di Ezio Sinigaglia
[Pubblichiamo qui di seguito, per gentile concessione dell’editore e dell’autore, un estratto dalla prefazione di Ezio Sinigaglia alla seconda edizione del suo romanzo d’esordio, Il Pantarèi (TerraRossa edizioni, Bari 2019). Il primo paragrafo (Piccola Biblioteca Stern) è quello che conclude la prefazione così come è stata pubblicata in volume, mentre gli altri due facevano parte della sua prima stesura, poi robustamente tagliata dall’autore per ragioni che potremmo definire “imperscrutabili”].
Piccola Biblioteca Stern
Al protagonista del Pantarèi, Daniele Stern, ho prestato alcuni tratti della mia personalità. Quali? Il solo a saperlo è l’autore, che non intende rivelarlo. Il lettore è comunque libero di pensare che Stern sia un personaggio in parte autobiografico.
Quel che è certo, e che l’autore stesso è disposto ad ammettere, è che la biblioteca di Stern coincide in tutto e per tutto con la mia biblioteca di quegli anni. Gliene ho fatto dono: pregi e difetti, specialità e lacune. Una piccola biblioteca, intendiamoci, però piuttosto agguerrita per quanto concerne i numi tutelari del Pantarèi.
Accade, nel capitolo I, un fatto anomalo: i due passi della Recherche proustiana sui quali Stern impernia il suo breve saggio sono entrambi citati in lingua originale. Questo non avverrà più, per nessuno degli autori che entreranno nel canone del Pantarèi, sempre citati (quando lo sono) in traduzione italiana.
La spiegazione di questa anomalia è molto semplice: Stern, come me, non possedeva la traduzione italiana di Proust, ma soltanto la storica edizione Gallimard NRF (“enerèf”, come viene chiamata nel romanzo), fragilissima – e poco affidabile sotto il profilo filologico – ma certo gloriosa. È chiaro che, come me, aveva letto Proust in lingua originale, cosa largamente possibile per chi conosca abbastanza bene il francese, e che, come me, rimandava d’anno in anno, per ragioni di economia, l’acquisto dell’edizione Einaudi in sette volumi. Non voglio spingere l’analogia fino ad affermare che quei preziosi volumi enerèf, pur trovandosi a casa di Stern, non appartenessero a lui ma a sua madre, che li aveva acquistati ben prima che Stern nascesse, negli anni Trenta, quando una traduzione italiana di Proust era non solo inesistente ma, fascismo imperante, del tutto inconcepibile.
La lunga citazione joyciana del capitolo III è tratta naturalmente dall’unica traduzione all’epoca disponibile dell’Ulisse: quella di Giulio De Angelis, che Stern possedeva nell’edizione più economica (Oscar Classici, del 1973). Non sono purtroppo più in grado di fornire i dati bibliografici della “guida all’Ulisse” che Stern, sempre nel capitolo III, scaglia contro il muro in un accesso d’ira dopo averne letto alcune righe. Il libro e l’appunto che avevo preso all’epoca sono andati dispersi in uno degli oltre quindicimila giorni successivi, fitti di drammi e, in particolare, di traslochi.
Uno dei regali più preziosi da me fatti a Stern è certamente l’edizione dei “Millenni” Einaudi dell’Uomo senza qualità, dalla quale è tratta la citazione dell’incipit meteorologico. La traduzione, inutile dirlo, è quella di Anita Rho, l’unica disponibile nel 1977-1978, e ancora per molti anni dopo quella data.
Qualche precisazione in più merita il capitolo su Svevo. I diritti di Svevo non erano ancora scaduti a quell’epoca, cosicché La coscienza di Zeno, come ogni altra sua opera, era disponibile nella sola edizione Corbaccio Dall’Oglio. Stern, come me, possedeva l’intera collezione curata da Bruno Maier, in quattro volumi rilegati in un mesto abbinamento di nero e marrone. Più interessante è il fatto che Stern avesse a disposizione, nel caso di Svevo, un intero scaffale di letteratura secondaria, nel quale figurava fra l’altro un’antologia, a cura di Sandro Briosi, dal titolo La critica e Svevo (Cappelli, Bologna 1975), comprendente un saggio di Sergio Finzi, Il realismo critico di Svevo, che Stern saccheggiò senza ritegno. Me ne scuso per lui.
Il critico di Kafka citato nel capitolo VI (“Ha scritto uno dei molti critici, probabilmente il più saggio”) è Ladislao Mittner, e la citazione che segue dovrebbe essere tratta da La letteratura tedesca del Novecento e altri saggi, Einaudi, Torino 1960.
Veniamo agli ultimi tre autori, per i quali, a differenza di quanto vale per i cinque precedenti, non esisteva all’epoca nessuna prospettiva critica consolidata. Tutto quel che si può leggere nel Pantarèi a proposito di Céline, di Faulkner e di Robbe-Grillet è farina del sacco di Stern.
Céline era ancora all’Indice laico, se così mi posso esprimere, e solo da pochissimi anni si cominciava timidamente a parlarne. Leggerlo in edizione originale è sostanzialmente impossibile per un lettore non di madre-lingua francese, e i soli romanzi disponibili in traduzione italiana erano a quei tempi Viaggio al termine della notte e Morte a credito (il mio preferito, letto naturalmente nella traduzione di Giorgio Caproni, tuttora l’unica in commercio).
Di quella generazione di grandi scrittori americani cui apparteneva, Faulkner era il più sottovalutato dalla critica in patria e, di conseguenza, anche dalla critica nostrana, che in fatto di letteratura anglo-americana è sempre stata piuttosto gregaria. Tuttavia della sua opera poco meno che sterminata era disponibile in traduzione italiana quasi tutto. Il romanzo intorno al quale Stern impernia il suo saggio, Assalonne, Assalonne, lo lessi nella preziosa edizione della collana mondadoriana “Il Ponte”, nella traduzione di Glauco Cambon.
Le gomme, il romanzo di Robbe-Grillet commentando il quale Stern conclude il suo lavoro, fu pubblicato in Italia, da Einaudi, nel 1961, nella bella traduzione di Franco Lucentini, traduttore anche degli altri due romanzi a mio giudizio più interessanti di Robbe-Grillet, La gelosia e Nel labirinto. Tutti questi libri erano esauriti e pressoché introvabili già al tempo della stesura di quel mio ultimo capitolo (fine 1979-inizio 1980), a testimonianza della gloria ingiustamente effimera del loro autore. In seguito Le gomme è stato riproposto, molto di recente (2017, quasi un decennio dopo la morte di Robbe-Grillet), dall’editore Nonostante di Trieste e Nel labirinto nel 1987 da SE, mentre il solo La Gelosia è stato ristampato da Einaudi nel 1982 e nel 1998.
Il pantarèi come romanzo sperimentale. Parte prima
Non tutti gli autori che compongono il canone del Pantarèi possono essere considerati scrittori sperimentali in quell’accezione squisitamente linguistica e stilistica dello sperimentalismo che caratterizza, in prosa come in poesia, le avanguardie del Novecento. In un caso, quello di Proust, si possono nutrire in proposito opinioni contrastanti. In altri, quelli di Musil, Svevo e Kafka, parlare di sperimentalismo sarebbe decisamente fuori luogo. Joyce, Céline, Faulkner e Robbe-Grillet rientrano invece a pieno titolo nell’alveo dello sperimentalismo novecentesco, insieme ad altri che nella trattazione saggistica del Pantarèi, per varie ragioni, non hanno trovato posto (principalmente Virginia Woolf, Hermann Broch e Samuel Beckett).
Il pantarèi (nato – è bene ricordarlo – con il titolo I romanzi e i giorni) ha l’ambizione di scrivere la storia del romanzo del Novecento nella sua metà saggistica e di metterla in scena nella sua metà narrativa. Ne conseguono inevitabilmente due tratti caratterizzanti del romanzo: una grande varietà stilistica e la compresenza, o se si preferisce l’alternanza, di lingua classica e di lingua sperimentale.
I capitoli più vistosamente sperimentali sono quelli che chiamerei per semplicità “dopoproust” (capitolo I) e “dopofaulkner” (capitolo VIII), dove si fa ampio ricorso alla tecnica del cosiddetto “stream of consciousness” o “flusso di coscienza”. Ma perfino più sperimentale di questi due potrebbe apparire il “dopocéline” (capitolo VII), grazie alla sua instancabile varietà e discontinuità interna, al filo conduttore narrativo impegnato in invenzioni linguistiche a catena, al susseguirsi di testi dei generi più diversi, dagli indovinelli ai titoli di giornale, dai rebus agli abbozzi di lettere e romanzi.
Personalmente considero di particolare interesse nel suo sperimentalismo “a modo mio”, privo cioè di modelli di riferimento, il “dopojoyce” (capitolo III), dove una voce che non si sa di dove venga né a chi appartenga commenta i frammenti di una specie di farneticazione di Stern, in preda all’ebbrezza da eccesso di champagne e in equilibrio instabile fra veglia e sonno.
E sperimentalissimo è senza dubbio il romanzo giovanile e incompiuto di Stern, L’altro Sax (capitolo IX), dove la lingua, pur nel suo disordine poetico, delirante e non sempre decifrabile, è paradossalmente la sola cosa (o la sola colla) che sembri in grado di tenere unita la vacillante identità del Narratore.
Il pantarèi come romanzo sperimentale. Parte seconda
Vorrei infine dire qualcosa sulla tecnica con cui sono scritti il prologo, l’epilogo e certe parti di raccordo, come gli inserti narrativi che compaiono in tondo all’interno delle sezioni saggistiche in corsivo.
La miglior definizione che sono riuscito a trovare per questa tecnica è “monologo interiore in terza persona”. A parlare non è infatti un Narratore in prima persona, ma una voce narrante il cui punto di vista coincide con quello del protagonista. Di conseguenza il filo della narrazione si snoda in terza persona. Cito dalle prime due pagine del romanzo: “Daniele Stern […] sospinse la vetroporta e fu ammesso”; “Scivolò furtivo verso gli ascensori”; “Le sue scarpe non erano pulite”. Ma, trattandosi di un vero e proprio monologo interiore nel quale i pensieri di Stern si dipanano attraverso una serie di brevi frasi quasi sempre ellittiche, l’attrazione della prima persona è continua e fortissima: “Sarò degno?”; “Mai che mi riconosca”; e, più avanti, “Mi vuole tutta per sé. Tutto, dottoressa Ghiotti, tutto”; “Comprerò un paio di scarpe nuove”.
Questo “monologo interiore in terza persona” è, fra tutte le tecniche sperimentali da me utilizzate nel Pantarèi, quella che considero più personale e più congeniale al mio modo di vedere, o forse dovrei dire di vivere, l’invenzione linguistica e stilistica: uno sperimentalismo che, per quanto audace e virtuosistico possa essere nella concezione e nella realizzazione, deve essere moderato nell’effetto, gradevole e fluido alla lettura, sempre piegato alle necessità della narrazione. Il mio ideale, oggi, cioè all’estremo opposto della mia carriera di scrittore rispetto al Pantarèi, è rappresentato da uno sperimentalismo così ben modellato e insieme così ben dissimulato da mettere il lettore in condizione di procedere con facilità e con piacere, senza mai formulare il sospetto di trovarsi di fronte a una prosa sperimentale. Mi sorprende constatare, rileggendo oltre quarant’anni dopo il prologo del Pantarèi, di essere stato tanto vicino a questo ideale fin dal principio.
[Immagine: particolare della copertina del libro].
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