di Andrea Tomasini e Damiano Abeni

 

Le metamorfosi, rubrica a cura di Damiano Abeni e Andrea Tomasini

[Con questo intervento suo e di Andrea Tomasini, apparso in una prima versione nel numero 82 (aprile-giugno 2018) di «Nuovi Argomenti», Damiano Abeni inaugura Le metamorfosi, una rubrica tenuta insieme a Tomasini che si occuperà dei rapporti tra salute o malattia e letteratura].

 

Ci rimase male, quando l’accoglienza che il direttore diede al suo saggio fu tiepida. Era convinta si trattasse di un buon lavoro. Ma Thomas S. Eliot, che dirigeva la rivista The New Criterion, non s’entusiasmò affatto per quel testo così denso che Virginia Woolf aveva dedicato all’essere malati. Il punto di vista da cui era partita nella sua breve ma ricca esposizione era che, per quanto sia comune la malattia, è ben strano che “non figuri insieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi principali della lettura”. Si sarebbe creduto che romanzi interi venissero dedicati alle diverse malattie, e invece “no; salvo poche eccezioni […] la letteratura fa del suo meglio perché il campo di indagine sia la mente; perché il corpo rimanga una lastra di vetro liscio”. Al contrario, sostiene la Woolf, “il corpo interviene giorno e notte […], la creatura che vi sta rinchiusa può solo vedere attraverso il vetro, imbrattato o roseo; non può separarsi dal corpo come il coltello dalla guaina, il seme dal baccello, per un solo istante […]. Ma su questo dramma quotidiano non si trova traccia scritta. La gente non fa che raccontare le imprese della mente […]. Secondo loro la mente nella sua torre d’avorio ignora il corpo”, e in particolar modo il corpo imperfetto, colpito dalla malattia. Poi, registrando i modi del rapporto medico-paziente, nota che se quest’ultimo “tenta di spiegare a un medico la sofferenza che ha nella testa” il linguaggio si prosciuga di colpo: “Non c’è nulla di pronto all’uso”, e il paziente sarà costretto “a coniare qualche parola e, tenendo il suo dolore in una mano e un grumo di puro suono nell’altra, […] a pressarli insieme in modo tale che alla fine ne salti fuori una parola del tutto nuova”.

 

Tutti ci possiamo ammalare, ma nella nuova condizione ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di “una nuova gerarchia delle passioni”, perché la cassetta degli attrezzi che usavamo per la vita da sani ora non è funzionale al mutato assetto, a tal punto che quegli utensili ci risultano estranei. Il malato è una persona che cambia, che si sente cambiare, nota Gardini, e il cambiamento avviene sia spiritualmente sia fisicamente. Questa esperienza incarnata – gli antropologi parlano di embodiment – è all’origine dell’osservazione di Virginia Woolf: “lasciati a noi stessi noi speculiamo così, carnalmente”.

 

La malattia divora tempo e spazio – spiega Thomas Mann ne La montagna incantata. Il corpo cambia e con esso, per il tramite della malattia, cambia il nostro posto nel mondo, man mano che la patologia avanza – nel tempo e nello spazio. Il senso del tempo è all’origine del nostro senso delle storie – se non lo avessimo “non ci sarebbero storie”, dice Peter Bichsel. Il filo del discorso è l’ordine narrativo di cui Urlich–Musil è consapevole: quel famoso “filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita”. Anche se avrà patito i peggiori dolori, prosegue Musil, poter mettere in fila le cose, “riferire gli eventi in ordine di successione” farà sentire meglio, tranquillizzerà chi ne narra.

 

È la struttura stessa della realtà a essere narrativa, argomenta Jerome Bruner, perché organizziamo la nostra esperienza sotto forma di racconti, che costituiscono la versione accettabile della realtà, governata dalla “necessità narrativa”.

 

Quando ci si ammala si dispone di margini ridotti, diminuisce lo “spazio di gioco che la libertà concedeva [prima, da sani] la vita diviene romanzesca”, nota Walter Benjamin. Ciò che sussiste, dice Tabucchi in una famosa intervista sul futuro del romanzo, è “l’idea che in fondo ordinare una vita significa raccontarla”, e la narrativa giunta i pezzi dell’esistenza con nessi che vivono nella struttura della narrazione: “L’uomo è entrato nella civiltà che conosciamo quando ha imparato il racconto”. E alla base della letteratura occidentale c’è un poema che narra di una peste –l’ira funesta, un contagio, una perdita di controllo collettiva.

 

La progressiva perdita di controllo – Flannery O’Connor, in una lettera, dice di sé stessa affetta da Lupus: “sola a presidiare la fortezza” – viene definita anche dalle parole che si usano per descriverla, in riferimento alla specifica patologia di cui si è affetti. Se si ha il cancro – nota Siri Hustved – si dice “ho il cancro”, ma se ho una patologia neurologica dico “sono epilettico”, perché quest’ultime, come le patologie psichiatriche “attaccano la fonte stessa di ciò che l’individuo immagina come il proprio sé”. Le parole che usiamo in queste descrizioni sono scelte sulla base del desiderio di comprendere (ascoltare per interpretare) i propri disturbi.

 

Un caso particolare è l’espressione “sono sieropositivo”, per dire “ho contratto l’infezione da HIV”, il virus che causa l’AIDS. Ciò è dovuto forse al fatto che si tratta di un retrovirus che si integra nel genoma della persona, diventandone parte, in modo ineradicabile. Infatti, sempre più spesso si assiste all’affermazione di un “io biochimico” che nasce con le analisi di laboratorio – anche le più semplici, come la misurazione del colesterolo – ma che nelle narrazioni di alcune patologie, in particolare di quelle immunologiche, va ad afferire a una parte intima del sé che diviene “fortezza” per resistere e rispondere alle aggressioni dell’ambiente esterno. A rendere il quadro ancora più complesso interviene la figura ineludibile del medico che interpreta le analisi e decreta“sei malato”, o meno.

 

Questi elementi, tra molti, esemplificano come, alla fine, la parola malattia nella nostra lingua sia tutto sommato ampiamente insufficiente a descrivere la complessità concettuale del fatto che vorrebbe designare.

 

In italiano per indicare lo stato di sofferenza dell’organismo – di una parte o del tutto – a seguito di un danno, e includendo la reazione che ne segue, usiamo un solo vocabolo: malattia. La lingua inglese è più ricca e precisa, disponendo di tre termini che hanno significati diversi. Disease, che indica la malattia classificata e codificata dalla scienza medica, sulla base di correlazioni o cause biologiche o psicologiche; sickness, che indica la malattia come percepita socialmente; illness, che indica la malattia soggettivamente percepita e vissuta, intesa come una realtà sociale e personale, il malessere.Quest’ultimo termine comprende una moltitudine di sfaccettature diverse, come il dover convivere con le terapie necessarie (e quindi con i disagi, i costi umani ed economici, gli effetti collaterali),in quanto inestricabilmente legate a linguaggio e significati.Ad esempio, una sostanza inerte con attese proprietà terapeutiche diventa farmaco solo quando c’è una persona che accettandone l’efficacia deglutisce o si inocula la sostanza. Ma comprende anche il complesso universo delle relazioni: affettive, lavorative, sociali; delle emozioni: paura/preoccupazione, vergogna, rabbia, umiliazione; della vera e propria salute mentale: ansia e depressione – per citare solo alcuni fattori.

 

La differenza di significato fa riferimento al punto di vista, cioè dalla posizione concettuale o prospettica a partire dalla quale la narrazione espone i fatti e descrive una situazione. O meglio ancora, il punto di vista è “il rapporto che il narratore ha con la storia raccontata”, come sintetizza Peter Lubbock. Difficile immaginare un rapporto più esclusivo e incarnato che si dà con il narratore che racconta la sua malattia, l’illness, lo star male proprio o di una persona cara. Mai forse più come in questo caso il narratore ne scrive rendendosi conto che la scrittura procede dall’esterno verso l’interno: “Le cose, le preoccupazioni, i punti di vista assumono un peso per il fatto che li si descrive. Scrivere è anche un modo per prendere possesso”, osserva Peter Bichsel. La lingua che si usa per farlo esprime, dà corpo a un punto di vista particolare, quello della persona malata.

 

Ogni interpretazione di sintomi e malattia è, con Bachtin, “una concreta opinione eterologica sul mondo”, anche perché la malattia causa una perdita di controllo sul sé e induce la necessità di recuperalo –o di elaborare un diverso equilibrio.

 

La malattia cronica, la “malattia con cui si vive”, diventata nei paesi più industrializzati il vero problema di salute sia personale che di popolazione,da questo punto di vista rappresenta un elemento a marcata connotazione narrativa, perché fa dell’essere nel tempo (etimologicamente) e delle lievi e progressive modificazioni prodotte dalla storia naturale della malattia – la storia biologica della persona ammalata– un parallelo narrativo della storia biografica della persona il cui esordio, il “c’era una volta” è il panorama personale che viene cambiato dalla diagnosi iniziale. Questo evento fondante, che sdoppia biografia e biologia dell’esistenza individuale, suggerisce un continuo confronto tra un prima e un dopo: l’ingresso nel mondo dei malati obbliga la persona a rivedere procedure e processi di costruzione di senso nell’orizzonte cognitivo di riferimento modificato dalla malattia. A partire da questa soggettività – che non infrequentemente la malattia sfida e allo stesso tempo esalta– i racconti prendono l’avvio. Scrittureche concorrono a superare i limiti di un modello biomedico lamentati da George Engel, l’obsoleto modello, ma ancora tanto caro a buona parte del mondo medico, che descrive la malattia unicamente come la deviazione da una norma biologica identificata da dati oggettivi, o presunti tali. La narrazione della malattia fa di quest’ultima un testo collettivo in cui soggetto e mondo partecipano di ponti relazionali culturali e simbolici che conferiscono significato a sintomi e malattia – come mostrano i lavori di due grandi antropologi come Byron J. Good e Victor Turner. La medicina narrata racconta di questo interesse per l’esperienza della persona (medical humanity) rispetto alla pur necessaria e fruttuosa ascesa della medicina basata sulle evidenze scientifiche meccanicistiche.

 

In qualche modo, la medicina narrativa recupera il senso dell’agire medico, che è un agire tecnico dotato di senso: a partire dai dati – relativi sia alla patologia/disease che allo stare male/illness – si devono interpretare le necessità dell’ammalato e adattare le evidenze scientifiche al caso specifico che il clinico ha davanti. Sia il medico sia il paziente si confrontano su una realtà rappresentata, che si origina da due esperienze e da due punti di vista differenti che, se pure non infrequentemente si scontrano, debbono trovare il modo di armonizzarsi per produrre esiti positivi – soggettivamente e socialmente –.

 

L’esposizione della malattia attraverso la scrittura, lo “scrivere la malattia” di cui presentiamo qui un campione vario ma necessariamente parziale, esprime quel punto di vista particolare che Charles Simic pone alla base della poesia e della letteratura: la difesa dell’individuale rispetto a tutte le generalizzazioni che vorrebbero chiudere la realtà in un singolo sistema concettuale.

 

Scrive Anatole Broyard: “un ospedale è pieno di storie meravigliose e terribili e io, se fossi un dottore, le leggerei come si legge un bel romanzo, lasciandomi istruire”.

 

Riferimenti bibliografici

 

Flannery O’Connor, “Sola a presidiare la fortezza”, Minimum Fax, Roma 2012

Mikhail Bakhtin, “La parola nel romanzo”, in “Estetica e romanzo”, Einaudi, Torino 1979

Peter Bichsel, “Il lettore, il narrare”, Comma22, Bologna 2012

Anatole Broyard, “La morte asciutta”, Rizzoli, Milano 2008

Jerome Bruner, “La costruzione narrativa della “realtà”“, in M. Ammaniti e D. N. Stern (a cura di) “Rappresentazioni e narrazioni”, Laterza, Bari 1991

Engel GL. “The need for a new medical model: a challenge for biomedicine” Science 1977; 196: 129-36.

Byron J. Good, “Narrare la malattia”, Einaudi, Torino 2006

Siri Hustvedt, “La donna che trema”, Einaudi, Torino 2011

Peter Lubbock, “The Craft of Fiction”, Londra 1921 cit. in Daniel Marguerat, “Il punto di vista”, EDB, Bologna 2008

Robert Musil, “L’uomo senza qualità”, Einaudi, Torino 1957

Thomas Mann, “La montagna incantata” Corbaccio, Milano 1992

Charles Simic, “Weather Forecast for Utopia and Vicinity”, Opening Speech for the I International Literature Festival Berlin, 14 giugno 2001

Antonio Tabucchi, “Dove va il romanzo?”, òmicron, Roma 1995

Victor Turner, “Piani di classificazione in un rituale sulla vita e la morte”, in “Il processo rituale”, Morcelliana, Brescia 1972

Virginia Woolf, “Sulla malattia”, Bollati Boringhieri, Torino 2016.

 

[Immagine: Edvard Munch, Hospital Ward (1897–99)].

Le metamorfosi, rubrica a cura di Damiano Abeni e Andrea Tomasini

4 thoughts on “Scrivere la malattia

  1. Molto interessante anche da un punto di vista filosofico. Grazie. L’osservazione iniziale di Virginia Woolf è illuminante. D’altra parte, basta pensare a come comincia sempre il colloquio con un medico: “Mi dica come si sente”. Se uno prendesse veramente sul serio questa domanda si spalancherebbe un abisso. Ogni tanto mi capita.

  2. Sì, anche a me questo articolo e la rubrica in cui si inserisce sembrano interessantissimi.

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