di Pierluigi Pellini

 

[Una prima versione di questo pezzo è uscita su “Alias domenica” il 17 febbraio 2019].

 

Quasi tutto quel che aveva da dire sul mondo, Michel Houellebecq l’ha scritto nel suo primo romanzo, Extension du domaine de la lutte (naturalmente andrebbe tradotto Estensione dell’ambito della lotta, non del dominio), che nel 1994, precocemente e con intuito a suo modo folgorante, stabiliva un’equazione secca fra neo-liberismo e allentamento post-sessantottino dei vincoli della morale sessuale. Di questa estensione dell’ambito della struggle for life (nel senso del darwinismo sociale) dalla sfera economica a quella della vita privata, in Extension faceva le spese il protagonista, archetipo di tutti i maschi occidentali di classe media, in varia misura brutti, depressi, tabagisti, alcolizzati, sessuomani, misogini e razzisti, di cui sono popolati i libri di uno dei due scrittori francesi (entrambi da noi sopravvalutati: l’altra è Annie Ernaux) che sembrano stabilmente accolti nel canone contemporaneo dell’editoria e della critica italiana.

 

Quella fra libero sesso e libero mercato, corresponsabili del definitivo tramonto dei valori umanistici, è un’equazione delirante, visionaria, storicamente molto discutibile, ma capace di offrire una chiave simbolica di innegabile efficacia per spiegare il fallimento della socialdemocrazia europea e del suo modello di convivenza, diagnosticando all’umanità del secolo XXI una radicale trasformazione antropologica. Al discreto successo riservato ai libri di Houellebecq dal pubblico italiano ha certo contribuito l’esibizione di un turpiloquio reazionario e politicamente scorretto, da qualche decennio agli onori della nostra cronaca quotidiana: questo sì, al contrario della rivoluzione sessuale degli anni Settanta, rubricabile come pseudo-trasgressione dagli esiti in realtà conformisti. Invece sui riconoscimenti critici, molto più convinti che in Francia e non di rado sorprendenti, avrà influito soprattutto la condivisione di un presupposto ideologico che non esiterei a definire pasoliniano.

 

In Houellebecq, è frequente il ricorso a un immaginario para-fantascientifico della metamorfosi genetica o chimica: così nel finale, alquanto posticcio, del più celebre, e bello, fra i suoi romanzi (Le particelle elementari, 1998); così nella novità libraria di questi mesi, Serotonina, uscito quasi in contemporanea, Oltralpe e da noi, nel gennaio del 2019 (in Italia per i tipi della Nave di Teseo, pp. 336, € 19, con ditirambico risvolto di copertina: «è il capolavoro di Michel Houellebecq»), dove un antidepressivo di nuova generazione, il Captorix, consente al protagonista di ritrovare livelli accettabili di serotonina, inibendo tuttavia la produzione di testosterone – con puerile contrappasso, l’impotenza è il prezzo della cura (l’inventio non è nelle corde dello scrittore). Ora, l’ossessiva e quasi fideistica certezza che nei decenni recenti la natura umana si sia radicalmente trasformata è il nucleo generativo, appunto (inconsapevolmente?) pasoliniano, di tutto l’universo di Houellebecq; ed è proprio sul terreno scivoloso della ‘mutazione antropologica’, e del suo provincialismo regressivo, sintomo da un lato di una persistente fragilità delle istituzioni democratiche e dall’altro di un’impazienza ideologica incapace di soffermarsi sui fenomeni di lunga durata, che scrittori italiani di estrazione politico-culturale e di caratura intellettuale diversissima finiscono implicitamente per dialogare con l’autore delle Particules. Come lui, sono convinti che, di fronte al liberismo, resistere non serva a niente; e che l’entelechia del Sessantotto possa ritrovarsi nei programmi della tv spazzatura. Perciò, pur provenendo da sponde lontane o perfino opposte, rischiano di ritrovarsi oggettivamente prossimi al romanziere che sta diventando (un po’ a sproposito) il maître à penser di sovranisti e gilets jaunes di tutt’Europa.

 

Con la consueta furbizia opportunistica, infatti, nel nuovo libro Houellebecq regala un martire alla France profonde, dedicando una lunga digressione a un personaggio improbabile, Aymeric d’Harcourt, rampollo di antichissima famiglia normanna convertito in coltivatore diretto e allevatore, collezionista di armi e di vinili rock, eroico paladino dei contadini sempre strafatto di canne e di vodka, un po’ feudatario ancien régime e un po’ capo altermondialista alla José Bové, insomma sintesi araldica degli estremismi di destra e di sinistra, eroicamente suicida, in nome delle quote-latte, di fronte a un plotone di spietati CRS (i celerini francesi). È evidente: della stringata sciatteria stilistica che faceva il fascino respingente di Extension, rimane poco in Sérotonine, dove il narratore in prima persona, Florent-Claude Labrouste, dà libero sfogo a una loquela tanto scucita quanto autocompiaciuta e perfino retorica.

 

A ogni pagina, Houellebecq sembra citare stancamente sé stesso, ripetere i cliché cui ha abituato i suoi lettori. Ma insopportabile, nel nuovo romanzo, non è solo (non tanto) il disco rotto del repertorio sessista: «la sua cosa migliore era il culo, la disponibilità costante del suo culo apparentemente stretto ma in realtà così conciliante [l’originale ha traitable, cioè ‘malleabile’], ci si ritrovava costantemente in una situazione di scelta aperta tra i tre buchi, di quante donne si può dire altrettanto? E al tempo stesso come si fa a considerarle donne, quelle donne di cui non si può dire altrettanto?»). Né il diffuso chiacchiericcio qualunquista: il generalissimo Franco è stato «un autentico gigante del turismo»; l’abbassamento dei limiti di velocità provoca «una recrudescenza degli incidenti mortali»; nei libri di Blanchot si leggono solo «stronzate» e «idiozie»; il «buffone austriaco» è Freud, ecc. E neanche la sbilenca contraddizione fra l’immutato rumore di fondo maschilista e la diversissima vicenda esistenziale del nuovo alter ego dell’autore, meno sfigato dei suoi predecessori («non avevo niente da rimproverare alle donne») e addirittura – come in Francia non hanno mancato di notare i recensori più ingenuamente entusiasti – disposto a farsi nostalgico menestrello dell’amore romantico, unico sentimento «capace di trasformare la nostra esistenza terrena in un momento sopportabile»: «Ho conosciuto la felicità, so cos’è, posso parlarne con competenza». La felicità, per la cronaca, è l’innamoramento a prima vista per una brava ragazza, una stagista veterinaria di nome Camille; e poi una vita di coppia durata cinque anni, stupidamente finita per via di una leggerezza – una scappatella con una collega di facili costumi (per di più nera), che «spompinava come una regina».

 

Davvero insopportabile, qui più ancora che negli altri libri di Houellebecq, è la boria assertiva di un narratore che pretende di dire la verità su ogni aspetto della vita, intima e politica, ma è cieco e sordo di fronte a ogni manifestazione dell’alterità. A dispetto delle esibite differenze di superficie, nei suoi romanzi è sempre l’autore che gioca a rimpiattino, lasciando facilmente intravvedere, dietro ogni nuova maschera, lo stesso ghigno di famiglia; mentre i comprimari, sia uomini sia donne (ma soprattutto le donne), sono ridotti a figurine inconsistenti, scialbe proiezioni prive di autonomia e spessore. Se storicamente il romanzo moderno è il genere polifonico che rappresenta il conflitto insanabile di diversi punti di vista sul mondo, a rigore Houellebecq, capace com’è di rappresentare un punto di vista solo, il suo, non è romanziere. Di certo non è, come qualcuno ha sostenuto, autore di romanzi-saggio: le idee essendo sempre, nei suoi testi, snocciolate dall’alto, mai concretamente discusse, mai messe alla prova di una complessità orizzontale di rapporti umani.

 

Anche questo, in Italia, intercetta l’aria del tempo: se è vero che giornalisti d’inchiesta alla Saviano, teatranti engagés alla Paolini, una pletora di romanzieri, e perfino qualche poeta, sempre più spesso si arrogano il compito di asserire una verità sul mondo, anziché – come sempre hanno fatto e ovunque continuano a fare i veri scrittori – interrogare, senza possibile risposta, le contraddizioni insanabili, le ambiguità irriducibili della vita pubblica e privata.

 

 

9 thoughts on “Il ghigno del qualunquista depresso. Su “Serotonina” di Houellebecq

  1. Sono d’accordo con Pellini sul fatto che lo scrittore francese sia sopravvalutato, anche se è il primo libro suo che leggo e presto leggerò anche Sottomissione. C’è molto di improbabile e volutamente grottesco nel suo testo (anche se la questione degli agricoltori francesi è l’unica centrata!) che non regge, e infatti si annacqua verso la fine, fino alla banalità. Se nella prima parte vorrebbe essere il Bukowski francese, nella seconda si perde a descrivere un eroe romantico inesistente… per me è un testo dissociato, vuoto, inconcludente. Che gli antidepressivi tolgano desiderio sessuale non è una scoperta, che lo tolgano al suo personaggio forse è anche un bene.

  2. Concordo con l’analisi di Pierluigi Pellini sulla sopravvalutazione di Houellebecq. A tale proposito riporto alcune mie note scritte dopo l’uscita di Sottomissione.

    Leggere Houellebecq significa confrontarsi con lo sfacelo dell’Occidente che si ritrova incarnato nelle banali vite quotidiane dei suoi personaggi. A dispetto della loro insignificanza questi sembrano stanchi di tendere verso obiettivi ritenuti impossibili. Si agitano come deboli figurine trascinate da eventi da loro stessi creati come un viaggio in Tailandia in Piattaforma o avventure erotiche all’inseguimento ossessivo del piacere nelle sue varie forme.
    Il personaggio trasversale a vari romanzi di questo autore esercita l’erotismo come unica forma di eroismo, come se il massimo valore ricercato risiedesse nelle sue sollecitazioni orgasmiche. Sul corpo e in particolare sulla sua area genitale viene convogliata ogni corrente emotiva proveniente dall’esterno, solo lì si trova il rifugio consolatorio di fronte a una società in cui non ci si riconosce, dove non c’è posto per legami che abbiano altre connotazioni. Houellebecq sembra concentrare sul suo pene le potenzialità vitali un tempo suggerite da Bergson, il suo élan vital è garantito dagli spasmi di quell’organo adeguatamente trattato, come amano sottolineare i personaggi a commento di alcune prestazioni femminili.
    L’ossessione sessuale si fa correlativo oggettivo di un disfacimento epocale che lascia gli individui soli con se stessi in un deserto affettivo generale che diventa territorio di conquista di culture come quella islamica, portatrici di un sistema valoriale discutibile ma roccioso nella sua solidità.
    La poetica di Houellebecq rappresenta l’ennesima conferma delle tensioni nichilistiche che hanno caratterizzato gran parte del secolo scorso, aggiunge nuovi movimenti estenuati ed estenuanti con un ultimo colpo di coda.

  3. ” Giovedì 6 ottobre 2005 – « La scrittura è tutt’altro che un sollievo. La scrittura rievoca, precisa. Introduce un sospetto di coerenza, l’idea di un realismo. Si sguazza sempre in una caligine sanguinolenta, ma un po’ si riesce a raccapezzarsi. Il caos è rinviato di qualche metro. Misero successo, in verità.
    Che contrasto con il potere assoluto e miracoloso della lettura! Una vita intera a leggere avrebbe esaudito i miei desideri; lo sapevo già a sette anni. La struttura del mondo è dolorosa, inadeguata; non la vedo modificabile. Credo davvero che un’intera vita dedicata alla lettura mi sarebbe convenuta. Tale vita non mi fu accordata. » (Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, 2001 [1994]) “.

  4. Sono soprattutto d’accordo per quanto riguarda la sopravvalutazione di Annie Ernaux, che conosco per averla letta e che non mi piace granché. Houellebecq lo trovo insopportabile e illeggibile.

  5. ” Sabato 19 giugno 2010 – Poi penso che si potrebbe forse rivalutare Saviano, ma solo a patto di farlo diventare uno scrittore dell’orrore, una cosa di mezzo fra Bukowski e Houellebecq. “.

  6. Anche io mi sono trovato a recensire qualche anno fa, sul giornale ma usando argomenti molto simili, il precedente libro di Michel Houellebecq. Del pezzo di Pellini mi sembra significativa la struttura concessiva del periodo “non è tanto il sessismo… quanto….”, che mi sembra tutt’altro che meramente retorica. Se vogliamo porci seriamente il problema del “valore” di un testo non possiamo necessariamente che postulare uno spazio in cui anche scrittori con sistemi etici che non condividiamo siano dei grandi scrittori. Era sicuramente vero per Balzac, ad esempio, ma, certo, con autori morti da un pezzo è più semplice mettere da parte la ripulsa per le opinioni che traspaiono dalla scrittura.
    Il fatto che nel caso di Houellebecq il problema non è tanto questo; sono d’accordissimo, il prosatore è prigioniero delle sue idee, che ne limitano l’espressione formale fortemente, ed è questa, secondo me, essenzialmente, la cosa grave. In ogni caso mi chiedo, in tutta onestà intellettuale, fino a che punto si può veramente prescindere? In ogni caso non l’ho ancora finito di leggere, ma mi sembra che questo libro conservi molti degli stessi limiti di Sottomissione: un protagonista dalla forma talmente evanescente che è fin troppo facile per chiunque identificarvisi; una trappola in cui mi sembra caduto come una pera cotta lo stesso autore. Eh si che, secondo me, Houellebecq il talento del narratore ce lo avrebbe e come, i modi in cui tiene avvinto chi legge non sono affatto scontati: un peccato

  7. Abbonato al Manifesto, avevo letto già il pezzo. E ancor prima avevo letto il libro appena uscito(in originale, non pensavo sarebbe uscito subito in traduzione, per la Nothomb bisogna aspettare un anno…) dato che trovo l’autore stimolante e non mi perdo nessuno dei suoi libri. Mi pare che il critico stia facendo una facile critica, più che dell’autore, del personaggio. Sessuomani, misogini…si potrebbe fare un copia e incolla per altri libri, che so, Bukowski o Philip Roth (anche l’artificio dell’antiserotoninegico che fa perdere la libido mi ricorda i libri di Roth in cui a far perdere la libido era un beta bloccante in “Controvita” e il tumore alla prostata in altri). E devo dire che l’impressione che ho portato a casa dopo averlo letto non era qualla che il personaggio fosse descritto come un eroe, semmai un perdente. Potrei persino considerarlo un libro un po’ moralistico. Secondo me, il messaggio che porto a casa conta, più degli avvenimenti narrati da un punto di vista letterale. Quando ho letto la critica sul domenicale del Manifesto ci ho visto il solito errore di guardare tutto con gli occhiali difettosi della sinistra Italiana, una volta le etichette destra e sinistra, adesso i “populisti”, per cui se c’è un blocco stradale automaticamente sono i gilet jaunes i quali, per lo stesso automatismo, sono i “populisti” nostrani. Comunque alcune cose nell’articolo sono intersessanti, ma come diceva Foucault (credo), l’etnologo perfetto dovrebbe venire da Marte, e forse è vero anche per i critici contemporanei agli scrittori.

  8. Ottimo intervento, Houellebecq è un bel po’ che si ripete. “Particelle” ed “Estensione” però non erano male. La connessione fra neoliberismo e rivoluzione sessuale non mi sembra infondata, anzi (ne parla in qualche modo anche Hobsbawm). Condivido anche il giudizio su Annie Arnoux, pessima. E anche su Pasolini.

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