di Enrico Fantini

 

«perché, come le cose amare perturbano el gusto et le dolci lo stuchano, così li huomini infastidiscono del bene, et del male si dolgono»

Niccolò Machiavelli

1.

 

Carlo Maria Curci, gesuita e professore di ebraico e sacra scrittura a Napoli, nel 1850 fu tra i promotori della fondazione di «Civiltà cattolica». Protagonista di una famosa polemica con Gioberti e fedele difensore della tesi temporaliste della Chiesa contro le posizioni unitarie di liberali e massoni, dopo Porta Pia cambierà radicalmente fronte, invitando Pio IX a negoziare con il regno sabaudo. La virata di Curci ha anzitutto una ragione tattica: operare una cucitura tra i due fronti avrebbe consentito una nuova fase di cristianizzazione della penisola in una stagione in cui l’anticlericalismo, infiammato dalle chiusure antiunitarie di Roma, mieteva consenso nella borghesia laica e negli strati popolari accesi dalle campane nazionalistiche. Il caso Curci rappresenta probabilmente la prima seria incrinatura in seno all’intellettualità cattolica circa il problema dei rapporti tra Chiesa e politica italiana. Ne scriverà Gramsci in un passo memorabile dei Quaderni, come al solito con fulminea intelligenza:

 

«La conversione del Curci, celebre e battagliero gesuita della «Civiltà Cattolica», rappresenta, dopo il 1870, uno dei maggiori colpi ricevuti dalla politica vaticana di boicottaggio del nuovo Stato unitario e l’inizio di quel processo molecolare che trasformerà il mondo cattolico fino alla fondazione del Partito Popolare», [19 (X), § (10)].

 

A leggere i processi storici come un fatto di evoluzioni molecolari, di smottamenti continui che conducono ad esiti non pianificati, il cambio di opinione di Curci (agito sul piano politico, ma senz’altro anche su quello personale: quanto avrà inciso la continua marginalizzazione in seno al circuito di «Civiltà Cattolica»? e quanto avrà operato la vecchia passione per Gioberti, mai del tutto sopita?) rappresenta il primo innesco di una serie infinita di eventi che condurrà all’imposizione di una nuova egemonia. Gramsci sa bene che la qualità del nuovo assetto è imponderabile, perché tutti gli attori coinvolti mutano al mutare dei processi in maniere troppo complesse per essere immaginate a monte (la storia non è un tavolo da biliardo). Tuttavia, la sostituzione del vecchio sistema è certa.

 

2.

 

In una polemica forse troppo nota per risultare ancora di qualche interesse, Elio Vittorini, in risposta ad una serie di pressioni provenienti dal PCI togliattiano indirizzate alla sua creatura – «Il Politecnico» – reagisce promuovendo una nuova articolazione tra cultura e politica: sono attività legate, tuttavia procedono con modalità di sviluppo loro proprie. Il «dinamismo» della cultura (così lo chiama Vittorini) è il «senso di ricerca». La politica ha il dovere di «adeguarsi al livello di maturità raggiunto dalle masse» e radicarsi nei processi reali, con la conseguenza di un progresso a singhiozzo, tra balzi in avanti e arresti. La cultura non si aliena le masse, tuttavia suo compito primario è muovere al continuo superamento di rompicapo che emergono dal proprio sviluppo. La loro soluzione è nutrimento al progresso politico. Le dinamiche tra politica e cultura sono quindi diverse, l’una è descrivibile con una sinusoide, l’altra con una linea retta.

 

In tutta l’argomentazione si avverte una genericità a tratti fastidiosa. Vittorini parla della cultura come se fosse un monolite, descrive i processi di evoluzione estetica come gli amatori descriverebbero il progresso filosofico – una sorta di thriller in cui il giovane assassina sempre il vecchio per prenderne il posto – infine, non dà conto che in modo fumoso di come questa influenza dovrebbe concretamente attuarsi. La marchiana mancanza di sottigliezza dialettica rivela – siamo nel 1947 – che il vero punto da tener fermo per Vittorini è un altro: all’alba della Repubblica dei partiti, con l’avvio della contrapposizione tra blocchi e la segmentazione dogmatica degli schieramenti ideologici, il fronte di lotta si sposta sulla necessità di garantire l’autonomia (e il prestigio) del ceto intellettuale italiano (con particolare riferimento ai letterati), contro ogni forma di scavallamento indebito. Era in parte riuscita a mantenerla sotto il fascismo, l’avrebbe ottenuta nel nuovo stato democratico (in realtà le cose sarebbero poi andate diversamente e non per colpa di Togliatti). Tuttavia, un punto continua a mantenere un certo appeal: la divaricazione tra la dinamica di formazione del discorso pubblico (la prima forma di attuazione del politico) e la dinamica di sviluppo dell’estetico e le forme della loro reciproca influenza.

 

A partire dal 1945 fino almeno al 1956-1960, la spinta all’evoluzione estetica era necessitata da due forze complementari e contrapposte: da un lato l’innovazione era una forma di difesa contro l’ingabbiatura ideologica che si stava affermando nel secondo dopoguerra; dall’altro, la rapida metamorfosi del sistema culturale (case editrici, sistema delle riviste, rapporto tra autori e critici, tra scrittori e lettori) induce l’autore a sondare continuamente nuove nicchie di pubblico, superando di fatto il principio di fidelizzazione: il tentativo è ora di intercettare uno spazio di ascolto non più prevedibile a monte diversificando la produzione. In una fase di forte rimodulazione delle meccaniche interne ai ceti, il circuito letterario sembra muoversi ancora in ossequio al feticcio dell’identità di casta. Fatta salva questa, ci si adatta per sopravvivere. Ciò vale in particolar modo per la produzione lirica. È così che Caproni scrive di seguito Il passaggio di Enea e poi Il seme del piangere; Bertolucci Lettera da casa e il poemetto La capanna indiana (nonché i primi lacerti di quella che sarà La camera da letto); Sereni Diario d’Algeria e le poesie che andranno a comporre la prima sezione degli Strumenti umani (per non parlare delle forti escursioni avvertibili in una raccolta di raccolte come Poesia e errore di Fortini). Il poeta si percepiva ancora come primariamente poeta, l’intellettuale come intellettuale. Da questa fase comincerà uno scivolamento che tenderà a rendere di fatto indistinguibili le due figure (con la seconda a mangiarsi senz’altro la prima). Insomma, la politica era ancora altra cosa dalla cultura e la cultura stava ben attenta a non farsi pestare i piedi. La peculiarità del «dinamismo» delle forme letterarie era addirittura esibita come prova di una diversità irrisolvibile.

 

Per altri versi, è quello che Pasolini, con una formula generica ma molto efficace chiamava neosperimentalismo. A dieci anni di distanza (1957) dal discorso di Vittorini, il poeta analizza il tempo che lo separa dal dopoguerra in termini distinti nelle forme, concordi nel contenuto con la polemica apparsa sul «Politecnico». L’estrema variabilità formale che Pasolini notava nella produzione poetica del decennio (una produzione articolata nelle tre macroaree del neorealismo, del neoermetismo e dello stesso sperimentalismo esercitato dagli autori di «Officina») veniva implementata e innalzata al rango di “scudo” nei confronti degli sconfinamenti ideologici. La filologia e la mimesi si trasformavano così nelle casematte del ceto dei letterati, in fortilizi contro le invasioni della politica. La mimesi viene a marcare la specificità dell’arte rispetto alle ragioni dell’ideologia. Il dogmatismo dei centri di opinione ha fatto sentire i suoi effetti: ai letterati non resta che trincerarsi dietro una mutevolezza che fa presa sul meccanismo della mimesis, come unico strumento formale e concettuale realmente distintivo, che ancora può garantire un’identità al ceto. Ancora una volta, la partita dell’autonomia si gioca sulla distanza che insiste tra evoluzione del discorso pubblico e letteratura a partire dai loro diversi «dinamismi».

 

3.

 

Il protagonista del romanzo di Walter Siti è un cinico. Riassume, in minore e con un sovrappiù di grottesco, i tratti di Des Esseintes: rinchiuso nella sua casa-mausoleo (una sorta di Wunderkammer in cui si stipano ammennicoli di design, tele secentesche e chincaglieria esotica), lettore di classici (non oltre il XVIII sec.), amante dell’eccezionale e del male come antidoto alla banalità e al feriale. «Gay internazionale e consumista, ammaliato dalla perfezione», si dichiara esponente di una civiltà passata. Contro l’orrore che lo sovrasta (e per regolare i conti con lo spettro materno) architetta un astruso suicidio inzuppato di «velleitario estetismo» (nota 32 p. 62), in cui si mescola amore e morte come nei più sfrenati sogni decadenti. Ugo è, in definitiva, l’altoborghese highbrow.

 

Carlo è un impiegato della cultura con un passato nei movimenti studenteschi e un presente da liberale moderato (sta con il centro di Quagliariello, nientedimeno). Irenico per natura, rifiuta il trauma e ricerca la pace come un’ossessione. Dopo il licenziamento continua il lavoro nel mondo editoriale e vive con la famiglia in una villetta bifamiliare nell’hinterland milanese. Fa discorsi buonisti sull’altruismo e sugli immigrati («-“Papà, cosa vuol dire che vengono prima gli italiani?” –“Gli altri vengono sempre prima, italiani o no”», p. 112), affronta ogni argomento «nel modo più ovvio». Non avremmo difficoltà a immaginarlo spettatore di Che tempo che fa e lettore se non di «Repubblica» quantomeno degli editoriali del suo fondatore. Magari è abbonato al «Foglio». Carlo è il prodotto macchiettistico (al netto delle zampate di Siti) della media borghesia italiana, responsabile e mediocolta. È la parte più timida della borghesia progressista. Quel ceto (per usare per altro una categoria un po’ lasca) che è stato per anni lo zoccolo moderato dell’elettorato, il centro stabilizzatore degli assetti politici, ma a cui si guarda con fastidio sia dal “basso” (le maestrine democratiche, l’elettore del PD, i pezzi garantiti dello stato, gli estimatori della Gruber, del «Corriere», di Sorrentino), sia dall’“alto” (le maestrine democratiche, l’elettore del PD, i pezzi garantiti dello stato ecc. ecc.). Come Carlo, predica l’altruismo come pura astrazione; come Carlo, rifiuta ogni forma di conflitto: campione di moralismo e di continuismo istituzionale. Oramai l’orticaria è compresa nel sintagma “borghesia progressista”.

 

Dopo il fallito suicidio e la conseguente paralisi, Ugo va a stare da Carlo (non prima di averlo licenziato dalla casa editrice per ragioni puramente personali). Qui comincerà un percorso di rinascita in cui alla sete di assoluto sostituisce il relativo e la stabilità. In questo modo Siti sembra suggerire un patto rinnovato tra i ceti dirigenti e la media borghesia progressista. Perché fa del riavvicinamento tra i due il finale del suo ultimo libro? Perché fa di questo riavvicinamento qualcosa di positivo?

 

4.

 

Si potrebbe provare a rispondere approcciando la questione da un altro punto di vista. Nel finale di Bontà le citazioni montaliane si infittiscono. Sono di particolare interesse due luoghi.

 

Oltre i cocci di vetri, di là dal muro, c’è una catena in cui ogni anello si lega all’altro (p. 113)

 

Siti qui contamina palesemente (al di là di eventuali abbagli) almeno due passi montaliani: l’ovvio Meriggiare pallido assorto, in cui la vita è «una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia», a separare l’assoluto dal relativo, il fenomenico dalle verità ultime; e I limoni, con la celeberrima figura dell’«anello che non tiene», la catena della necessità che in momenti privilegiati si apre al miracolo. La seconda citazione è poche pagine più in là, a trasformare l’alto dettato montaliano in un dialogo tra Ugo e una bambina (Lavinia, la figliastra di Carlo, o una delle sue amiche): «-“Se passassimo dal buco…” -“Quale?” -Nella rete… Di là dal muro fa più buio…» che riprende, anche qui a rovescio (Montale lo augurava alla donna, Ugo lo augura per sé, e le bambine lo aiuteranno): «Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!», In limine. Se in Montale la salvezza non può che essere individuale, nell’ultimo Siti non può non essere solidale; se in Montale è la grigia necessità, l’ovvio, da rifuggire, in Siti è il conformismo dello straordinario, l’estetismo che si trasforma in grottesco, l’assoluto del desiderio che marcendo si trasforma in odio. È il rovescio del dandysmo (in realtà una sua riaffermazione carpiata): una forma di pacificazione, o di tregua armata con la borghesia progressista, il vaso di pandora di tutte le ottusità del mondo, di tutte le bruttezze, di tutte le necessità del conformismo e della morale che obliterano il miracolo.

 

Altro elemento da tener presente è il contesto del prelievo: sia In limine quanto I limoni sono due testi “soglia”: qui il Montale esordiente definisce il proprio campo, dichiara apertamente la propria diversità culturale, sta affermando anzitutto uno scarto intellettuale. Si pensi solo agli incipit: «Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati…» e «Godi se il vento ch’entra nel pomario / vi rimena l’ondata della vita». Insomma: vanno benissimo le necessità metafisiche e il destino dell’umanità, ma qui si tratta anche di politica, di alleanze, di distinzioni, di costruire fronti polemici. Montale scalcia contro le morte gore del dannunzianesimo per cercare il proprio posto al sole. Il «dinamismo» dell’evoluzione estetica passa anche per il conflitto e lo smarcamento dalle poetiche concorrenti. Le citazioni allora sottolineano anche questo secondo aspetto dell’affinità: il finale di Bontà vuole rappresentare uno scarto, l’occupazione di una nuova posizione nel campo di forze culturale, il superamento di una retorica irrigidita.

 

Infine: perché Montale? La risposta più ovvia avrebbe forma di domanda: perché no? Perché Siti è un raffinatissimo conoscitore di poesia italiana, perché Montale è pur sempre Montale, perché l’affinità delle questioni trattate non poteva non richiamare la sua poetica. E tuttavia l’iconicità di Montale, gran parte del posto che occupa nella storia della poesia e della cultura del Novecento italiano risiede anche nella sua difficoltà, nell’estrema raffinatezza citazionistica e di stile, nel suo essere custode ideale del tesoro della cultura umanistica contro i poeti della domenica, l’invasione della società di massa e il cattivo gusto piccoloborghese. Insomma, copre lo spettro che nella tradizione tedesca è presidio di Thomas Mann. Le citazioni rovesciate di Siti rappresentano una sorta di pacificazione postuma del “montalesimo” (una sorta di feticcio per la crema della civiltà letteraria italiana, per le classi dirigenti della cultura) con la società di massa mediocolta, l’orrore del sapere diffuso via etere come l’Alka-Seltzer sciolto nel bicchiere.

 

5.

 

La domanda però forse più pregnante ora è: come arriva Siti a questo risultato? Bontà in parte si immagina come risposta ironica alla violenza delle critiche mosse proprio da certi ambienti della borghesia progressista (scil. «Repubblica») a Bruciare tutto; in parte sconta una certa angoscia dell’influenza rispetto a romanzieri come Houellebecq; infine, vuole rappresentare uno scarto da una serie di soluzioni estetiche che cominciano ad essere avvertite come inerziali (il «Vangelo nero» di cui parla, a ragione, Cortellessa). Qui ovviamente l’evoluzione delle forme non è riducibile al «make it new» modernista: è semmai un più artigianale (e più complesso) meccanismo di risoluzione di conflitti di ordine estetico interni ad ogni parabola artistica. E’ proprio la composizione di queste direttrici a condurre alla riabilitazione, straniata quanto si vuole, di un conformismo del sentimento, all’ happy ending risolutore dei conflitti, al ritorno più o meno irenico dei rapporti sociali come spazio pacificato e gratificante, in una parola: alla tregua con la retorica della media borghesia progressista. Ha ancora una volta ragione Cortellessa nell’associare questo tipo di reazione alle grandi figure del dandysmo di fine Ottocento. È un atteggiamento che fa della disorganicità un surplus di lucidità politica, del riposizionamento snobistico una forma perversa di avanguardia. Si approda dunque alla nuova solidarietà a partire da mosse compiute sul periclitante piano degli sviluppi estetici. Il riscatto del buonismo, della routine (che è anche continuismo istituzionale) e della media borghesia progressista non è che il rovescio del discorso pubblico mainstream. È esattamente quanto si dice nel finale di Bontà:

 

«Ugo non è abituato alle menti immature; ancora e sempre controcorrente, mentre il risentimento urla nelle piazze e la grettezza striscia rasoterra, con queste ragazze in erba vorrebbe sfoggiare competenza parlando di Perseidi e Schiaparelli», p. 119. Corsivi miei

 

Non è un caso che in quest’ultimo romanzo (racconto lungo) la temperatura figurale della prosa di Siti (già di per sé densissima), ne risulti aumentata: segno di un’opposizione ancora una volta frontale all’immiserimento e alla semplificazione.

 

Scivolamento estetico, esito di un processo formale, riposizionamento intellettuale. E tuttavia non solo. L’ultima domanda da porsi è sul valore di questo meccanismo: cosa descrive?

 

6.

 

In una fase in cui il discorso pubblico non è orientato da prospettive ideologiche, né da soggetti dirigenti e pedagogici come i partiti – come poteva essere nei primi anni del dopoguerra -, la dialettica politica si estetizza. Quando l’analisi difetta, quando è impossibile definire la contraddizione fondamentale che innerva i processi reali e ci si affida all’opinione, l’evoluzione storica comincia a rispondere a forme puramente reattive. I processi politici, allora, procedono per estenuazione formale più che per superamento dialettico. Ecco che la reazione speculare ai luoghi comuni del discorso pubblico diventa una forma di progresso meno ponderata ma nel concreto forse non meno efficace. La separatezza del culturale che Vittorini difendeva dalle aggressioni del politico collassa. Di più: ora è il politico ad essere minacciato dalle dinamiche che informano l’estetico (almeno ai bassi regimi dell’opinione pubblica, quanto accade nei palazzi è altra cosa). Questa situazione si aggrava, fino ad assumere fattezze patologiche, nel nostro Paese. La soluzione estetica che Siti sceglie per il finale di Bontà è anzitutto mimetica: ciò significa che descrive bene questo collasso. Ma oltre a descrivere, questo dispositivo è anche un sintomo, forse non del tutto metabolizzato, del sovversivismo esasperato delle classi dirigenti italiane (altra nota posizione gramsciana). Nei suoi ultimi anni di vita, forse tra quelli più eccentrici e pirotecnici, Cossiga aveva adottato, con un certo vezzo codinista, il motto «essere sempre anacronistici e reazionari». Alludeva ad un certo cinismo idiosincratico, vitalissimo, estremamente caotico (e deliziosamente snobistico), che era suo e patrimonio collettivo di larga parte della classe dirigente del Paese. È esattamente quanto segnala esplicitamente e acutamente Siti, attraverso il suo alterego (e l’incongruenza decisamente kitsch dell’accostamento pare bizzarramente accrescerne l’efficacia):

 

«Molti libertini invecchiando si accostano all’assoluto, io invece quasi morto e storpio dovrei imparare il limite, la Legge, il tepore del relativo…», p. 113 corsivo mio

 

Nel tempo del populismo imperante la cultura più avvertita, come diceva Vittorini, invece di lasciarsi «sorpassare dal dinamismo delle cose», «lo scont[a] in sé». Si potrebbe aggiungere: tralasciando magari solo qualche scoria non digerita, o qualche piccolo angolo cieco. È poco. Ma è già molto Nell’ottica della storia molecolare, Bontà di Siti rappresenta il primo granello di sabbia che scivola via dal mucchio più grosso, per posarsi sul mucchietto in costruzione: è il segnale per le classi colte che l’apologia della borghesia progressista è oramai sdoganata. Carlo Maria Curci e Walter Siti, a mondi e secoli di distanza, si danno la mano.

 

[Immagine: Evaristo Baschenis, Due liuti attiorbati, cetera, mandora, fogli con notazioni musicali, chitarra, spinetta, fogli con intavolatura per liuto, scrigno, piatto di mele, garofano e pera (1665), Bergamo, collezione privata].

3 thoughts on “Bentornato sig. Carlo. Sul finale di “Bontà” di Walter Siti

  1. ” Lunedì 14 maggio 2007 – Stamattina c’è Walter Siti. Si è messo a leggere il giornale stando con le ginocchia appoggiate sulla sedia e il deretano sollevato. Poiché è rotondetto, risulta, in quella posizione, vagamente comico, e anche un tantino osceno. Comunque la considero un’occasione per riflettere, ancora una volta, sul concetto di cul-tura. “.

  2. “Indovinate chi era . Ci vuol poco a immaginarselo: era il tiranno della compagnia, il barbaro Ix, con una voce che neppure il signor Vedova o il signor Gnoccola, i più rimbombanti polmoni della moderna gloria teatrale. L’ancella, visti i baffi di colui, si nasconde coi ragazzi dietro un sarcofago – Tuo marito è morto, grida il ministro incivile, e tu devi seguirmi all’ara ipso facto. – Non fia mai. – Femminil donna, tu devi seguirmi.- E qui un’animata scena di ticche-tacche. -Vieni. – Non voglio. – Ma la vita? – La sprezzo. – E il supplizio? – Nol temo. – E il disonore? – Nol curo. – Egli? -M’è caro. – Tu? – Lo adoro? – Io?- Mi fai ribrezzo? – E speri? – Avvilirti? – E sei? – La tua sovrana. – E sono? – Un fellone. – Dunque? – Intendesti. – Oh rabbia!- Oh gioia! – Ma pensa. – Pensai. – Decidi – Decisi. – Scegli. – Ho scelto. – E vuoi? – La morte. – Ti fia concessa. – A questo punto decisivo il tiranno alza eroicamente il pugnale colla sinistra perché è mancino, e mentre sta per fra il ferire e il non ferire, accorre Zeta coi fanciulli vincendo tutti i rispetti umani e gridando ad un fiato: Misericordia! – Quadro che si prolunga a piacere per dar tempo al popolo di battere le mani e a qualcuno di venire a liberare la mal capitata signora.”

    Giuseppe Gioacchino Belli. Lettere. Giornali. Zibaldone. A cura di Giovanni Orioli. Einaudi. Torino. 1962. pp 467-8

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