di Michele Maestroni

Walter Siti è nato a Modena nel 1947. Vincitore del Premio Strega con Resistere non serve a niente (Rizzoli, 2012) e già autore del discusso Bruciare tutto (Rizzoli, 2017), è tornato nelle librerie con Bontà (Einaudi Stile Libero, 2018), il «racconto lungo» di Ugo, un vecchio editore cinico e incattivito, che, per fuggire da una vita mediocre e piena di insoddisfazione e solitudine, vuole rendere la sua morte un epico atto finale degno di un eroe tragico. Bontà è, per Siti, anche il pretesto per affrontare una «parola nuda, stuprata da molti e da molti onorata in silenzio, che mi faceva (e mi fa ancora) tremare» e un sentimento che più volte l’ha portato a fare i conti con la propria vita e le proprie idee.

 

Da quali spunti nasce Ugo e il rapporto che questo personaggio ha con il grande concetto che capeggia fin dalla copertina del libro, ovvero la bontà?



Ugo non sa nemmeno dove sta di casa, la bontà. Mi interessava analizzare la sua cattiveria e capire da dove nasceva questo suo bisogno di essere così cattivo. Avevo l’impressione che il suo carattere arcigno fosse il prodotto di tante frustrazioni, ed è da qui che nasce l’idea di scrivere questo libro anche per me: avendo settantadue anni, devo fare i conti con la fine della mia attività erotica, e questo, quando comincio a tirare le somme proprio come fa Ugo nel libro, crea il rimpianto per le cose che non ci sono state. Quindi ho immaginato questo omosessuale che nella vita non ha mai conosciuto l’amore corrisposto: il fatto di essere ricco, di avere troppi soldi, lo ha condannato alla solitudine, perché ha sempre trovato più facile pagarsi il sesso ogni volta che ne aveva voglia. Così facendo, ha evitato tutti i rischi verso cui si va in contro quando si cerca l’amore corrisposto – come, per esempio, l’essere rifiutato. All’inizio, a Ugo sembrava di fare una bella vita, ma alla fine si ritrova con un pugno di cenere. Partendo da questa immagine e cominciando a sentire dentro di me questo vecchio editore incazzato, ho cominciato a chiedermi se questa rabbia che nasce dall’insoddisfazione per i propri desideri irrealizzati non fosse anche una rabbia collettiva che caratterizza l’oggi. Lo spunto per il libro è stato doppio: da una parte, lo sguardo verso cosa è successo a me invecchiando, e la sua analisi; dall’altra, l’aria che tira fuori, sul piano sociale.

 

 

Infatti nel libro c’è un passo che dice: «i desideri che marciscono producono odio, il cielo d’Europa è un cielo di frustrazione».


 

Io mi ricordo il mondo tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta: un mondo che riteneva molto possibile esaudire i propri desideri, si parlava molto di desiderio, soprattutto in ambito omosessuale e sessuale in generale. Sembrava stessimo andando verso una progressiva liberalizzazione del desiderio che ci faceva credere che qualunque desiderio si avesse, presto o tardi sarebbe stato soddisfacibile. Poi però la crisi economica e una serie di censure ideologiche hanno fatto finire quel mondo, e ho l’impressione che oggi dei desideri si parli molto poco, si parla più di bisogni: credo che questo inacidirsi dei desideri abbia generato tutto quel rancore che oggi si respira intorno a noi. C’è statato un arretramento, come dire, casalingo: «in casa mia non entra nessuno», e dato che la nazione è una grande casa, «nella mia nazione non entra nessuno»… Che comunque è un’inclinazione molto umana. Io mi ricordo la mamma, una donna di scarsa cultura ma che credo fosse di sinistra (aveva fatto la partigiana): una volta diventata vecchia, lei mi diceva sempre che in nessun posto si stava meglio che in casa propria, e mi rimproverava se dovevo partire per dei viaggi, perché secondo lei in giro non c’era nulla da vedere. Ho l’impressione che questa mentalità da vecchia signora sia diventata la mentalità della nostra nazione: questo trincerarsi tra le proprie mura ha creato e crea ancora una specie di astio verso chi invece vorrebbe violare la sacralità della casa privata e le sue pareti.

 

 

Tornando a Bontà: il fatto che Ugo alla fine non riesca a suicidarsi ma, in seguito a un incidente casalingo, finisca per diventare un ordinario vecchietto da accudire, è la sconfitta definitiva del personaggio o una possibilità di rinascita per lui?


 

Sinceramente non lo so. Nel finale ho preso la posizione del sarcasmo, buttandola sul grottesco. Ugo è un poeta mancato e una persona abituata, facendo l’editor di una casa editrice, a considerarsi migliore degli autori che pubblica; vive quindi in un mondo di immaginazione, perché lui non ha mai scritto niente, non si è mai messo alla prova, non può sapere quanto vale come scrittore. Il fatto che si lascia andare a questa cosa un po’ pasoliniana del voler fare della propria vita un grande poema d’azione, di concludere la propria esistenza col botto, con un’ultima scopata fantastica e fatale… È talmente assurda e grottesca come cosa che non potevo farla finire bene, doveva essere un fallimento, un ultimo atto che finisce tra il buffo e il disperato. Però, quando poi Ugo si ritrova sulla sedia a rotelle e viene ospitato presso la famiglia di Carlo (il collega di lavoro che il protagonista qualche tempo prima aveva trattato peggio, licenziandolo in tronco, ndr), si trova di fronte a un gruppo di persone in cui sembra che tutti si occupino degli altri più che di se stessi. Per esempio, i figli di Carlo, che essendo giovani forse potrebbero essere portati più verso l’egoismo, si occupano di lui e si interessano dei fatti suoi. Questo comportamento di mettere l’altro davanti a sé e ai propri bisogni è quello che succede quando si fa la bontà, ovvero quel sentimento che però Ugo non ha mai provato perché per lui l’io è sempre stato al centro di tutto. Nel momento in cui si ritrova in questa famiglia che respira un’aria che lui non ha mai respirato, Ugo ha un attimo di incertezza, di shock, perché capisce che forse si può vivere in un altro modo che non è il suo, e questo forse sarebbe l’inizio del suo riscatto… Però non sono sicuro che lui sia in grado di coglierlo. In realtà, in una prima versione del libro avevo pensato a una battuta finale che avrebbe rovesciato di nuovo le cose; siccome il ragazzo che poi sarebbe diventato il “sicario”, l’agente narrativo che dovrebbe aiutare Ugo a suicidarsi, a un certo punto della storia racconta che lui predilige accompagnare e prendersi cura dei mutilati, ho pensato che Ugo alla fine gli telefonasse dalla carrozzina dicendogli «non ne posso più, vienimi a prendere», facendo così ricominciare da capo tutto il percorso del protagonista. Sarebbe stato riconfermare quello che Ugo era, senza molta ambiguità, ma ho scartato questa conclusione perché ho trovato più divertente lasciare aperta la questione, dato che il personaggio, come me, conosce molto poco la bontà e pensa non sia roba per lui.
Infatti, quando io mi trovo a che fare con persone che dimostrano, per esempio, molta empatia nei confronti dell’altro, ammiro molto questa cosa ma non riesco a provarla, non so cosa sia. Per questo continuo a pensare che la bontà sia un concetto che vada preso con le pinze perché è molto grande, non è che la si trova al supermercato. Oggi ci si riempie molto la bocca con questa parola, anche in politica, ma in politica penso siano più giuste parole come “giustizia” o “responsabilità”. La bontà l’ho sempre concepita come una cosa individuale, non è affatto detto faccia bene socialmente, non ne sono così sicuro: per quanto mi riguarda, se arrivasse da me un assassino scappato di prigione, ferito ed affamato, la prima cosa che farei è dargli da mangiare, non chiamare la polizia – eppure, per dovere civile, quest’ultima sarebbe la cosa migliore da fare. Però resta il fatto che per me la bontà la terrei nel privato, non nel pubblico.

 

 

Molti protagonisti dei suoi romanzi – penso a Don Leo di Bruciare tutto, a Tommaso Aricò di Resistere non serve a niente, e per certi versi anche a Ugo – sembra che abbiano nel loro DNA un meccanismo di autodistruzione: a un certo punto della loro storia, il dio che li ha creati e che li narra, a furia di giocarci e strapazzarli, li rompe, e in quel momento avviene un cortocircuito che porta il protagonista di turno a una rovinosa caduta verso il proprio annientamento. Qual è il senso di questi personaggi, così diversi tra loro ma così simili nel destino?

 

Io credo che se uno cerca l’assoluto, alla fine questo assoluto lo trova nel niente; si dovrebbe imparare a cercare delle cose relative, che hanno a che fare con l’umanità, perché quest’ultima non ha niente di assoluto, di infinito. Poi però, in realtà, dentro di me ho avuto spesso la tendenza a cercare l’assoluto; ma, non avendo la fede, spesso sono arrivato a cercarlo nelle cose più strane come il sesso, l’esagerazione, l’estremo. E così finisce che, a furia di grattare sempre più nel profondo, in fondo a quell’assoluto non c’è niente.

 

 

Parafrasandolo, Nabokov afferma, in una delle sue lezioni di letteratura, che la realtà oggettiva si può ottenere solamente condensando in un’unica goccia milioni di mondi individuali, ovvero milioni di quei mondi che ognuno costruisce per sé con le proprie sensazioni ed emozioni. Lei è forse l’autore italiano che maggiormente ha incarnato il genere dell’autofiction, guardando con un occhio dentro di sé e con l’altro il mondo di fuori. Qual è la realtà che vuole restituire coi suoi tanti e variegati romanzi?


 

Io non sono molto d’accordo con Nabokov: la visione che ognuno ha il suo mondo proiettato al di fuori di sé la trovo eccessivamente idealistica, troppo incentrata su un umanesimo nel senso di “uomo al centro di tutto”. La realtà esiste al di fuori dell’umano, tant’è vero che proseguirà anche quando l’umanità non ci sarà più. Per cui, come scrittore mi sono ritrovato sempre a raccontare delle vicende che partono effettivamente da delle visioni molto personali, private, anche un po’ fuori dalla norma: visioni specialistiche, orientate, che vanno poi a sbattere contro tetti, limiti che esistono al di fuori di loro. Penso che per uno scrittore la frizione tra l’idea e la realtà sia sempre molto importante; quando si scrive, non bisogna crearsi dei mondi troppo autosufficienti perché poi ci si abitua e si finisce a vivere dentro una specie di bolla. Ecco, a me interessa vedere e mostrare come questi mondi autosufficienti che ognuno ha in testa vadano poi a sbattere ed esplodere contro qualcosa di più grande e duro che non permette di essere inglobato. Il librettino che ho scritto sul realismo anni fa (Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, 2013, NdR) era proprio basato su questo: io per realismo intendo non tanto l’ occuparsi di operai e simili, ma il raccontare il momento in cui la realtà si mostra interrompendo i nostri luoghi comuni, infrangendo le enciclopedie ambientali che ognuno si crea e con cui interpreta il mondo, per dirla alla Eco. Lo scatto che ognuno sente quando vede qualcosa che spazza via un suo stereotipo: il realismo per me è questo.

 

 

Com’è cambiato, nel tempo della sua lunga carriera di narratore, il suo approccio e confronto con l’atto della scrittura, la creazione dei personaggi, le trame da dipanare, i tipi di narrazione da utilizzare?


 

Da un certo punto di vista è cambiato poco. Ho dovuto, sette anni fa, riprendere in mano Scuola di nudo (il primo romanzo di Siti, NdR) per la nuova edizione Rizzoli: ho tagliato, modificato, rivisto… Insomma, ci ho rimesso le mani e l’ho letto tutto con attenzione, e mi sono stupito di come molti temi, che non mi ricordavo fossero anche in Scuola di nudo, non soltanto c’erano, ma erano temi che ho ripreso anche in tutti i miei libri successivi: nel mio primo romanzo ci sono in nuce tutte le cose di cui io ho scritto dopo. Per cui ho come l’impressione di aver scritto sempre lo stesso libro. Dall’altro lato, però, è cambiato molto il mio atteggiamento; per prima cosa la quantità di energia, di coinvolgimento emotivo: il Siti meno recente si entusiasmava o disperava per certe cose per cui il Siti più “maturo”, più scettico e lontano dalla materia, non se la prende più. E poi, coi primi libri avevo più voglia di far vedere che sapevo scrivere, e quindi mi lanciavo continuamente in performance stilistiche, mentre ora me ne frego perché sento di aver dimostrato e di essermi consolidato. Scrivendo, un autore capisce quali cose può affrontare di petto e a quali altre, invece, deve limitarsi a girarci intorno perché non sono cose per lui: per cui, quella forma che oggi ottengo già alla prima mano, allora era il prodotto di tre o quattro stesure, perché su alcune cose mi conosco già e so come trattarle. Questo, però, è anche un rischio: quello del manierismo, di citare se stessi, di “scrivere alla Siti”, che è un errore che decisamente non vorrei fare.

 

 

In Bontà si tocca, inevitabilmente, anche il tema della letteratura, del panorama letterario italiano e non solo. Per Ugo, la letteratura è «uno strumento per confermare, non un acido per corrodere», suona vuota e ha le parole al guinzaglio. Qual è l’idea che si è fatto della letteratura contemporanea? Riconosco che è una domanda enorme.


 

È enorme, sì, ma partiamo da Ugo perché ovviamente è un personaggio abbastanza autobiografico, e dice cose molto vicine al mio pensiero. All’inizio mi sono chiesto quale mestiere poteva fare questo vecchio infelice, e l’ho messo a fare l’editor perché è un mestiere che, se fatto seriamente, ti condanna all’infelicità. Se tu alla letteratura ci credi davvero, il fatto di doverla vendere ti mette nella posizione di tenere un piede in due staffe: una è l’obiettivo ideale di farsi creatori e propulsori di una cultura alta, vera, di qualità; l’altra è la logica del mercato e della sopravvivenza in esso che ti porta a ragionare in termini di vendite e a produrre cose pessime solo perché vendono molto.
 Arrivando a noi, quello che un po’ vedo è che il tipo di letteratura a cui ero abituato io, sia da lettore quando ero ragazzo, sia da autore in età adulta – ho esordito quasi quarant’anni fa, il tempo di una generazione – è diventato un tipo di nicchia: quello della letteratura che privilegia una certa profondità, uno spessore, e che contempla vari e plurimi strati di lettura fatti di allusioni, citazioni, elementi subliminali spesso ignorati dal lettore ma che potevano portare in superficie cose inconsce. Adesso ho come l’impressione che, per come la tecnologia ha progredito e per come ha cambiato e sono cambiati i cervelli dei ragazzi giovani, questa esigenza di profondità sia meno sentita e venga ritenuta meno interessante, a vantaggio di un gusto e di un pensiero che privilegiano l’estensione in superficie e l’efficacia. A un testo letterario si chiede soprattutto di essere efficace, di comunicare immediatamente, e questo va a scapito di quello che una volta era il senso profondo. Se le cose prendono questa piega, personalmente io non potrei assecondarle: non posso aggiornarmi, non sarei capace, per esempio, di scrivere una letteratura che non è solo verbale ma che dialoga e si accoppia con l’immagine o con il suono, come succede invece sempre di più oggi – con i libri che diventano subito film o serie tv, per dire la più banale. È una letteratura “di efficacia”, che chiede aiuto ad altre forme mediatiche. Mi chiedo se tenere duro su quell’idea di letteratura “di profondità”, fatta di strati diversi e molto attenta allo stile, possa servire a qualcuno, se qualcuno prima o poi avrà voglia di rivisitare e rifare suo un modo di fare letteratura che è stato adottato per secoli e che ci ha lasciato capolavori enormi. Per quel che mi riguarda, io rimango ancorato al mio modello di letteratura, cercando però di non fare dello stile un feticcio: mi sentirei ridicolo a scrivere cose che possono diventare materiale televisivo.

 

 

L’ultima domanda, proprio partendo da questo punto. Lei ha alle spalle una carriera di scrittore, come ha appena detto, lunga quasi quarant’anni. Dopo aver pubblicato Bontà e guardando al futuro, Walter Siti proverà a sperimentare e svoltare come ha già fatto in passato, oppure ha raggiunto una stabilità narrativa definitiva?

 

Nella scrittura sento di aver avuto due tempi: il primo, che è quello dell’autofiction, coinvolge i primi quattro-cinque libri; poi me ne sono gradualmente distaccato, perché disgustato dall’enorme mole di fiction e autofiction che si fa sui social e perché ho scoperto che alcune cose profonde si raccontano meglio senza dire “io”: i miei personaggi sono controfigure con cui io tiro fuori il mio inconscio, incarnano la terza persona su cui io sposto la mia autobiografia. Adesso, invece, sto scrivendo qualcosa che non avevo mai fatto, cioè due storie vere, con nomi e cognomi, cercando il più possibile di attenermi ai fatti – negli anni Sessanta si chiamavano non-fiction novel. Una è la storia di un matricidio, di un ragazzo che nel 2000 ha ucciso la madre a Catania; l’altra racconta invece di un pornoattore che è diventato docente di matematica all’università. Ho dovuto agire in modo diverso rispetto a come ho sempre fatto, utilizzo molte ore di registrazione, tanta documentazione… E per di più anche lo stile deve cambiare molto: per esempio, non posso utilizzare molte metafore, perché mi porterebbero verso il mio mondo e non verso il loro. È una cosa più difficile del solito ma è anche un modo per mettermi alla prova, una sfida.

5 thoughts on “Bontà e scrittura: intervista a Walter Siti


  1. “BALIA A che fare scola?
    COMARE Per le più cose: per passare tempo, per essere tenuta d’assai, e per beccare qualche avanzetto. Io ti poteva mostrare già, ora no, quindici o sedici bambine sotto il mio comando, insegnandogli a contare il pane che vien dal forno, a piegare i panni […], a fare inchini, a portar le cose in tavola e a benedirla, a rispondere a madonna, a messere, a segnarsi, a inginocchiarsi, a tenere lo ago in mano.
    BALIA Che donna.
    COMARE […] Ma dove lascio le fanti? Sempre ne teneva cinque o sei in conserva; e poi che io ne aveva tratto il sugo con il farle provare a questo e a quello, a chi le dava per figliuole d’anima, a chi per vergini e a chi per la saccenteria […] ”

    Pietro Aretino,Sei giornate, a cura di Guido Davico Bonino Einaudi, Torino, 1975 p. 352

  2. “ 25 agosto 1988 – Tutto il frantismo teorico approdato nella retorica protestataria dei media. Avec les mauvaises sentiments: si fanno i soldi. Il belpaese brutto ma ricco. Sfascismo. Giornalismo. “.

  3. ” per quanto mi riguarda, se arrivasse da me un assassino scappato di prigione, ferito ed affamato, la prima cosa che farei è dargli da mangiare, non chiamare la polizia – eppure, per dovere civile, quest’ultima sarebbe la cosa migliore da fare. Però resta il fatto che per me la bontà la terrei nel privato, non nel pubblico.”
    Fa piacere sentire un intellettuale che non vorrebbe fondare il codice penale su “Il Pescatore” di De André.

  4. Io però vorrei capire quale etica abiti Walter Siti e chiunque si mettesse a dar da mangiare a un assassino pensando che sia un atto di bontà. L’etica espressa nella canzone di De André è oscena, dal momento che l’assassino si confessa al pescatore, che quindi sa benissimo a chi sta dando da mangiare.

  5. “Amici, disse [il marchese] all’allegra compagnia, in frangenti simili ho visto quanto sia assai educativo cimentare la sorte. Un terribile uragano approssima, liberiamo la creatura alla folgore e se ne è risparmiata, corro a convertirmi.
    Benone, esclamarono gli altri ad una voce.
    Ecco un’idea che adoro alla follia, disse Madame de Lorsange, non aspettiamo altro per metterla in pratica.
    Tuona, infuria la bufera, il fuoco del cielo agita le nubi squassandole orrendamente: si direbbe che la natura nel tedio per la propria opera, sia sul punto di inabissare gli elementi per plasmarli in nuove forme.
    Mettono Justine alla porta, non soltanto senza la consolazione di un soldo, ma depredandola di quel poco che le restava. Confusa e umiliata per tanta ingratitudine e per i tanti orrori subiti, l’infelice è assai contenta di sfuggire a ingiurie forse più gravi e, ringraziando l’Onnipossente, raggiunge il viale che costeggia il castello. È arrivata sul ciglio della strada quando un fulmine la abbatte, traversandola da parte a parte.
    È morta! gridano gli scellerati al colmo della gioia…”

    Donatien Alphonse François de Sade. Histoire de Juliette, in Oeuvres, vol. III, a cura di Michel Delon. Gallimard, Paris, 1998. p 1424

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