di Gianluigi Simonetti

 

[LPLC ripubblica i migliori contributi dei suoi collaboratori. Oggi, ultimo giorno dedicato a queste riproposte, presentiamo tre post dei fondatori. Questo articolo di Gianluigi Simonetti è uscito il 5 aprile 2013].

 

1. All’indomani del terremoto del 6 aprile 2009, nell’area cosiddetta del “cratere ristretto”, attorno alla città dell’Aquila, si trovavano non meno di settantamila persone senza dimora, da ospitare nelle tendopoli. Il governo in carica, di centro-destra, proponeva di investire gran parte delle risorse disponibili nella costruzione di una grande new town – “L’Aquila Due”, come la chiamava il nostro ex Presidente del Consiglio: un ‘doppio’ della città colpita, più moderna e più sicura dell’originale, che in breve tempo garantisse agli sfollati un rifugio confortevole e permettesse di affrontare con calma una ricostruzione che si annunciava lunghissima e difficile, per l’entità dei danni, per la qualità del tessuto urbano storico colpito, per la scarsità di fondi disponibili. A questo progetto si opponeva la sinistra antagonista aquilana e i comitati cittadini più battaglieri, la cui richiesta era di cominciare subito, con investimenti straordinari,  la ricostruzione del centro, ricorrendo a prefabbricati per le sistemazioni di emergenza. L’amministrazione comunale aquilana, di centrosinistra, finiva con l’assumere una posizione di compromesso; si opponeva al progetto di un’unica new town, ma negoziava la proposta di costruire diverse piccole aree di edilizia ‘leggera’ intorno alla città – “piastre”, in gergo tecnico – conservandosi il diritto di indicare, piano regolatore alla mano, le località più adatte ai nuovi insediamenti.

 

Una volta varato, il Progetto C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili) ha permesso di edificare, nel giro di una decina di mesi, e su terreni espropriati ai privati (la maggior parte dei quali ancora in attesa dei rimborsi), diciannove aree C.A.S.E., nelle quali alloggiano attualmente circa 16.000 persone.  Alcune alla periferia della città, altre, si può dire, in aperta campagna.

 

Quelli delle C.A.S.E. sono di edifici di tre o quattro piani al massimo, issati come palafitte su pilastri dotati di un sistema di ammortizzazione antisismica. Gli stabili hanno tutti più o meno la stessa stazza, ma non sono esattamente uguali; predominano gli inserti in legno e metallo, le ampie superfici vetrate, i colori tenui –  la somma delle analogie tende a far dimenticare le piccole differenze e a omologare il paesaggio. In questi edifici perdere l’orientamento è facile, anche per chi ci vive. Una notte alla porta di un’amica che abita nelle C.A.S.E. di  Sant’Antonio ha bussato un giovane ubriaco: credeva di essere arrivato a casa sua, ma si era confuso e aveva sbagliato ‘piastra’ .

2. Chi, come me, sa poco o nulla di architettura o di urbanistica, può avere l’impressione, osservando questi moduli dall’esterno, di trovarsi nell’estrema periferia urbana di qualche paese nordeuropeo.  Riferimenti generici, perché generiche sono le associazioni che scattano; mi sembra di aver visto qualcosa di simile a Osdorp, un quartiere residenziale di Amsterdam, ma può benissimo darsi che quello che ho in testa sia solo un cliché. Alcuni caseggiati sembrano più riusciti di altri, dal punto di vista estetico, ma tutti esibiscono un disegno razionalistico, privo di orpelli, improntato al decoro. Manca, o scarseggia, l’eterno intonaco grigio sporco dei casermoni popolari centro-meridionali, con quei loro volumi sbagliati e soffocanti invasi dalle auto e dalle insegne; al posto del cemento materiali più amichevoli, e dettagli relativamente rari nel nostro più consueto paesaggio urbano: pannelli solari, parcheggi numerati, vialetti di ghiaia, piccoli alberi appena piantati e sorretti da stecchi, corti erbose e aree di gioco per bambini. Però i viali sono vuoti, i bambini non si vedono, gli spazi comuni sembrano quasi sempre deserti; le insegne mancano perché mancano i negozi, di qualsiasi tipo. Il trasporto pubblico aquilano, insufficiente già prima del terremoto, è ridotto al minimo, anche perché la chiusura del centro e l’urbanizzazione ‘brianzola’ della periferia e della campagna hanno dilatato le distanze da percorrere – tra i campi i vuoti e i pieni si succedono per decine di chilometri. Le vere attività quotidiane, ‘struscio’ incluso, si svolgono in gran parte nei centri commerciali, per raggiungere i quali bisogna prendere l’auto; nei bus ci salgono soprattutto gli studenti o gli immigrati. La vita è altrove; quel che rimane, nelle ‘piastre’, è l’isolamento, e il decoro. Decoro che mette soggezione: non sono ancora apparse, o scarseggiano, le scritte e i graffiti che riempiono i muri dei quartieri italiani, si direbbe che gli aquilani non se la sentano di ‘personalizzare’ un paesaggio così modulare e interscambiabile; la creatività (e il vandalismo) nascono da una tensione, mentre qui tutto sembra sopito, o sedato. Ma non si può dire  che queste nuove palazzine abbiano sfigurato le periferie aquilane; quelle periferie, e se è per questo anche alcune parti non piccole del bellissimo centro storico, le aveva distrutte in precedenza la speculazione edilizia locale, particolarmente selvaggia dagli anni Sessanta in poi. Non è forse un caso che molti danni ingenti si siano registrati fuori dalle mura antiche, in palazzi di costruzione recente o recentissima, in quartieri nuovi come Pettino, o Santa Croce, tra Piazzale Paoli e Campo di Fossa.

 

Chi entrasse nelle case “di Berlusconi”, come molti aquilani le chiamano, vi troverebbe  appartamenti con tagli diversi, dal monolocale ai tre vani, ma dall’arredamento simile, improntato a un minimalismo economico e senza spigoli (legno lucido e scuro, non lacca bianca e acciaio). Come l’esterno, anche l’interno fa pensare a un generico decoro occidentale: forse il parquet di qualità modesta, forse il modo in cui sono organizzati spazi e arredamenti. Ci si muove in un luogo che è stato pensato, in modo impersonale ma lucido: stanze d’albergo a due o tre stelle, interni da residence, come se ne trovano in un qualsiasi paese occidentale. Quello che manca è il senso di un farsi storico del paesaggio urbano, di un ‘segno’ locale, di una comunità con radici specifiche: la vita quotidiana pare infatti scorrere meglio nelle ‘piastre’ costruite a ridosso di piccoli centri o frazioni, dove si è potuto conservare un nucleo sociale preesistente, e peggio dove si concentrano cittadini provenienti da quartieri o paesi diversi e lontani, i cui rapporti devono ricominciare da zero. A ogni ‘piastra’, in teoria, è assegnato un centro polivalente, che dovrebbe servire a “socializzare”. Alle C.A.S.E. di Bazzano la FIAT ha finanziato la costruzione di un asilo fatto di tre cubi di vetro (lo chiamano “Il Bruco”); lo vedi dalla statale 17, a otto chilometri dal centro dell’Aquila e a poche centinaia di metri da quello che una volta era un nucleo industriale, in mezzo a una valle chiusa a nord dai bastioni rocciosi del Gran Sasso e a sud dalle linee più morbide del Sirente-Velino. Un posto che doveva essere bellissimo, prima dell’uomo.

 

 3. All’Aquila ci lavoro ma non ci ho mai vissuto veramente, la mia testimonianza è quella, superficiale per definizione, di un osservatore occasionale. Però nelle “case di Berlusconi” ho dormito spesso, in questi anni, ospite di amici aquilani che hanno perduto la casa ma che continuano a occuparsi di me quando mi capita di pernottare in città. Il paragone col passato, per molti di loro, non ha senso, ed è meglio non parlarne affatto. Il mio amico Fabrizio viveva accanto alla Fontana delle 99 Cannelle, simbolo città, dallo splendido rivestimento quattrocentesco in pietra bianca e rosa; intorno al 2000 aveva comprato a poco una piccola casa-torre trecentesca, con l’idea di ristrutturarla e andarci ad abitare. Fabrizio è un uomo che sa fare di tutto, e con l’aiuto di un bravo carpentiere ha realizzato un ottimo lavoro – talmente buono che la casa ha resistito al terremoto del 6 aprile. Ma gli edifici circostanti hanno ceduto progressivamente, collassando sulla torre e obbligando all’abbattimento. A due anni e mezzo dal terremoto a Fabrizio hanno assegnato un monolocale in una ‘piastra’ di Bazzano. Ricordo bene, la prima volta che vi entrai, quando mi resi conto che il forno in dotazione era proprio il mio forno, lo stesso modello che avevo installato pochi mesi prima – con l’aiuto di Fabrizio, amaro dettaglio – nella mia cucina romana. Chi ha realizzato gli arredi interni, com’è noto, ha dotato le case “di ogni comfort” –  con un’attenzione particolare (maniacale e quindi un po’ sospetta) per oggetti inessenziali, marginali o decisamente futili. Lavatrice e lavastoviglie, va bene; ma anche televisori ultrapiatti, stendipanni con tanto di mollette, addirittura una bottiglia di spumante in un contenitore termico (sul quale è stampato il logo della Protezione civile). L’appartamento in cui sono stato ospitato più spesso si trova a Bazzano, in via Fabrizio De Andrè, giusto all’incrocio con via Mia Martini: quando sono finiti i cantanti, per trovare un nome alle strade l’amministrazione ha fatto ricorso agli sportivi, poi ai pittori, agli scultori, eccetera: anche la toponomastica è nuova di zecca, anche lei concorre a smussare gli angoli e a sopire le tensioni. Le statistiche dicono che l’uso degli psicofarmaci in città è aumentato dell’ottanta per cento dall’aprile del 2009; all’Aquila, città di montagna, si beveva tanto anche prima del sisma, ma adesso l’alcool scorre a fiumi, letteralmente, nelle strade del borgo antico, dove l’unica forma di vita, dal giovedì al sabato, è quella un po’ allucinante delle osterie e dei bar aperti la notte. Un centro che di giorno è deserto, chiuso in gran parte, reso spettrale dal silenzio e dai ponteggi a perdita d’occhio – questo centro vuoto si riempie la sera di una folla che ripete, meccanicamente e con più enfasi, i gesti di prima, e negli stessi luoghi. Forse ogni ‘movida’ ha qualcosa di disperato, ma quella aquilana del dopoterremoto somiglia a una contestazione permanente; anzi sembra la più imperterrita, la più ostinata delle contestazioni che gli aquilani hanno saputo organizzare.

 

 4. A quasi quattro anni dal sisma, i cantieri del centro lavorano a rilento, mentre le ‘piastre’ ai margini della città ospitano circa quattordicimila persone. Si dice che arriverà un momento in cui, completata la ricostruzione, le cubature edificate andranno riconvertite e usate ad altri scopi; c’è chi parla di alloggi per gli studenti, se ancora ci sarà un Ateneo degli studi dell’Aquila. Ma è chiaro che oggi, e per molto tempo ancora, questi appartamenti servono non solo a tamponare un’emergenza abitativa, ma anche e forse soprattutto a far dimenticare che una città è scomparsa. Non saprei dire se il progetto C.A.S.E. rappresenti una riuscita o un fallimento, se c’erano altre strade praticabili, se si poteva fare diversamente e meglio. Da testimone esterno, solidale ma illeso, mi sembra di cogliere in quest’esperienza un significato politico, e forse una premonizione, che non coinvolge soltanto gli aquilani. L’esperimento in corso forse vuole dimostrare che le città non hanno più bisogno di radici, che i centri storici sono già solo luoghi di turismo o di evasione, perché la storia e la bellezza non ci riguardano veramente più. Il passato culturale lo amiamo perché suggerisce una forma, ma per lo stesso motivo, magari inconsciamente, possiamo abituarci a farne a meno – è la nostra vita che non ha più una forma. Quello che davvero ci occorre, quello che chiamiamo casa, è un cubo illuminato, riscaldato e confortevole, vicino a una palestra e a un ipermercato, con un televisore e un posto macchina. Anche per questo, forse, le “case di Berlusconi” sono molto diverse dalle baracche che sbarcarono a Potenza, la mia città, nell’inverno del 1980, dopo quel terremoto: anguste e precarie scatole di latta dal colore assurdo, gelide e inospitali, in cui pensare di vivere a lungo era obbiettivamente impossibile (anche se ci fu chi vi restò per più di dieci anni). Queste dell’Aquila sono palazzine dignitose, apparentemente funzionali – giusto palliativo per un Paese che vive di apparenze. Qui si può credere di spendere una vita intera, se la manutenzione è corretta e nessuno alza la voce. Qui si può dimenticare che L’Aquila Uno è recintata e vuota, soprattutto se non si esce la sera o si rimane sulle tangenziali. Qui si può invecchiare tranquillamente e in silenzio, senza che nulla sia cambiato fuori.

 

[Questo articolo è già uscito su «Alfabeta2»].

 

[Immagine: L’Aquila, Fontana delle 99 cannelle (gs)].

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *