a una percezione degli eventi astorica, edulcorata e intrisa di stereotipi, elaborata a partire da stories che – come l’Holocaust analizzato da Levi – funzionano grazie a «personaggi da manuale, dai meccanismi mentali semplificati», con trame che si nutrono «degli episodi più strazianti».[54] L’industria spettacolare di massa è stata in effetti, negli ultimi vent’anni, l’agente principale di questa vicenda memoriale, in parallelo e spesso in alleanza con un processo di graduale istituzionalizzazione: non è un caso che gli studiosi tendano a individuare un punto di svolta nel 1993, anno dell’apertura a Washington dello United States Holocaust Memorial Museum, ma anche del successo mondiale del film Schindler’s List di Stephen Spielberg.
Sarebbe stato interessante conoscere il punto di vista di Primo Levi sullo «Schinder’s List effect»,[55] ma lo scrittore non ha potuto conoscere questa nuova fase della memoria globale dello sterminio. Levi muore nel 1987, poco meno di un anno dopo l’uscita dei Sommersi e i salvati. L’ombra del suicidio, e l’apparente circolarità tra la prima e l’ultima opera, hanno contribuito grandemente a cristallizzare l’immagine dello scrittore in quella del sopravvissuto di Auschwitz. In realtà, almeno fino al dicembre 1986 Levi stava lavorando a un nuovo libro, che sembra non avesse nulla a che fare con l’universo concentrazionario:[56] se Il doppio legame fosse stato finito e pubblicato prima della morte, forse il riconoscimento della grandezza di Levi come scrittore tout court, e non solo come scrittore-testimone, sarebbe stato meno tardivo.
La morte di Levi ha avuto un ultimo effetto sulla storia della memoria dello sterminio in Italia. Negli anni Novanta si infittisce la pubblicazione di libri di testimonianza scritti da persone che spesso avevano taciuto della propria esperienza concentrazionaria, perlomeno in pubblico, per più di quarant’anni.[57] A queste improvvise prese di parola concorrono molti fattori – le ricerche di storia orale; l’avvio del processo di istituzionalizzazione della memoria, che crea un bisogno sociale di testimonianze, gli effetti stessi dell’incalzare del tempo che abbrevia la vita; la pressione di figli o nipoti –, ma alcuni di questi testimoni “tardivi” hanno dichiarato di essersi sentiti chiamati in causa dalla scomparsa di Levi, «colui che aveva parlato per tutti».[58] Sono parole della psicoanalista Luciana Nissim, che era stata amica di Levi e con lui aveva vissuto la breve avventura partigiana, l’arresto, la prigionia e la deportazione ad Auschwitz; anche lei, dopo aver rifiutato per decenni di parlare pubblicamente dei mesi trascorsi ad Auschwitz, comincia a farlo dopo la morte dell’amico, quasi a raccoglierne l’eredità.
Forse l’espressione più toccante dei sentimenti che hanno colto molti sopravvissuti alla notizia della morte di Levi è il racconto Mozzicone di Liana Millu. La scrittrice vi narra come, poco prima del Natale del 1986, avesse inviato a Levi in regalo il mozzicone di matita, conservato per più di quarant’anni, con cui aveva scritto le proprie memorie.
La matita, invece, la tenni ancora, ridotta a pochi centimetri, scrostata, mordicchiata, la punta maldestramente aguzzata da entrambi i lati. Finché mi resi conto che mancavo ai miei doveri nei suoi confronti: doveva rimanere e portare testimonianza anche nel futuro. Primo Levi aveva alcuni anni meno di me. Così, all’improvviso, decisi che gliel’avrei affidata. […] Brevemente gli scrissi spiegandogli la storia della matita e tutta la situazione. […]. Mi giunse questa risposta: «Cara amica, ho ricevuto lo strano e prezioso dono e ne ho apprezzato tutto il valore. La conserverò. Anche per me i giorni si stanno facendo corti ma le auguro di conservare a lungo la Sua serenità e la capacità di affetto che ha testimoniato inviandomi quel “mozzicone del Meclemburgo” così carico di ricordi per Lei (e per me). Con affetto. Suo Primo Levi». «La conserverò». La data era quella del sette gennaio 1987. […] Il biglietto di Primo Levi è diventato l’ultimo. Quanto alla matita che mi stava tanto a cuore, non ne ho saputo più niente.[59]
Il dono della matita è un riconoscimento alla funzione di custode della memoria, ma anche di maieuta di memorie altrui, che Levi aveva esercitato per decenni e che, in un certo senso, ha continuato a esercitare anche dopo la sua morte.
[1] Questo processo di istituzionalizzazione sfocia nella proclamazione di “giornate della memoria”, la cui cronologia varia di Paese in Paese: per esempio, in Israele (1953), Stati Uniti (1980), Germania (1996), Francia e Italia (2000), Gran Bretagna (2001), onu e Unione Europea (2005).
[2] Cfr. T. Segev, Ha–Milyon ha–shevi’i: ha-Yisre’elim veha-Sho’ah, Keter, Jerusalem 1991 (trad. it. Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia d’Israele, Mondadori, Milano 2001); A. Wieviorka, L’Ère du témoin, Plon, Paris 1998 (trad. it. L’era del testimone, Cortina, Milano 1999); P. Novick, The Holocaust in American Life, Houghton Mifflin, Boston 1999 (l’edizione britannica del libro, uscita nel 2001, è identica a quella statunitense ma ha un diverso titolo: The Holocaust and Collective Memory: the American Experience).
[3] Per designare questo campo di oggetti globalizzati, in ambito internazionale si parla comunemente di Holocaust Field o Holocaust Discourse: “Holocaust” è infatti il termine più diffuso in area anglosassone per designare gli stermini razziali nazisti, mentre in Italia si è affermato negli ultimi due decenni il termine “Shoah”. Robert Gordon analizza i motivi di questa distinzione in The Holocaust in Italian Culture, 1944-2010, Stanford University Press, Stanford 2012, in particolare alle pp. 176-180 (su questo libro cfr. infra). L’uso dell’una o dell’altra terminologia costituisce un capitolo importante della storia della memoria: cfr. A.-V. Sullam Calimani, I nomi dello sterminio, Einaudi, Torino 2001.
[4] P. Novick, The Holocaust and Collective Memory: the American Experience, Bloomsbury, London 2001, p. 351; Novick non si sforza troppo di nascondere la propria predilezione per questa ipotesi controfattuale. Sul successo presso le élites liberal statunitensi dell’opera di Levi, spesso usata in esplicita contrapposizione alla pedagogia testimoniale di Wiesel, cfr. J. Druker, M. Rothberg, A Secular Alternative: Primo Levi’s Place in American Holocaust Discourse, in «Shofar. An Interdisciplinary Journal of Jewish Studies», 28, 1, 2009, pp. 104-126.
[5] R. Gordon, Which Holocaust? Primo Levi and the Field of Holocaust Memory in Post-War Italy, in «Italian Studies», 61, 1, 2006, pp. 85-113; Id., The Holocaust in Italian Culture, cit.
[6] In questo saggio mi servirò anche di un mio recente censimento bibliografico, i cui risultati sono resi in forma grafica in A. Baldini, La memoria italiana della Shoah (1944-2009), in Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, Einaudi, Torino 2012, vol. III, Dal Romanticismo a oggi, a cura di D. Scarpa, pp. 758-763; la cronologia dei testi e i criteri con cui è stata costruita sono scaricabili dalla pagina web http://www.einaudi.it/speciali/Atlante-della-letteratura-italiana-Vol.III: Cronologia. Le testimonianze della persecuzione e dello sterminio pubblicate in Italia (1944-2009). Ho scelto di selezionare il mio corpus con criteri restrittivi, per offrire all’analisi una base di dati omogenea; il materiale del mio censimento corrisponde perciò solo parzialmente a quello utilizzato da Gordon.
[7] Cfr. G.C. Ferretti, Siamo spiacenti di, Bruno Mondadori, Milano 2012.
[8] Cfr. M. Anissimov, Primo Levi, ou la tragédie d’un optimiste, Lattès, Paris 1996; trad. it. Primo Levi o la tragedia di un ottimista, Dalai, Milano 1999.
[9] Già Levi aveva dovuto confrontarsi con simili fraintendimenti, dovuti agli effetti del trapianto della sua opera in un diverso humus culturale. Nel 1985 era apparso su «Commentary», una rivista ebraica newyorkese di orientamento conservatore, un ampio saggio-recensione che si chiudeva con un attacco all’identità ebraica incarnata dallo scrittore: attacco assurdo, dal punto di vista di Levi, che in una lettera di risposta spiegava come il suo modo di vivere l’ebraismo fosse il prodotto di una storia, la sua e quella degli ebrei italiani (cfr. F. Eberstadt, Reading Primo Levi, in «Commentary», October 1985, pp. 41-47; Levi risponde con una lettera al direttore della rivista, pubblicata in «Commentary», February 1986, pp. 6-7). Il fraintendimento era però inevitabile: un oggetto culturale di recente importazione viene sempre interpretato secondo i criteri di percezione, conflitto e giudizio del campo in cui approda. L’articolo di Eberstadt rivela una «implicit agenda […] of Jewish particularism» (Rothberg, Druker, A Secular Alternative, cit., p. 110): usa cioè Levi per prendere posizione su un problema specifico del mondo ebraico statunitense.
[10] Tra le recensioni al libro che discutono la mancata pubblicazione di Se questo è un uomo da parte di Einaudi si vedano: E. Ferrero, Primo Levi, l’ora dei veleni, in «La Stampa», 7 dicembre 1996; F. Camon, Primo Levi, l’incubo del rifiuto, in «La Stampa», 23 dicembre 1996; C. Cases, Ma gli italiani sanno biografare?, in «La Stampa», 17 gennaio 1997; D. Scarpa, Un Levi improbabile, «La rivista dei libri», VII, 4, aprile 1997, pp. 41-43; T. Judt, The Courage of the Elementary, in «The New York Review of Books», May 20, 1999, pp. 31-38; M. Belpoliti, Levi: il falso scandalo, in «La rivista dei libri», X, 1, gennaio 2000, p. 25-27.
[11] Novick, The Holocaust and Collective Memory, cit., p. 29.
[12] Questa interpretazione “resistenziale” della deportazione avrà lunga vita, e ancora negli anni Settanta alcune definizioni di “letteratura resistenziale” includono testi di internati politici e razziali: cfr. C. Annoni, La narrativa della resistenza: probabile catalogo, in «Vita e Pensiero», giugno-luglio 1970, pp. 27-42; M. Saccenti, Letteratura della Resistenza, in Dizionario critico di letteratura italiana, a cura di V. Branca, Torino, Utet 1973, pp. 598-606; l’antologia Resistenza italiana e impegno letterario, a cura di D. Maestri, Paravia, Torino 1975.
[13] «Prima e più delle interpretazioni valgono però le cifre. Tanti se si pensa alla piccola comunità italiana, gli ebrei deportati sono già all’origine pochi in confronto ai politici, e torneranno in misura molto minore»: A. Bravo, D. Jalla, Una misura onesta, in Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, a cura di A. Bravo, D. Jalla, FrancoAngeli, Milano 1994, p. 61. Qualche pagina prima, Bravo e Jalla avevano citato una riflessione analoga di Pierre Vidal-Naquet: «Se si prendono le prime testimonianze del dopoguerra, si vede che, in Francia come in Italia, il simbolo non era neanche Auschwitz, era Buchenwald per gli uomini e Ravensbrück per le donne. E per una ragione evidente: che erano tornati più uomini da Buchenwald e donne da Ravensbrück di quanti non fossero tornati da Auschwitz» (G. Saporetti, S. Schneider, L’uso perverso della storia, intervista a Pierre Vidal-Naquet, in «Una città», 23, giugno 1993, pp. 10-11).
[14] I. Calvino, Prefazione 1964 al «Sentiero dei nidi di ragno», in Id., Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Mondadori, Milano 1991, vol. I, pp. 1185-86. Nei ricordi di molti ex deportati, la frase di Calvino “strapparsi le parole di bocca” sembra da interpretarsi alla lettera: «E quando andavo al bar, gli altri dicevano subito: “Io quando ero in Grecia… Io quando ero in Albania…”»; «magari a un certo punto mi interrompevano, preferivano parlare dei fatti loro» (testimonianze di R. Botto e A. Travaglia, in La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, FrancoAngeli, Milano 1986, pp. 340-341 e 346).
[15] La collana in cui viene pubblicato Se questo è un uomo, la «Biblioteca Leone Ginzburg», è infatti ricordata da Renzo Zorzi, allora redattore alla De Silva, come «la più direttamente politica» della casa editrice (cfr. R. Zorzi, Insieme alla De Silva e oltre, in Franco Antonicelli: dell’impegno culturale, Provincia di Pavia, Pavia 1995, p. 58).
[16] Cfr. la lettera di Pavese del 9 febbraio 1948 a proposito di un manoscritto concentrazionario di Egon Berger («In genere rifiutiamo ogni libro dell’argomento. Il volume Se questo è un uomo di Primo Levi, pubblicato da De Silva Editore, era stato già respinto da noi. Le consigliamo appunto di rivolgersi a De Silva»: cit. in A. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 319n), e quella di Natalia Ginzburg a Sergio Antonielli del 9 luglio 1948, in cui Il campo 29 viene respinto e l’autore incoraggiato a rivolgersi alla De Silva (cit. in W. Barberis, Primo Levi e «un libro fatale», in Atlante della letteratura italiana, cit., vol. III, p. 754).
[17] Cfr. Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 319n. Sulle vicende editoriali del libro di Antelme cfr. anche D. Scarpa, Storie di libri necessari. Antelme, Duras, Vittorini, in Id., Storie avventurose di libri necessari, Alberto Gaffi, Roma 2010, pp. 165-202. Il libro di Rousset fu tradotto nel 1947 da Longanesi, che aveva interesse a importare in Italia il libro di un autore che in Francia aveva dato origine a un dibattito sugli aspetti totalitari dei regimi comunisti.
[18] Bravo, Jalla, Una misura onesta, cit., p. 52
[19] L. Levi, Nei campi della morte. Diario di un giovane deportato, in «La Prora», dicembre 1945-gennaio 1946; A. Cavaliere, I campi della morte in Germania nel racconto di una sopravvissuta, Sonzogno, Milano 1945 (Cavaliere raccoglie la testimonianza della cognata Sofia Schafranov); F. Misul, Fra gli artigli del mostro nazista: la più romanzesca delle realtà, il più realistico dei romanzi, Stabilimento Poligrafico Belforte, Livorno 1946; [L. Nissim,] Ricordi della casa dei morti, in Donne contro il mostro, Ramella, Torino 1946 (la testimonianza di Luciana Nissim appare anonima); G. Tedeschi, Questo povero corpo, Editrice Italiana, Milano 1946; A. Valech Capozzi, A 24029, Poligrafica, Siena 1946; P. Levi, Se questo è un uomo, De Silva, Torino 1947; L. Millu, Il fumo di Birkenau, La Prora, Milano 1947.
[20] Rispettivamente, nel 1958 (Einaudi) e nel 1957 (Mondadori).
[21] Frida Misul, Deportazione. Il mio diario, Ufficio Storico della Resistenza del Comune di Livorno, Livorno 1980; Giuliana Tedeschi, C’è un punto della terra… Una donna nel lager di Birkenau, La Giuntina, Firenze 1988; Alba Capozzi Valech, A 24029, Nuova Immagine, Siena 1995; Luciana Nissim, Ricordi dalla casa dei morti, La Giuntina, Firenze 2008.
[22] P. Levi, Deportati. Anniversario, in «Torino», XXXI, 4, aprile 1955, numero speciale dedicato al decennale della liberazione (in versione più breve l’articolo esce anche in «L’eco dell’educazione ebraica»), ora in P. Levi, Opere, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 1113.
[23] P. Levi, Il tempo delle svastiche, in «Il giornale dei genitori», 15 gennaio 1960, ora in Id., Opere, cit., vol. I, p. 1122.
[24] Il primo studioso a porvi attenzione è stato G. Tesio, Su alcune giunte e varianti di «Se questo è un uomo», in «Studi piemontesi», VI, 2, novembre 1977, pp. 270-279, ora in Piemonte letterario dell’Otto-Novecento (da G. Faldella a P. Levi), Bulzoni, Roma 1991, pp. 173-196. Si veda anche A. Cavaglion, Primo Levi e «Se questo è un uomo», Loescher, Torino 1993, e l’edizione commentata, sempre a cura di Cavaglion, P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 2012.
[25] P. Levi, Se questo è un uomo, in Opere, cit., vol. I, p. 35.
[26] Cfr. Immagini dal silenzio. La prima mostra nazionale dei lager nazisti attraverso l’Italia 1955-1960, a cura di M. Luppi, E. Ruffini e A. Cavaglion, Nuovagrafica, Carpi 2005; E. Ruffini, Un lapsus di Primo Levi. Il testimone e la ragazzina, Assessorato alla Cultura del Comune di Bergamo, Bergamo 2006.
[27] Traduzione di L. Poliakov, Bréviaire de la haine. Le IIIe Reich et les juifs, Calmann-Lévy, Paris 1951. La prefazione è firmata da François Mauriac, che introdurrà anche l’edizione francese della Nuit di Wiesel.
[28] Gli articoli di Meneghello sono stati ripubblicati quarant’anni dopo: L. Meneghello, Promemoria. Lo sterminio degli ebrei d’Europa, 1939-45, il Mulino, Bologna 1994.
[29] Cfr. Wieviorka, L’Ère du témoin, cit., soprattutto il capitolo «L’avènement du témoin».
[30] Novick, The Holocaust and collective memory, cit., p. 133.
[31] Wieviorka, L’Ère du témoin, cit., pp. 106-107.
[32] Nel 1967 Einaudi pubblica il testo nella sua «Collezione di teatro».
[33] Cfr. I. Thomson, Primo Levi, Hutchinson, London 2002, pp. 316-319; C. Angier, The Double Bond. Primo Levi. A Biography, Farrar, Straus and Giroux, New York 2002, pp. 561-564.
[34] Levi fu chiamato a intervenire pubblicamente sul processo ad Eichmann: nel giugno 1961 venne invitato dalla rivista «Storia illustrata» a discuterne in una tavola rotonda cui parteciparono il filosofo Remo Cantoni, lo psicoanalista Cesare Musatti e il giurista Francesco Carnelutti: cfr. La vacanza morale del fascismo. Intorno a Primo Levi, a cura di A.I. Davidson, ETS, Pisa 2009. Possediamo anche una testimonianza privata delle emozioni e riflessioni dello scrittore all’indomani della cattura dell’ufficiale SS nella poesia, datata 20 luglio 1960, Per Adolf Eichmann (ora in Opere, cit., vol. II, p. 540).
[35] Cfr. l’Appendice aggiunta nel 1976 all’edizione scolastica di Se questo è un uomo: «ai miei due mestieri ne ho volentieri aggiunto un terzo, quello di presentatore e commentatore di me stesso, o meglio di quel lontano me stesso che aveva vissuto l’avventura di Auschwitz e l’aveva raccontata» (Levi, Se questo è un uomo, in Opere, cit., vol. I, p. 174).
[36] Questi cicli di lezioni sono stati in seguito pubblicati: Lezioni sull’antifascismo, a cura di P. Permoli, Laterza, Bari 1960 (lezioni romane); Trent’anni di storia italiana (1915-1945), a cura di F. Antonicelli, Einaudi, Torino 1961 (lezioni torinesi); Fascismo e antifascismo (1918-36). Lezioni e testimonianze, Feltrinelli, Milano 1962 (lezioni milanesi); Storia dell’antifascismo italiano, a cura di L. Arbizzani e A. Caltabiano, vol. I, Lezioni, vol. II, Testimonianze, Editori Riuniti Roma 1964 (lezioni bolognesi).
[37] Cfr. le conclusioni tratte da Gordon in Which Holocaust? Primo Levi and the Field of Holocaust Memory in Post-War Italy, cit., poi riprese nel capitolo «Primo Levi» del libro del 2012. Gordon prende in considerazione non tanto gli scritti di Levi, quanto «a low-level, “public” Levi»: «To get a sense of Levi’s particolar configuration of the Holocaust, as transmitted in schools and other public arenas, we need to set aside the nuanced detail and compelling power of his own testimonial writings per se and concentrate instead on his occasional and pedagogical writings» (The Holocaust in Italian Culture, cit., p. 68).
[38] Intervista a Lidia Rolfi, a cura di F. Cereja, in Primo Levi: il presente del passato, a cura di A. Cavaglion, FrancoAngeli, Milano 1993, p. 224.
[39] Il testo di Levi è pubblicato anche in Opere, cit., vol. I, pp. 1335-36. Per la vicenda del Blocco 21 di Auschwitz, cfr. E. Ruffini, S. Parrocchia, Il Blocco 21 di Auschwitz, in «Studi e ricerche di storia contemporanea», 37, 69, giugno 2008, pp. 9-29; E. Ruffini, Lavoro di squadra, intelligenza e fantasia: storia del memoriale italiano, in Il memoriale italiano di Auschwitz e il cantiere Blocco 21. Un patrimonio materiale da salvare, «Quaderni d’Ananke», 1, 2009, pp. 13-23.
[40] Intervista a Lidia Rolfi, cit., p. 224.
[41] Questa Appendice viene oggi ristampata in tutte le edizioni, scolastiche e non, come parte integrante del testo.
[42] P. Levi, I sommersi e i salvati, in Opere, cit., vol. II, p. 1116.
[43] Ibidem.
[44] Ivi, p. 1020.
[45] Nella ricostruzione di Gordon, gli anni Settanta sono quelli in cui «awareness of the Holocaust became a given across the Italian cultural sphere, part of the standard cultural baggage of everyone from intellectuals to schoolchildren» (The Holocaust in Italian Culture, cit., p. 110).
[46] Cfr. E. Perra, Narratives of Innocence and Victimhood: The Reception of the Miniseries Holocaust in Italy, in «Holocaust and Genocide Studies», 22, 3, Winter 2008, pp. 411-440.
[47] E. Wiesel, Trivializing the Holocaust: Semi-Fact and Semi-Fiction, in «The New Yorker», 16 April 1978.
[48] P. Levi, Un Olocausto che pesa ancora sulla coscienza del mondo, in «Tuttolibri», 28 aprile 1979, ora in Opere, cit., vol. I, p. 1266.
[49] Levi, Un Olocausto che pesa ancora sulla coscienza del mondo, cit.; Perché non ritornino gli Olocausti di ieri (le stragi naziste, le folle e la tv), in «La Stampa», 20 maggio 1979, ora in Opere, cit., vol. I, pp. 1268-71; Le immagini di «Olocausto», in Le immagini di «Olocausto» – dalla realtà alla tv, Speciale del «Radiocorriere Tv», a cura di P. Martinelli, Eri, Torino 1979, ora in Opere, cit., vol. I, pp. 1272-80.
[50] Meno indulgenti sembra siano state le opinioni espresse in privato: «I heartily disliked the series [he told Hety Schmitt-Maas]. It is superficial and untruthful; it lacks any historical explanation […]. On the other hand the film has achieved his goal, both here and in Germany. People on the buses are talking about it, and also in the schools, which is good: it is, however, sad to think that in order to reach the man on the street, history has to be simplified and digested to such an extent» (Thomson, Primo Levi, cit., p. 404).
[51] Levi, Un Olocausto che pesa ancora sulla coscienza del mondo, cit., p. 1267.
[52] Levi, Perché non ritornino gli Olocausti di ieri (le stragi naziste, le folle e la tv), cit., p. 1270.
[53] «Non si riesce a reprimere un brivido di allarme di fronte all’ipotesi di quanto potrebbe accadere, se il tema scelto fosse diverso od opposto, in un paese in cui la televisione fosse voce esclusiva dello Stato, non sottoposta a controlli democratici né accessibile alle critiche degli spettatori»: ivi, pp. 1270-71.
[54] Levi, Un Olocausto che pesa ancora sulla coscienza del mondo, cit., p. 1265.
[55] Cfr. M.A. Bernstein, The Schinder’s List effect, in «The American Scholar», 63, Summer 1997, pp. 429-432.
[56] Ne parla diffusamente Carole Angier nella sua biografia.
[57] Rimando alla Cronologia pubblicata on-line sul sito dell’Atlante della letteratura italiana., cit.
[58] A. Guadagni, La memoria del bene. Luciana Nissim, in «Diario», II, 8 febbraio 1997, p. 19.
[59] L. Millu, Quel mozzicone di matita del Meclemburgo, in Ead., Dopo il fumo. «Sono il n. A 5384 di Auschwitz Birkenau», Morcelliana, Brescia 1999, pp. 75-78; ristampato anche in Tagebuch. Il diario del ritorno dal Lager, Giuntina, Firenze 2006, pp. 23-26.
[Immagine: Lucio Fontana, Concetto spaziale (gm)].
E’ da quando ero ragazzino che mi chiedo come abbiamo potuto permettere che questa immane tragedia si abbattesse su di noi.Mi sono dato sempre parziali risposte. Riflessioni e ricordi amarissimi che non sono certo stati risolutivi.Una cosa sicuramente la posso sottolineare.Si riferisce ai comportamenti quotidiani. Quella indifferente quotidianità che ha permesso a Hitler e ai suoi complici-assassini di prevalere. Oggi quindi sarà per me la giornata della memoria contro l’indifferenza.
Il fascismo per primo e il nazismo dopo, Hitler si diceva un alunno di Mussolini, sono arrivati alla fine della prima guerra mondiale, per impedire la distribuzione delle terre e per far rientrare nelle fabbriche gli operai in sciopero.
Questa e’ la colpa principale del braccio violento della destra.
Il nazismo poi fu un partito di malati di mente, che imprigionarono e misero nei campi anche i loro padrini.
Per liberarsi dal golem ribelle i governi capitalisti dovettero fare un’altra guerra, che per fortuna vinsero.
Ma non e’ finita,
Gli Stati Uniti ebbero la bomba atomica, con la quale minacciarono l’URSS e l’intera umanita’.
Cosi’ continua lo scontro tra gli sfruttatori e gli sfruttati.
Chissà che ne penserebbe Primo Levi…