di Maurizio Chiaruttini

 

La recensione che segue è stata scritta prima della notizia della scomparsa di Antoine Emaz, avvenuta ad Angers il 3 marzo scorso. Non lo conoscevo personalmente, tutto quello che sapevo di lui lo devo a questo libro (Sulla punta della lingua, Marcos y Marcos 2018) con il quale Fabio Pusterla lo ha fatto conoscere ai lettori di lingua italiana. Ora vorrei rileggere e interpretare daccapo, guidato dalla luce definitiva che la morte proietta sulle parole. Ma forse non avrebbe senso.

 

«Ci si muove con ciò che si muove / si tace con ciò che resta» – scrive Emaz -. «Non c’è granché d’altro»: c’è la forma informe della nostra vita che si rifiuta a ogni compiutezza finché non giunge il «vento di terra» che retrospettivamente conferisce alle parole il loro «peso esatto»:

 

un corpo infuso di inchiostro
una spugna inzuppata
e nella bocca la terra
invece delle parole
le parole pesando infine il loro peso esatto

 

Emaz si definiva «poeta dell’ostacolo». Ora conosciamo il peso ulteriore e definitivo di questa parola. Come delle altre che compaiono nella sua opera: la parola «muro», ad esempio. Ma anche la parola «giardino».

 

*

 

È difficile estrarre parole dalle cose, soprattutto quando le cose sono fredde e rigide come l’inverno o assolute, totalizzanti e nullificanti come la paura o la morte.

 

Sulla punta della lingua, di Antoine Emaz, tradotto e curato da Fabio Pusterla per Marcos y Marcos, ci mette di fronte a questa difficoltà, una difficoltà che fa tutt’uno con la difficoltà del vivere. Perché vivere e scrivere, per il poeta francese, sono due sponde dello stesso cammino : «raggiungere attraverso le parole una certa intensità del vivere, questo è forse ciò che chiedo a una poesia, a un libro», leggiamo in D’écrire, un peu[1], una raccolta di riflessioni sulla scrittura poetica. E ancora: «Lavoro sulla lingua, lavoro su di sé».

 

Ma questo lavoro su di sé non è mai puramente introspettivo. O meglio lo è, nella sua autenticità, solo in quanto l’introspezione sfocia in un superamento dei confini ristretti dell’io in direzione di un “noi”, unica garanzia di verità. È vero, sembra dirci Emaz, solo ciò che è “comune”, ciò che rivela l’umanità stessa dell’uomo.

 

E tuttavia, forse non troppo paradossalmente, nei suoi versi spira un’aria di intensa solitudine. La cogliamo nell’immagine di un volto riflesso dentro un vetro che fronteggia la notte: «notte nel vetro di fronte / quale volto perso / nello specchio senza volerlo / semplicemente là / tardi / quasi d’autunno / e i giorni brevi»[2]. La avvertiamo nella pronuncia e nella scansione dei versi del Poemetto della paura, del Poemetto della fine e di Tempo morto quasi, i tre “movimenti poetici” che aprono la raccolta, usciti in Francia tra il 1992 e il 1995.

 

D’altronde, cosa ci rende più soli dell’esperienza della paura?

 

                                                L’acqua sale

                                                e la sabbia e la terra nell’acqua

 

                                                si tace

 

                                                nella fanghiglia

                                                fredda[3]

 

L’uso dei pronomi impersonali («si tace», «ci si dibatte», «si entra», «si scruta»), tratto ricorrente in tutta la raccolta, risponde all’esigenza di una parola «svincolata dalle scorie dell’io» – come scrive Fabio Pusterla nella prefazione – che apra il linguaggio poetico alla dimensione collettiva del «noi». Ma questa spogliazione dell’io, ridotto a corpo che «resta agghiacciato di fronte» come un «involucro gelato»[4], dice nel contempo una verità profonda sull’esperienza stessa della paura. Un’esperienza che non può essere attinta a partire da un «noi»: può solo essere generalizzata e resa disponibile a partire dal nucleo esclusivo di un «io» spossessato, risucchiato, «contratto // interiormente / come prosciugato»[5].

 

Nella paura «si entra», ma nello stesso tempo la paura è dentro, attorno e fuori. È come un’«acqua che sgorga / di sotto»[6] e rende liquido l’io stesso che subisce il suo potere nullificante: «si cola in lei»[7]. Lo stesso si può dire della la morte: non ha nulla a che fare con noi, «viene a stringerci da fuori», ma nel medesimo tempo «si dorme con lei in fondo a noi stessi / come un cane acciambellato»[8].

 

La poesia di Antoine Emaz si nutre di un vocabolario povero ed essenziale, costruito attorno a pochi elementi dotati di forte capacità di risonanza simbolica: parole comuni come vento, acqua, terra, muro, corpo, sabbia, sangue. Questa scelta espressiva è frutto di un processo di riduzione all’essenziale e di «abrasione» dell’esperienza individuale ben rilevato da Pusterla nella prefazione: «c’è l’esperienza alla base della scrittura di Antoine Emaz; eppure di questa esperienza, che il lettore sente fondativa e pulsante nei versi, poco rimane visibile, pochissimo è narrato, quasi nulla confessato, perché la trasformazione dell’esperienza in parola poetica ha portato con sé una proficua abrasione, un allontanamento, una voluta dispersione: in fondo alla quale la parola scopre, nella sua povertà e nudità, una nuova dimensione espressiva»[9]. In questa nudità, le parole sembrano cadere sulla pagina come «pietre gelate», isolate l’una dall’altra:

 

                                                nelle parole

                                                del pochissimo

                                                nelle parole

                                                solo

                                                toccare l’inverno

 

                                                spostare piccole pietre gelate

                                                trasparenti

 

                                                più o meno questo[10]

 

La scansione delle pause, accentuata dall’uso espressivo dei segni di interpunzione, conferisce talvolta ai versi una coloritura esclamativa che può sfociare nell’enfasi: «davanti al muro // – // si attende // si attende / che qualcosa si muova / sarebbe necessario che qualcosa venisse / si attende // – // sempre più poveri // – // davanti al muro»[11]. Ma ciò che prevale è un inquieto tentare di dire qualcosa che sfugge alla presa eppure è lì, di fronte. Bisognerebbe provare a censire, nella poesia di Emaz, le occorrenze di deittici come questo e , che talvolta arrivano a costituire, da soli, la misura di un intero verso. I deittici sono parole che vivono sul confine fra l’interno del linguaggio e l’esterno della realtà, abitano il sistema della lingua ma possono ricevere il loro significato solo da ciò che è fuori, come fori praticati nel tessuto linguistico per ricevere luce dall’esterno.[12] «Là» è il segno di ciò che il linguaggio non può dire se non indicandolo – il colmo dell’inesprimibile – e nel contempo tende al massimo la possibilità espressiva, perché attraverso questo monosillabo il linguaggio mira a superare se stesso in favore della realtà ‘che sta là fuori’:

 

                                                nient’altro che inverno

                                                freddo e acqua

                                                fuori

 

                                                c’è un po’ di fatica

                                                e dei nomi che flottano

                                                non li si afferra bene

                                                è lontano

 

                                                ci si domanda perché

                                                questo pesi

                                                là[13]

 

«Allora, scrivere tutto sarebbe come entrare fuori», leggiamo in un altro frammento[14].

 

Fuori c’è un muro e c’è un giardino, altra immagine-simbolo della poesia di Emaz. In un testo non compreso in questa raccolta viene descritto come un luogo in cui accadono cose importanti alle quali non si presta attenzione: il fogliame dei grandi alberi visto da sotto, la luce che traspare dal movimento oscillante delle foglie («Être là, dans le jardin, sous les grandes arbres. // Le feuillage, vu d’en dessous, dans la lumière. Transparence, mouvement berçant des feuilles. // Beaucoup de chose et d’evénéments importants / auxquels on ne fait pas attention»)[15].

 

 In questo giardino la vista può aprirsi verso l’alto, ma le è precluso l’orizzonte, perché è circondato da un muro. Ha senso cercare di sciogliere questa metafora? Resterebbe comunque lì ad interpellarci di nuovo. Di sicuro si tratta di qualcosa di più oscuro ed affilato del semplice pensiero della finitezza. Nel Poemetto del muro e nel Taccuino del muro leggiamo che il muro è qualcosa che richiede la nostra resistenza («resistere di fronte, ancora»). Esso è «l’inerte, il senza-risposta» e in questo sembra quasi rinviare a una dimensione metafisica: una parete bianca che forse nasconde «solamente il suo spessore»[16]. Si è lì, davanti a quel limite misterioso che «provoca», e il bagaglio di parole che abbiamo portato con noi non serve a scalfirlo e nemmeno a definirne la natura. Senonché scopriamo presto che il muro è immerso nella durata: c’è stato un tempo in cui il muro non c’era: «si avanzava regolarmente su di un terreno non troppo facile ma senza disturbi e poi, un mattino, era là, davanti»[17]. Ora il tempo di prima del muro si allontana, «si disloca lentamente»: «un trasloco al rallentatore, cupo»[18]. Il muro dunque è una presenza che a poco a poco erode qualcosa, lo allontana, lo disloca nel passato.

 

Una dislocazione analoga l’abbiamo incontrata in un altro dei movimenti poetici che costituiscono la raccolta: «tutto il giardino forse se ne va / così lontano / che non sarà possibile raggiungerlo». Il giardino, quel luogo ombreggiato e cangiante che, seppure circondato a sua volta da un muro, apriva la visione verso una trasparenza possibile, ora se ne va anch’esso. E in questo abbandono si esprime tutta la concretezza di un dolore vissuto. Così continua il testo: «si vede e si sta là / con il guscio dell’occhio / come ghiaccio»[19].

 

Ben altrimenti che a una rarefazione metafisica, siamo di fronte alla densità di una condizione esistenziale ferita: non c’è solo un “noi” a fronteggiare il muro, c’è anche un “io” che a volte non può fare a meno di affiorare dietro l’impersonalità dei pronomi: «a volte non si è più che questo sforzo bloccato. Spossatezza, voglia di farla finita, a qualsiasi prezzo».[20]

 

L’ossimoro «lirismo critico» con cui Emaz caratterizza il proprio atteggiamento espressivo[21] allude anche a questo: all’impossibilità di raggiungere una parola «comune» che a partire dalla propria, sofferta collocazione in un mondo che è diventato (Emaz cita Char) un «cespuglio di questioni» in cui nessun uccello può più cantare. Praticare un «lirismo critico» significa prendere atto di questa condizione. Il rifiuto dell’ottimismo e del canto sfocia in un dire «strappato» perché continuamente conteso tra due forze: quella derivante dalla «persistenza del desiderio» e quella, contrapposta, della «permanenza dell’ostacolo».

 

Insieme ai deittici, l’avverbio davanti e la locuzione avverbiale di fronte sono elementi costitutivi dell’universo poetico di Emaz. La parola poetica fronteggia un ostacolo che sta là fuori, e di questo dialetticamente si nutre. Si tende, si contrae, si strappa nel confronto.

 

Ma la forza del desiderio (che talvolta sembra ridursi a un anelito di sopravvivenza: «attendendo, si scrive per respirare un poco»)[22] e la fluidità del canto, oltre che dall’«evidenza stridente» del reale sono ostacolati anche da una altra forza: la forza negativa della critica. «Critico … questo significa che l’occhio è voltato contro se stesso e mira a far saltare il piccolo abitacolo della testa. La critica è interessante per la sua capacità di distruzione o, detto più gentilmente, di interrogazione»[23].

 

Interrogazione e distruzione sono dunque sinonimi. Il desiderio, sembra dirci Emaz, è per definizione innocente e ogni interrogazione nei suoi confronti è distruttiva. Il tempo dell’innocenza però è esaurito. Ciò che resta è un rivolo strozzato, «piuttosto ruscello o pozzanghera che fiume». La critica, leggiamo ancora nelle note di poetica, «nasce insieme alla scrittura, all’espressione, come ci fosse una forza di avanzamento e una forza equivalente di rovina, nello stesso tempo. La poesia, è quello che resta»[24]. Il lirismo critico è un canto residuale.

 

Oltre alla corrosività della critica, l’altra forza che occlude, dicevamo, è l’evidenza dura della realtà che sta «là», e che trova espressione nella metafora iperbolica della macelleria:

 

                                                LÀ

                                                ci sono pezzi di carne

                                                attorno

                                                e muri bianchi

                                                prima

                                                c’è forse qualcosa come una macelleria

                                                da porre davanti agli occhi

                                                in faccia agli occhi

                                                prima di vedere

                                                il resto

                                                che resta[25]

 

Il resto che resta è ciò che forse ci permette di «respirare un poco», e può essere visto solo dopo aver affrontato la forza corrosiva della negazione.

 

Si può sempre, certo, risvegliare il ricordo di «tempi normali», con «soli impeccabili», ma questo non rimuove l’ostacolo: l’ombra rimane e le parole girano a vuoto, «battono richiami a casaccio»[26]. Emaz invece vorrebbe che le parole acquistassero un peso: parole come pietre in grado di scalfire. La riflessione sul linguaggio e sui suoi limiti di fronte al male presente è una costante della poesia di Emaz. Ma è accompagnata da una altrettanto fondamentale meditazione sul carattere costitutivo del linguaggio rispetto all’esperienza umana. Talvolta le parole vengono equiparate al vedere, talaltra vengono accostate alle mani, come fossero parti del corpo. Percepire e parlare sembrano una cosa sola: il poeta percepisce in quanto parla e parla in quanto percepisce. Il giardino «è davanti alle parole» e le parole sono davanti al giardino. Oppure fluttuano attorno ad esso, «passano, o si urtano». Le parole sono nell’erba e, insieme al freddo dell’inverno, «si mettono / a tagliare le dita»[27].

 

Riuscire a cogliere questo modo di essere delle cose consustanziale ai nomi che le designano è il fine ultimo della poesia.

 

Allora sarà come toccare, come prendere «con dita intirizzite»:

 

                                                ci sono ancora nell’erba

                                                come delle parole

                                                ristrette

                                                non è facile da cogliere

                                                si vuole prendere ancora

                                                con dita intirizzite[28]

 

Note

[1] Antoine Emaz, D’écrire un peu, AEncrage & Co, Baume-les-Dames, 2018.

[2] Antoine Emaz, Sulla punta delle lingua, Milano, Marcos y Marcos, 2019, p. 109.

[3] Ivi, p. 29.

[4] Ibid.

[5] Ivi, p. 25-26.

[6] Ivi, p 33.

[7] Ibid.

[8] Ivi, p. 43, p. 47.

[9] Ivi, p.7.

[10] Ivi, p.75.

[11] Ivi, p. 143.

[12] Cfr. Jean François Lyotard, Discours, figure, Paris, Klincksieck, 1978, pp. 37 e sgg.

[13] Ivi, p. 55.

[14] Ivi, p. 71.

[15] Antoine Emaz, Sauf, St Benoît du Sault, Trabuste éditions, 2011. Vedi anche: https://www.terreaciel.net/Antoine-Emaz#.XHKYAy3h1N0

[16] Antoine Emaz, Sulla punta … cit., pp. 145, 153, 141.

[17] Ivi, p. 143.

[18] Ivi, p. 147.

[19] Ivi, p. 59.

[20] Ivi, p. 155.

[21] La raccolta si chiude con una serie di riflessioni intitolate Lirismo critico, (Ivi, pp. 163-183) tratte da un libro del 2003: Lichen lichen (Paris, Rehauts).

[22] Ivi, p, 146.

[23] Ivi, p. 177.

[24] Ivi, p. 169.

[25] Ivi, p. 81.

[26] Ivi, p. 95.

[27] Ivi, p. 63, 69, 77.

[28] Ivi, p. 75.

1 thought on “Toccare con le parole. Una lettura di “Sulla punta della lingua” di Antoine Emaz

  1. Di solito non lascio commenti, tanto più ad articoli che in qualche modo mi riguardano. Ma questa volta, vedere il volto di Antoine Emaz prima delle bellissime parole di Maurizio Chiaruttini, mi ha commosso. Dunque grazie a Maurizio e a Le parole e le cose per l’attenzione e l’ospitalità.
    E ancora un ultimo saluto a un amico, un poeta onesto, intenso e caparbio, che se n’è andato; ma che ci lascia qualcosa di importante.

    Fabio Pusterla

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