di Vincenzo Frungillo
I.
I modelli per la scrittura poematica in Italia, a partire dagli anni quaranta, sono per lo più stranieri: The Age of Anxiety di W. Auden, The Waste Land di T.S. Eliot e i Cantos di E. Pound. Sulla base di queste nuove spinte, a riparo da equivoci formali nati durante il ventennio fascista, torna anche nel nostro Paese la necessità di scrivere poemi. Così nascono le esperienze letterarie più significative di Elio Pagliarani, La ragazza Carla, e Giancarlo Majiorino, La capitale del nord; decenni dopo, negli anni sessanta, Roberto Roversi, scrive Dopo Campoformio, e Giorgio Cesarano dà voce ai suoi paesaggi urbani disperati e raggelati di Il sicario e l’entomologo, Ghigo vuole fare un film e i Poemi naturali. Una rilettura critica della nostra tradizione poematica è stata offerta, invece, negli stessi anni da alcuni saggi essenziali: tra gli altri, i famosi scritti di Gianfranco Contini. Nel saggio Un’interpretazione di Dante, uscito la prima volta per Paragone nel 1965, Contini dice qualcosa che ha ancora una forte attualità teorica: «Il segreto, di questo modo biologico di Dante consiste nella sua ugualmente intensa partecipazione, e addirittura nell’identificazione successiva con gli oggetti, perfettamente chiari alla coscienza.» La capacità percettiva del poeta è il mezzo che permette una poesia “locale”, ossia poesia degli spazi e delle concrezioni di realtà. Alla base di questa facoltà narrativa c’è l’equilibrio tra “lo stadio liquido e lo stadio solido della materia”. Non un’assoluta liquidità quindi, cosa che porterebbe ad una infernale spirale barocca dell’io che collassa su se stesso; né un’assoluta solidità, fonte di una confusa indistinzione dalla realtà (il rischio cronachistico del racconto). Contini si riferisce alla descrizione degli eventi naturali, ma il suo ragionamento appare anche come un monito più profondo rivolto alle capacità percettive del poeta o del narratore in versi. Dante, l’autore poematico, deve essere capace di farsi carico e di risolvere formalmente il contrasto tra il fluire degli eventi biologici, cognitivi, percettivi, e lo spazio condiviso, lo spazio simbolico o culturale in cui si è calati. Si potrebbe aggiungere che le due deviazioni possibili si scontano nella poesia contemporanea con il biologismo fine a se stesso (e di conseguenza con la retorica del corpo e della carne che sostituisce quella dell’io e dell’anima) o nella depressione della parola a favore del reale (il feticcio dell’oggettività e della realtà).
L’equilibrio sta proprio nella relazione tra bios e mondo, tra temporalità del singolo e Storia. L’intento critico di Contini era di riabilitare il poema dantesco, messo in discussione negli anni addietro dalla critica crociana. Croce aveva interpretato l’elemento descrittivo della Divina Commedia come una cornice (la struttura) o addirittura un limite della capacità lirica dell’autore fiorentino. Le descrizioni del “poeta divino” erano per Croce un momento di “pausa” dal suo magistero lirico. La grandezza di Dante sta invece, a parere di Contini, proprio nel saper unire la temporalità esistenziale, quindi l’intuizione, con lo spazio storico. I personaggi e i luoghi danteschi sono il frutto di questo equilibrio; sono il nodo in cui si innesca, si incardina il rapporto tra vita e mondo, tra vita e storia: «La realtà su cui la versatilità e la disponibilità di Dante si precipita è storicamente sentita anche quando è eterna e ripetibile, tanto più manifesta allorché si scende verso le entità individualmente determinate.» Stando alle indicazioni di Contini, Dante è riuscito a riscattare il singolo dalla caducità della Storia, allo stesso tempo però ha sottratto la Storia dal pericolo della monumentalità. La temporalità del bios e la Storia si attivavano l’un l’altro nella relazione. In questo passaggio del testo di Contini si intuiscono ragioni politiche oltre che formali.
Del resto, già negli anni venti, il poeta russo Osip Mandelstam, nella sua stimolante produzione critica, sottolineava un aspetto del poema simile a quello messo in evidenza da Contini. Mandelstam parlava della “chimica organica” di cui è fatto il verso di Dante; definiva Dante un “direttore chimico”: nella Divina Commedia non esistono metafore ma condensazioni chimiche, tutto il poema è un organismo vivente che si fa narrazione, le terzine dantesche sono il camminare stesso del poeta:
«Perfino una sosta è una concentrazione di moto accumulato: la piattaforma d’una conversazione viene creata con sforzi da alpinista. Il passo –espirazione e inspirazione- è il piede del verso. Una falcata che deduce, vigila, sillogizza.»
Per Mandelstam il verso, la forma del poema deve misurare la materia e deve condensarla: il metro, la scelta formale, deve essere rigoroso perché la posta in gioco è la stessa relazione tra bios e Storia: è la forma che mantiene in potenza il rapporto tra temporalità e mondo. Scrive Mandlestam a questo proposito:
«Dante non entra mai in singolar tenzone con la materia senz’aver predisposto un organo per agguantarla, senz’essersi armato di uno strumento per misurare il tempo che è trascorso goccia a goccia o si è liquefatto. In poesia, dove tutto è misura, tutto parte dalla misura, ruota intorno alla misura e grazie alla misura gli strumenti di misurazione hanno facoltà particolari, sono portatori di una speciale funzione attiva.»
L’Ulisse omerico, nella sua versione dantesco, è interpretato come il tentativo dell’uomo di afferrare il tempo in quanto Storia. E’ biologia del singolo, la parte animale, il nostro limite naturale, che deve misurare quella simbolica, la deve tenere a bada (e viceversa). Il rimando e l’equilibrio tra le due sfere permette la scrittura, le dà potenza. Solo così si possono scongiurare le retoriche totalitarie del corpo idealizzato: Mandelstam era, suo malgrado, esperto di regime totalitari:
«Nel canto di Ulisse la terra è già rotonda. E’ un’esaltazione del sangue umano, nel quale è contenuto il sale dell’oceano. L’inizio del viaggio è iscritto nel sistema cardiovascolare. Il sangue è planetario, polare, salino. Con ogni circonvoluzione del proprio cervello Dante disprezza la sclerosi, come Farinata disprezza l’Inferno.»
Nei personaggi del poema invece la Storia torna ad essere con-divisa esperienza del tempo, la storia viene messa, per così dire, “sotto giudizio”. Leggiamo ancora nelle pagine di Mandelstam:
«Lo stesso metabolismo terrestre si compie nel sangue […] Il tempo per Dante è il contenuto della storia, intesa come un atto unitario e sincronico; viceversa il contenuto della storia è un con-tenere il tempo, un sostenerlo in comune da parte di compagni, co-cercatori, co-scopritori del tempo stesso.»
Ma guardando ancora più indietro, risalendo agli scritti teorici di Tasso, nel suo Discorso dell’arte poetica e in particolare sopra il poema eroico, troviamo un’esigenza non dissimile. Qui ci viene fornita un’altra informazione sul poema e sulle sue ragioni politiche, sociali e formali. Tasso scriveva nei suoi saggi:
«Ma si come l’occhio è diritto giudice della dicevole statura del corpo (però che convenevol grandezza sarà in quel corpo nella vista del quale l’occhio non si confonda, ma possa, tutte le sue membra rimirando, la loro proporzione conoscere); così anco la memoria comune degli uomini è dritta estimatrice della misura conveniente del poema. Grande e convenevole quel poema in cui la memoria non si perde né si smarrisce; ma tutto unitamente comprendendolo, può considerare come l’una cosa con l’altra sia connessa e dall’altra dependa, e come le parti fra loro e co’l tutto siano proporzionate.»
Di contro Tasso vedeva nel poema che non tiene in considerazione le regole della misura e dell’equilibrio le sembianze di un mostro. Il poema deve avere una sola favola perché le troppe vicende e le troppo azioni hanno del mostruoso. In questo modo, riprendendo i principi dell’armonia aristotelica, Tasso fissava i canoni per la composizione del racconto in versi. In base a questo principio le vicende degli eroi cristiani, con le loro licenze amorose, rappresentavano la lotta del canone occidentale con la tentazione pagana verso l’altro, verso l’estraneo, l’eccentrico. Per questo motivo Tasso e il suo poema sono “il primo grande esempio, nella letteratura italiana, di complicità con l’Altro”. In Tasso c’è un’idealizzazione del canone e dell’equilibrio anche se nella sua poesia (amata proprio per questo dai romantici) le strofe vivono ancora come quadri mobili del turbamento profondo, della ricerca di un centro: il vero centro tematico è ancora la lotta tra temporalità biologico-esistenziale e Storia. Ma se la Storia va messa al vaglio della critica della nostra temporalità, e la nostra esistenzialità va accertata ogni volta nella Storia condivisa, è anche vero che è la poesia il campo di battaglia su cui si dà lo scontro. Qui si decide dello spazio o di un mondo.
II.
Difficile indagare quanto Dante e Tasso, archetipi della nostra tradizione poematica, vengano rielaborati dai nuovi autori, ma la percezione che si ha, nel leggere alcuni testi della più recente produzione, si incontra un ethos vicino a quello messo in luce da Contini o da Mandelstam. Se negli autori del dopoguerra e degli anni sessanta (Pagliarani, Majorino, Cesarano, Roversi), predominava la frattura, il frammento, un portare nel testo una dialettica ancora forte con il reale, gli autori che pubblicano poemi nel nuovo millennio sembrano mossi da un’esigenza diversa: si parla di una poesia che tenta di dire il mondo, come se lo dicesse per la prima volta. Sono parole che emergono dal vuoto semantico e dall’aurora delle rovine della società mediatica. L’esigenza politica è proprio di comparire nella Storia. Per questo motivo, dal punto di vista formale, la tendenza poematica di certa poesia contemporaneo non stabilisce un canone, perché la stessa forma del testo, il metro, la strofa e il ritmo, costituisce la presenza di un mondo. E’ una prospettiva nuova dello spazio collettiva e un’epifania della storia personale. Come diceva Mandelstam, “ogni passo sillogizza”. Per questo motivo, anche se oggi si parla molto di neoepica, di romanzo in versi, si cerca una definizione adatta alla tendenza, non direi antilirica (l’anelito lirico è presente anche in queste opere), ma anticonfessionale della poesia italiana più recente, sembra che la differenza la faccia proprio il rigore con il quale l’operazione in versi riesca a creare un meccanismo complesso, che si tenga da sé e che sia allo stesso tempo ampiamente metaforico. Qui, tutt’al più, si può solo attestare una esigenza comune che ha dato vita nell’arco di pochi anni ad una produzione diffusa di opere poematiche.
Si torna quindi a narrare con strutture forti e organiche. In molti autori torna la necessità d’indagare la Storia. Così accade con le opere di Luigi Ballerini e il suo poema Cefalonia, tragica e, a tratti, grottesca metabolizzazione personale e collettiva dell’eccidio dei soldati italiani sull’isola greca, dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943. Episodio storico e autobiografico che muove dalla morte di soldati lontani non per costruire, ma per decostruire, grazie al metro e al tono canzonettistico delle lasse, la retorico di un Paese ancora intriso di cultura degenere di destra. Così Federico Italiano, con il suo I mirmidoni, poemetto d’ispirazione audiano, ambientato nella pinacoteca di Monaco di Baviera, appronta la messa in scena di una nuova arca russa (penso al film di Sokurov) in cui una faglia storica e temporale permette una riflessione più ampia sulla contemporaneità; dove custodi e giovani avventori si mischiano alle vicende dei guerrieri mirmidoni, colti nel momento di sospensione dalla battaglia. Così fa Alessandro Rivali, che con La riviera del sangue e La caduta di Bisanzio, cerca una soluzione messianica agli orrori della Storia (senza prima averli affrontati ad occhi aperti), partendo dalle catastrofi antiche per arrivare a quelle a noi più vicine. Viola Amarelli, invece, in Notizie dalla Pizia dà voce alla sacerdotessa prendendo ella stessa voce, così come possiamo leggere dalla prefazione di Gianmario Lucini: “Il vero protagonista del testo poetico si rivela un ambiente sociale e umano senza tempo, quello di una civiltà che si muove molto più adagio di quanto rappresentino le scansioni storiche contraddistinte da date, avvenimenti cruciali e grandi eventi che in qualche modo formano e fermano il corso della storia per tappe e coordinate spesso arbitrarie. Questa narrazione in versi si svolge in monologhi: le indovine si presentano, raccontando il loro tempo ed esponendo il pensiero magico che attribuisce loro un ruolo, una funzione sociale, a prescindere dalle coordinate temporali e persino dalle loro stesse intenzioni. È, insomma, il mondo mitico-magico che crea le profetesse per una sua esigenza di stabilità volta a evitare la propria dissoluzione”.
Ma aldilà dei più smaccati richiami alla storia, esistono altri esempi di scrittura poematica dove la questione centrale resta la presenza nel tempo con-diviso, la presenza nello spazio. Anche in quello che sembra essere un canzoniere d’amore, come si dice del poema La divisione della gioia di Italo Testa. Il titolo del libro, oltre a citare il famoso complesso della scena new wave inglese degli anni ’80, allude al padiglione riservato allo “svago” dei soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale all’interno dei campi di concentramento, occupato per lo più da ragazze ebree. I due amanti protagonisti vivono le scene del poema come se risorgesse da quel quadrato di morte, tutta la narrazione, la messa in scena, è fondata sulla luce aurorale. Più che l’amore, il protagonista di questo testo è proprio la gioia, ossia il modo di guardare le cose, sapendo della loro fine. Luigi Nacci, con il suo Poema disumano, fa un’operazione di metricizzazione della storia più recente, calando eventi tragici in un’atmosfera non dissimile da quella delle lasse di Ballerini. Anche qui c’è una percezione fonico sillabica degli eventi condivisi, una metabolizzazione della storia. Ciò che qui manca rispetto ad altre esperienze è l’organizzazione strutturale del poema. La cornice è la stessa cantabilità, fruibilità pubblica del testo. Diverso invece il discorso per il suo lavoro più recente in cui la fabula è il ritrovamento di un manoscritto in Sud America passato per le mani di ex-nazisti sfuggiti dall’Europa (Mengele, Priebke, Eichmann). In questo testo troviamo inni, canti e madrigali dei criminali di guerra. Autore della scoperta, della cura e della traduzione del testo è lo stesso poeta che qui compare sotto la firma Dott. Luigi Nacci. Anche questo espediente è il modo di affrontare un’interpretazione diretta con il male e la Storia. Nel poema Le api migratori invece Andrea Raos, attraverso la vicenda dello sciame di api assassine, parla delle eccedenze della scienza più recente, unendole ad un immaginario pop, divenuta vera e propria rètina percettiva della realtà. Il corpo debordante del testo è anche l’immaginario postremo, che fatica a ritrovare un suo centro. Francesco Filia, con Il margine della città, che affronta il corpo a corpo con la realtà in una ricostruzione autobiografica che ingloba la cinta muraria della città natale con i suoi delitti e le sue offese. Si legge tra l’altro i versi di un frammento che alludono proprio alla relazione necessaria tra mondo e bios: “Dimoro nella lesione di ogni cosa./ Vuoto logico di questo terrazzo aperto/ su di un balzo di palazzi e voci rabbiose./ Le labbra si schiudono ancora nella gioia/ di nominare le cose i volti lo spazio/ che si stringe intorno alla gola,/ nelle pietre di questa città che continua/ a crollarmi addosso da millenni (frammento XVIII).”
Oltre a questi esempi ci sono altri poemi, si potrebbe fare tanti altri esempi. Ma per tornare ad un poema che si misura con la Storia, si può leggere l’opera d’ispirazione eliotiana di Roberta Bertozzi, Gli enervati di Jumièges. Parliamo di un testo esemplare per come riesce ad alludere, tramite una vicenda risalente all’alto medioevo, ad una domanda attualissima. La storia è quella dei figli di Clodoveo II, colpevoli di aver cospirato contro il padre e per questo condannati ad andare alla deriva su una zattera con i tendini delle gambe bruciati. Anche Marcel Proust ne aveva parlato nel suo Alla ricerca del tempo perduto (anche qui una questione cairologica). La simbologia del poema è già indicativa: il padre, il Re, che condanna i figli all’ignavia, alla passività, sembra dire la condizione recentissima del nostro Paese. La tradizione che schiaccia, annichilisce. I versi della Bertozzi tratti da capitoletto Heimat recitano così:
Intorno non è la decadenza
fino a quando la faglia non prende a puzzare
e ci si chiede quale motivo, dove fa – tarlo.
Dietro il perimetro del labirinto,
dietro le figure-contorno stanno altri muri, altri nomi,
spesso altro e ancora
limo.
Difficile dire
quale carosello ci si pari davanti.
[…]
Heimat! Quanti ne mancano all’appello – quanti
nel repertorio dell’Istituto Luce ingialliscono trinciati
a tocchetti, a puntate, per le lame della moviola?
La decadenza non è tale fino a quando la “faglia non riprende a puzzare”. La faglia è la stessa matrice temporale che il nostro organismo porta nella narrazione collettiva dei fatti. La scommessa è se questa temporalità sappia farsi tempo con-diviso, spazio, Storia. In questo incipit c’è un vero e proprio monito. “Quanti ne mancano all’appello?” Quanti vanno salvati dall’ingiallirsi della pellicola dell’Istituto Luce? Ci si perde gradualmente per “tocchetti”, “a puntate”: l’anestesia è l’indolore. L’interrogativo resta centrale.
BIBLIOGRAFIA
Amarelli Viola, Notizie dalla Pizia, Lietocolle, Milano, 2009
Ballerini Luigi, Cefalonia, Mondandori, Milano, 2007
Bertozzi Roberta, Gli enervati di Humines, Pequod, Ancona, 2008
Caproni Giorgio, Il passaggio d’Enea, in Il terzo libro, Einaudi, Torino, 1968
Cesarano Giorgio, Romanzi naturali, Guanda, Milano, 1980
Cesarano Giorgio, Manuale di sopravvivenza, Dedalo, Bari, 1974
Contini Gianfranco, Un’idea di Dante, Einaudi, Torino, 1976
Filia Francesco, Il margine della città, Laboratorio edizioni, Nola, 2008
Italiano Federico, I Mirmidoni, Il Faggio, Milano, 2006
Jesi Furio, Cultura di destra, nottetempo, Roma, 2011
Mandelstam Osip, La quarta prosa, Editori riuniti, Roma, 1982
Majorino Giancarlo, La capitale del nord, Edizioni dell’arco, 1994
Nacci Luigi, Poema disumano, Cierre, 2006
Nacci Luigi, OdeSS, pp. 117- 166, in Poesia contemporanea. Decimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2010
Pagliarani Elio, Tutte le poesie (1946-2005), Milano, Garzanti, 2006
Raos Andrea, Le api migranti, Oedipus Edizioni, Salerno, 2007
Rivali Alessandro, La riviera del sangue, Fara Editore, 2007
Rivali Alessandro, La caduta di Bisanzio, Jaca Book, Milano, 2010
Roversi Roberto, Tre poesie e alcune prose, Sossella Editore, Roma, 2008
Tasso Torquato, Prose, Letteratura Italiana Ricciardi, vol. 22, Treccani, Roma, 2005
Testa Italo, La divisione della gioia, Transeuropa, Roma, 2010
Zatti Sergio, Il modo epico, Editori Laterza, Bari, 2000.
[Uscito sul n. 15 de «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», dedicato a “La forma del poema”: http://www.lietocolle.info/it/l_ulisse_n_15_la_forma_del_poema.html]
[Immagine: T.S. Eliot, The Waste Land, copertina della prima edizione].
Alla Casa della Poesia di Milano è stato inaugurato la settimana scorsa un ciclo di letture sul poemetto contemporaneo, a cura di Milo De Angelis (nell’ordine del programma: Cucchi, Loi, Majorino, Mussapi, Coviello, Pagliarani, Frungillo, Raimondi). Vorrei chiedere all’autore un commento su questa iniziativa.
Ho seguito le prime due letture con le rispettive presentazioni di Milo De Angelis. Ho trovato la lettura di Viviana Nicodemo ottima: espressiva, ma non gravata da impostazioni teatrali della voce che solitamente coprono il valore dei versi. La Nicodemo ha avuto la bravura di evitare tutti gli steriotipi della lettura “recitata”. La parole di presentazione di De Angelis sono state profonde e precise. Se poi mi si chiede un commento sulla scelta degli autori, non saprei che dire. Sono felice naturalmente di essere tra gli autori scelti da De Angelis . Certo solo alcuni dei poeti scelti da De Angelis sono citati nel mio saggio, Pagliarani e Majorino. Nella seconda parte del mio testo mi premeva occuparmi di opere di autori più vicini alla mia generazione (autori nati negli anni settanta).
articolo molto interessante, ricco. complimenti
Sulla prima serata a La casa della poesia: io c’ero e dissento profondamente da Frungillo, certe cose bisogna dirle. Molti dei presenti dormivano o rischiavano la catalessi e non parlo di persone che non sapessero di cosa si stava parlando; non faccio nomi perché non è il caso. Conto otto/dieci catatonici (me compreso).
La lettura della Nicodemo a me non è piaciuta, soprattutto la seconda parte, quella sul poemetto di Loi; l’ho trovata eccessivamente enfatica. La serata, in generale, non è mai decollata e me ne dispiaccio molto. Spero davvero in un miglioramento nelle prossime.
Grazie per l’articolo e buona giornata
a volte la colpa non è solo delle attrici….comunque io resto convinto della bravura della Nicodemo. Sulla scelta dei testi si può discutere, ma questo è naturale. A me sarebbe piaciuto sentire i versi di altri autori, così come mi sarebbe piaciuto sentire qualche commento su quanto ho scritto io e non su quanto è accaduto alla casa della poesia di Milano il giorno 16 febbraio dell’anno 2012.
Scusami Vincenzo non avrei detto nulla sulla serata se non avessi letto i commenti precedenti. Non ho detto che la Nicodemo non sia brava e non ho detto che la scelta dei testi sia stata sbagliata. L’insieme, a mio avviso, non ha funzionato. Troppa severità, se vuoi, una serata così lascia molto poco e certo a nessuno farà mai venir voglia di andarsi a prendere uno dei due poemetti presentati. Questo è quello che penso.
Sul tuo articolo hai ragione, a me è piaciuto. Tornerò per un commento adeguato
grazie
@Gianni
Grazie a te per aver letto il mio articolo.
Trovo questo articolo veramente interessante, così come il “rinato” interesse per la scrittura poematica in Italia, di cui, tra le altre cose, anche se non si “autocita”, Frungillo è un ottimo esponente: penso, ovviamente ad Ogni cinque bracciate.
Vorrei fare qualche piccola integrazione.
Tu introduci dicendo che “I modelli per la scrittura poematica in Italia, a partire dagli anni quaranta, sono per lo più stranieri: The Age of Anxiety di W. Auden, The Waste Land di T. Eliot e i Cantos di E. Pound. ” Concordo, ma non del tutto. Tra i modelli stranieri, ad esempio, aggiungerei Majakovskij, non solo per la mole sterminata di poemi che ha composto l’autore della rivoluzione, ma anche per le innovazioni formali, che il capostipite della scrittura poematica secondo-novecentesca in Italia (mi riferisco a Pagliarani), ha ereditato dal poeta sovietico. Intendo in questo caso il “verso gradino” e le poesie a “fisarmonica”, come le definiva Ripellino, che nel primo poema post-bellico, La ragazza Carla, dettano un modello di scrittura del tutto nuova – anzi novissima.
Spostando l’attenzione dal centro alla periferia, mi sembra utile ricordare che anche nell’Ottocento italiano la “narrativa in versi” ha avuto un suo ruolo, nonostante le spinte eterogenee romantiche, o “egocentriche” (quelle di cui parla Mazzoni in La poesia moderna). Guglielmi, ad esempio, indicava tra i modelli di Pagliarani, la famosissima Ninetta del Verzèe di Carlo Porta, mentre Fortini parlava di Ottocento basso, di Pompeo Bettini e Vittorio Bettelloni.
Anche quest’ultimo aspetto, quello dei cosiddetti “poeti veristi”, per fare un’indagine tra le fonti, non mi sembra secondario, specie se poi dobbiamo giungere fino alle scritture poematiche del XXI secolo, quali la tua, Le api migratori di Raos, o, di questo non mi pare se ne sia parlato nel nuovo numero de L’ulisse, di Neon 80 di Lidia Riviello.
Luciano Anceschi ad esempio analizzava il binomio poesia-scienza, poesia-rivoluzione scientifica, in Graf, Bettelloni e Bettini.
Ora questo binomio e questa corrente che si sviluppava a fine Ottocento, ripreso da Pagliarani nelle Lezioni di fisica, ritorna con tutta la sua irruenza anche oggi.
Pensiamo al tema del laboratorio ed alla figura dello scienziato che nella nuova narrativa in versi svolgono un ruolo di primo piano, cosa che, mi sembra sì di derivazione “veristica” ma anche una sostituzione dell’Olimpo omerico. Starkino e la pillola blu nel tuo caso, il Neon, nel poema di Lidia Riviello, il laboratorio e la fuga delle api dal laboratorio nel caso di Raos.
Insomma, sono più che altro felice per questo interesse per la scrittura poematica, e auspico studi sempre più approfonditi su questo tema (per esempio Mazzoni in La poesia moderna sosteneva che gli studi sulla poesia narrativa dal romanticismo ai nostri giorni erano più che altro in polemica rispetto alla dimensione dominante della lirica, magari oggi, a distanza di pochi anni, potrebbe non essere più così).
Scusate l’eccesso di scrittura – ma è un tema che mi sta particolarmente a cuore.
Grazie a Italo per questo post ed a Vincenzo per aver scritto.
Luciano
Caro Luciano, il tuo intervento è molto ricco. I modelli che cito sono ripresi dallo stesso Pagliarani in un suo appunto autobiografico, ma, come tu giustamente dici, manca il nome di Majakovskij. Il poeta russo è in tutto e per tutto un poeta epico (forse la prima a sottolinearlo è stato la Cvetaeva nei suoi scritti saggistici). I suoi poemi sono riferimento importante e fondamentale per Pagliarani e direi per molti poeti contemporanei (penso a Lello Voce e a molti altri). Ammetto che conosco poco o niente gli altri poemi veristi che citi. Non conoscevo i nomi di Betteloni e Bettini. Li leggerò. Ti ringrazio. Trovo giusto quello che dici sulla scienza. dovrebbe essere il tema dominante della nuova poesia mondo o poesia poematica. Il libro di Raos è, le Api migratorie, è fantastico, ma io aggiungerei all’elenco anche il bellissimo libro poematico di Trucillo, Darwin, e magari il testo di Bruno Galluccio, Verticali, dedicato al matematico russo Cantor, che ibrida il linguaggio poetico con quello matematico (sia Trucillo che Galluccio sono napoletani, in barba al folclore sentimentalista della mia città). Sull’importanza del poematico come genere ho tentato di dire qualcosa nel saggio, si può aggiungere che fa piacere poter usare certi termini (poema, epica etc) senza suscitare diffidenza…Per ora ti saluto e ti ringrazio per l’intervento.
L’articolo è molto interessante e ben argomentato, complimenti. Avrei tuttavia qualche breve osservazione. In primo luogo, mi parrebbe che una lettura, etimologicamente pertinente, in senso prettamente biologico del “bios” sarebbe stata una pista feconda da percorrere, specialmente per la poematica successiva agli anni Cinquanta; l’assimilazione storica ed evenemenziale del bios non rischia di portare a un’eccessiva semplificazione? In secondo luogo, dalla non sempre cristallina evidenza del filo rosso che legherebbe il Dante continiano al Tasso teorico alla poematica ipercontemporanea mi sembra che traluca un tentativo di autolegittimazione, di compilazione posticcia di patenti di nobiltà. Niente da dire, invece, sulla serata milanese alla quale non sono stata.
Bios significa vita e, come fa notare Agamben, è il termine greco che contende a zoon questo significato. Mentre il primo è l’espressione naturale o diremmo biologica della vita, il secondo è la declinazione politica dell’essenza umana. Uso il termine bios solo in relazione alla storia per alludere alla forbice tra natura e cultura, tra simbolo e natura, tra carne e memoria. Una forbice mai azzerabile. Non esiste per l’uomo biologia senza una simbologia. La riduzione della vita a mero bios è per l’uomo effetto di un’utopia negativa, in fondo superata già da Leopardi nella seconda fase dei suoi idilli. Se uso la parola bios è proprio per provocare le tante poetiche del corpo ridotto a pura biologia. Sinceramente non trovo interessante le poetiche a cui lei si riferisce, se ho inteso il senso della sua obiezione. IL mio è il tentativo di mettere in luce un’esigenza contemporanea e di evidenziare come modelli del passato, aldilà della retorica antipoematica, possano venirci in aiuto. Non volevo certo scrivere una storia della poesia. La linea che traccio va da Contini a Mandelstam a Tasso per mettere in evidenza come in tre tempi, e in tre epoche differenti, si sia letto il poema dantesco, il poema dei poemi, a partire proprio dalla messa in evidenza della forbice che citavo sopra. Cercavo di costruire uno schema teorico, un modello, proprio nel senso della filosofia della scienza. Sono scarsamente interessato alle patenti di nobiltà, “le lascio ai poeti che dicono io”.
Ripasso dopo molto tempo su questo bell’articolo di Vincenzo Frungillo, che ringrazio per aver letto (tra i pochissimi) “Il margine di una città” e avermi inserito insieme a tanti altri autori contemporanei nel suo articolo. Vorrei aggiungere alle opere citate da Frungillo la sua “Ogni cinque bracciate”, che del rapporto tra storia e bios coglie aspetti essenziali e drammatici e li mostra poeticamente nel gesto agonico delle nuotatrici protagoniste del poema e nella metamorfosi chimica dei loro corpi.