di Alberto Casadei

 

Propongo una versione abbreviata (specie nelle note bibliografiche) di un articolo in corso di stampa nel mio volume Dante: altri accertamenti e punti critici, in uscita il 22 marzo per Franco Angeli. Da un recente caso massmediatico, ossia l’attribuzione preventiva di un’epistola a Dante Alighieri, ripresa come sicura o quanto meno senza discussione da moltissimi quotidiani e siti web, vorrei ricavare spunti per verificare quali sono i limiti che si devono tenere nell’ambito della ricerca filologica umanistica, in modo da evitare di avvalorare notizie che possano rivelarsi fake news. Più in generale: quali sono oggi i paradigmi scientifici che anche la critica accademica deve rispettare, se vuole aspirare a una condivisione di risultati in ambito letterario e in particolare attributivo? E come si devono conciliare la giusta aspirazione a una vasta eco dei risultati più importanti e la loro verificabilità da parte del pubblico e in particolare dei mediatori culturali?

 

Commentare preventivamente uno studio solo annunciato potrebbe sembrare frettoloso; tuttavia, trattandosi di Dante e di un lavoro che sottintende importanti problemi di metodo non sarà inutile esaminare alcuni aspetti che coinvolgono sia la ricerca in questione, sia in generale le modalità di divulgazione degli studi umanistici. Il caso che si vuole qui affrontare è quello dell’articolo di Paolo Pellegrini uscito su “Alias-Il Manifesto” del 16 settembre 2018 (disponibile anche online) con il titolo redazionale Lo stilista nascosto di Cangrande della Scala. In sintesi, Pellegrini ha riproposto all’attenzione degli studiosi una lettera ben nota, databile al luglio-agosto 1312, nella quale Cangrande segnalava all’ormai Imperatore Enrico VII alcuni “gravi dissensi sorti in seno alla pars Imperii”, in particolare un dissidio tra due notabili accapigliatisi durante la dieta di Vercelli nel giugno di quell’anno, esortando il sovrano a perseguire la pace fra le sue schiere. Rispetto al testo pubblicato in varie sedi[1], Pellegrini ha ritrovato, su segnalazione del collega Gian Maria Varanini, un testimone sinora sconosciuto conservato alla Beinecke Library dell’Università di Yale, precisamente

 

una raccolta di testi esemplari assemblata nella Verona di primo Trecento da Ivano di Bonafine, notaio di autorevole famiglia cittadina e vicinissimo agli Scaligeri. La terza parte del codice ospita 88 epistule alcune delle quali esibiscono come mittenti Alboino e Cangrande della Scala. A quest’epoca non era raro vedere notai muoversi tra Savena e Adige, come prova il caso di Giovanni di Bonandrea, dettatore e rimatore bolognese a lungo a Verona come scriba di Alberto della Scala, il padre di Alboino e di Cangrande. A Bologna Giovanni fu incaricato di formare i cancellieri del Comune, cioè, fra l’altro, di insegnare loro a scrivere lettere ufficiali. Insomma Ivano di Bonafine, Bonandrea, Boattieri facevano il medesimo mestiere e frequentavano ambienti vicinissimi, e forse si scambiavano i testi. È naturale pensare che alcune lettere presenti nelle loro sillogi provengano direttamente dalla cancelleria scaligera, tanto più che nel novembre del 1310 proprio Ivano rogò la procura con cui il comune di Verona inviava il proprio rappresentante ad accogliere Enrico VII in arrivo in Italia.

 

Come si intuisce da quanto esposto qui sopra dallo stesso Pellegrini, si tratta di materiale circolante tra notai e dettatori di buona cultura, ai quali naturalmente non mancavano gli strumenti per redigere un’epistola per conto di Cangrande, come del resto accadeva abitualmente intorno al 1312: anche un recente contributo proprio di Gian Maria Varanini, uno tra i massimi esperti di storia e documentazione veronese tra Due e Trecento, ha ribadito che sino alla metà degli anni Venti Cangrande non si era dotato di un entourage ufficiale, per esempio di una vera e propria cancelleria, e si affidava in genere a notai cittadini per le sue epistole.

 

Tuttavia Pellegrini, nell’articolo da cui stiamo citando, sottolinea che nell’epistola del 1312 si fa riferimento alle Variae di Cassiodoro, e in particolare a due passi (I 1 e II 29) impiegati anche nel celebre atto di pace tra Antonio da Camilla e i marchesi Malaspina, stipulato a Sarzana il 6 ottobre 1306, alla cui attuazione contribuì di certo Dante, come fiduciario di Franceschino. Secondo un’ipotesi avanzata da Carlo Dolcini e poi avallata in particolare da Emiliano Bertin[2], l’arenga di quel documento sarebbe stata concepita proprio da Dante, ancora una volta facendo riferimento alle Variae, soprattutto alla prima epistola, con tasselli prelevati da II 29.1 e da VIII 14.1 (peraltro vulgatissimi). L’intuizione di Pellegrini è la seguente: siccome il testo di Cassiodoro viene citato con minime rielaborazioni rispetto al testo corrente, e alcuni di queste varianti sono rinvenibili anche nell’epistola del 1312, si possono riconoscere tratti stilistici propri di Dante in entrambi i casi, e quindi l’autore dei due testi è lo stesso. Aggiunge poi:

 

Certo, nessun filologo anche mediamente preparato ignora che le Variae di Cassiodoro erano testo molto diffuso nel Medioevo. Certo, la consistenza dei richiami intertestuali dovrà accompagnarsi a capillari verifiche sulle concordanze dantesche e sui più ampi corpora della latinità medievale; controlli doverosi andranno compiuti sul ritmo della prosa; soprattutto occorrerà procurare una nuova edizione della lettera riesaminando il manoscritto. È materia che darà lavoro nei prossimi mesi. Ma a mio avviso tutto ciò non farà altro che confermare quanto appare chiaro sin da questi primi assaggi: dovendo scrivere una lettera delicatissima all’imperatore Enrico VII, il suo vicario Cangrande della Scala si affidò alla penna di Dante Alighieri, l’unico che in quel momento a Verona poteva produrre uno stile tanto elevato. E nello stendere quel testo così importante Dante recuperò la citazione incastonata sei anni prima nell’arenga lunigianese, ma la modificò e la arricchì come solo lui avrebbe potuto fare, secondo lo stile di quell’alto dittare che sempre innervò la sua prosa latina.

 

Ora, a livello di metodo bisogna sottolineare che lo studioso ammette di non aver svolto tutti gli opportuni controlli prima di rendere pubblica la sua ipotesi, oltretutto ripresa con enfasi dai principali quotidiani attraverso interviste e segnalazioni nel corso del mese di ottobre 2018. I tempi giornalistici sono senz’altro molto diversi da quelli degli studi universitari; tuttavia non bisognerebbe correre il rischio di diffondere ipotesi azzardate, che potrebbero rivelarsi fake news, se si vuole mantenere la dovuta credibilità agli studi specialistici e accademici. Soprattutto, la scrittura giornalistica non dovrebbe spingere a semplificazioni davvero eccessive, per esempio indicando in Dante “l’unico” residente a Verona nel 1312 che “poteva produrre uno stile tanto elevato”, affermazione che sembra già piuttosto contrastante con quanto sopra notato sulle qualità di molti notai e dettatori orbitanti attorno a Cangrande. In ogni caso, bisognerebbe prima dimostrare che Dante, a quella data, era in effetti già a Verona (se da lì è stata spedita l’epistola in questione, fatto non del tutto palese), e non inferire da un’ipotesi tutta da dimostrare che Dante appunto era a Verona perché scriveva questa epistola per conto dello Scaligero. Viceversa Pellegrini così conclude il suo articolo:

 

Il recupero della lettera produce una serie di conseguenze rilevanti sul piano biografico. Cadono in un colpo solo le ipotesi – formulate forse un po’ troppo frettolosamente – che tra 1312 e 1316 volevano Dante a Pisa o in Lunigiana, o addirittura lo immaginavano negli attendamenti imperiali tutto preso dalla stesura della Monarchia. Nell’estate del 1312 Dante si trovava già a Verona e se la Monarchia fu scritta a quest’epoca, cosa che appare davvero improbabile, fu scritta sotto l’occhio vigile di Cangrande. Andrà riesaminato il profilo culturale dello stesso Cangrande, eccessivamente appiattito, negli interventi più recenti, su una prospettiva che ne valorizza soprattutto i risvolti amministrativi e militari, a scapito forse di altri aspetti ugualmente importanti. Acquistano nuovo rilievo le affermazioni dell’umanista Leonardo Bruni, l’ultimo ad avere maneggiato autografi di Dante: nella propria biografia del poeta Bruni affermava chiaramente che Dante non si trovava in Toscana allorché Enrico VII preparò l’assedio di Firenze (settembre 1312); di più citava di prima mano lettere di Dante spedite da Verona e c’è da chiedersi donde traesse l’indicazione topica se non proprio dalle lettere medesime. E poiché nel gennaio del 1320 Dante era a Verona per pronunziarvi la Questio de aqua et terra anche ci sarà da chiedersi se il soggiorno non durasse proprio da quel lontano 1312, il che spiegherebbe l’altissimo elogio riservato a Cangrande nel canto XVII del Paradiso, l’encomio più nobile dedicato dal poeta a un vivente. Insomma, un capitolo intero della biografia dantesca avrà bisogno di una robusta riscrittura.

 

Ciascuna delle affermazioni contenute in questo capoverso avrebbe bisogno di chiose e verifiche, ma di sicuro nessuno degli aspetti qui citati può essere pacificamente accettato dalla comunità scientifica: ma purtroppo spesso le comunità di studiosi umanistici sono restie a confrontarsi con le ipotesi altrui quando confliggono con le proprie e magari con alcune vulgate difficili da modificare. Tornando però alla questione principale, e cioè la possibilità di attribuire tutta o in parte l’epistola del 1312 a Dante, innanzitutto collochiamo in ordine gli elementi a disposizione. Questo è il testo in esame:

 

Cangrande von Verona teilt Kaiser Heinrich VII. den zwischen den Grafen Werner von Homberg und Philipp von Savoyen ausgebrocheneu Zwist mit und warnt vor dessen Folgen – Verona, inizio di luglio 1312 [?]

 

Illustrissimo domino domino Henrico inclito Bomanorum imperatori et semper augusto [sc.Canisgrandis] capitaneus Veronensis devotione fidelitatis continua semper insistere votis suis. Cum serena pacis tranquillitas, decora genitrix artium et alumpna, multiplicet et dilatet quam plurimum commoda populorum, cura vigili procurare tenetur cuiuslibet principantis intentio, que sonoro laudis preconio desiderat predicari, ut inviolatus permaneat status pacificus subiectorum. Nam, ut lectio testatur divina, illud imperium, illud regnum, quod divisis voluntatibus intercisum in se non continet unionem, desolationem incurrit, nec in ilio torpore sospitatis hilaritas perseverat, cuius partes vel membra passionibus aliquibus singulariter affliguntur. Quippe recenter vobis hoc notifico evenisse, quod quidam iniquitatis alumpni, vasa scelerum ac putei vitiorum, quorum propositum clandestinum et nefandum, sub cuius effectus specie imperiale decus corruere moliuntur, quod absit, inter virum magnificum dominum P[hilippum] inclitum principem Achaie et hominem excelse potentie dominum G[uernerium] comitem. quos in istis partibus prefeceratis in presides et rectores. Malignis affatibus seminaverunt de novo semen et materiam iurgiorum. Ita, quod utroque ipsorum cum suorum comitiva sequacium, contentionum ardoribus concitato, ad perniciem alterius perrumpere iam presumpsit multotiens, ita quod fere iam partis cuiuslibet acies concurrissent conquassatis capitibus plurimorum, nisi forent quoruiidam magnatum fidelium imperii suadele, qui ad salutem et robur imperialis diadematis aspirantes, pro viribus studuerunt exstinguere iracundiam iam conceptum, quod nondum tarnen efficaciter potuerunt, malignante diabolo, bonorum operum subversore. Propter quod provincia Lombardorum tota concutitur tremebunda timore, ne causa buius scandali lanietur grassantibus inimicis propter casum huismodi, dum ex hoc cogitant evenire, quod iam pridem attendus desideratis affectibus cupierunt. Studeat igitur imperatoria celsitudo sui maturitate consilii has radices amarissimas et pericula summovere; nam si membra talia vestri gubernaculi tam excelsi sic inter se iam ceperint debaccari. Quin et contra se ipsos ahi non insurgant, non debet fore dubitabile menti vestre.

 

Qui di seguito invece il testo dell’arenga dell’atto di pace in Lunigiana:

 

Diucius diabolica exsuperante potentia, inter venerabilem patrem et dominum dominum Antonium Dei gratia Lunensem Episcopum et comitem, et magnificos viros et excelsos dominos Morroellum, Francischinum, Conradinum et fratres, marchiones Malaspina, guerris, inimiciciis odiisque subortis, ex quibus homicidia vulnera cedes incendia vasta dampna et pericula plurima sunt secuta ac provincia Lunexane diversimode lacerata, prefati domini episcopus et marchiones, summi patris inherentes exemplo suis dicentis apostolis “Pacem meam do vobis, Pacem meam relinquo vobis”, eumdemque effectum ope- ris amplexantes mediante tractatu venerabilis et devoti viri Domini fratris Guillielmi Malaspina et fratris Guillielmi de Godano sanctissimi srdinis Fratrum Minorum, attendentes etiam quod omni regno desciderabilis debet esse tranquilitas, in qua populi proficiunt et gentium uctilitas custoditur, que bonarum est artium decora mater, mortalium genus reparabili subcessione multiplicat, facultates protendit, mores excolit, vixque quante sit virtutis agnoscitur, in eorum amicorum, sequacium et subditorum occiosa tranquillitate et pacis amenitate placida gloriantes, excelsi salvatoris gratia illustranti ad infrascriptam pacem et veram et perpetuam concordiam devenerunt (ed. Bertin, p. 4).

 

Come si può vedere, le parti effettivamente sovrapponibili fra i due testi si riducono a quelle che dipendono dall’originale di Cassiodoro, che in genere si legge nella seguente forma (ed. Fridh):

 

Oportet nos, clementissime imperator, pacem quaerere, qui causas iracundiae cognoscimur non habere: quando ille moribus iam tenetur obnoxius, qui ad iusta deprehenditur imparatus. omni quippe regno desiderabilis debet esse tranquillitas, in qua et populi proficiunt et utilitas gentium custoditur. haec est enim bonarum artium decora mater, haec mortalium genus reparabili successione multiplicans facultates protendit, mores excolit: et tantarum rerum ignarus agnoscitur qui eam minime quaesisse sentitur.

 

Su questa base, come vedremo tra poco, si potevano esercitare numerose variazioni, a seconda di come i concetti di Cassiodoro venivano declinati nei nuovi contesti. Ma di sicuro la conoscenza dell’inizio della prima epistola e quella dell’affermazione che “regnantis est gloria subiectorum otiosa tranquillitas” (II 29.1) erano molto largamente diffuse, trattandosi di luoghi comuni riapplicabili in ogni trattativa o esortazione alla pace.

 

Non si capisce quindi come si possano inferire tratti stilistici marcatamente danteschi sulla base di mere modifiche grammaticali, come fa Pellegrini indicando che

 

La citazione torna nell’arenga del 1306 con qualche sapiente ritocco, per cui l’anafora giocata sui dimostrativi haec … haec (‘questa … questa’) viene riformulata con un nesso relativo convertendo il participio multiplicans in un verbo finito: «que bonarum est artium decora mater, mortalium genus reparabili successione multiplicat.

 

Si sa infatti che il riuso delle Variae con minimi riadattamenti è comunissimo: è già stato notato che, una dozzina d’anni dopo il 1312, Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis (1324) così, proprio in avvio, cita le Variae:

 

Omni quippe regno desiderabilis debet esse tranquillitas, in qua et populi proficiunt, et utilitas gencium custoditur.

 

Hec est enim bonarum arcium decora mater.

 

Hec mortalium genus reparabili successione multiplicans, facultates protendit, mores excolit.

 

Et tantarum rerum ignarus agnoscitur, qui eam minime quesisse sentitur.

 

Cassiodorus in prima suarum epistolarum, hac serie iam premissa, tranquillitatis seu pacis civilium regiminum commoditates et fructus expressit, ut per hos tamquam optimos, humanum optimum, eius vite scilicet sufficienciam explicans, quam sine pace ac tranquillitate nemo consequi potest, ad pacem habendam invicem, et hinc tranquillitatem, voluntates hominum excitaret.

 

Non molto tempo più avanti, Alberico da Rosciate (1295-1360) nel suo Commentarium I Digesti, Const. 1 (ed. Venezia 1585, c. 6r, col. 1), scrive:

 

Haec est bonarum artium mater decora; haec mortalium genus multiplicat, facultates protendit, mores extollit.

 

Il testo sarà forse da ricontrollare, ma è comunque significativo di come la fonte delle Variae potesse essere facilmente adattata e ritagliata. Del resto anche Thomas Ebendorfer (1388-1464) nel quarto libro della sua Chronica Austriae (ed. Lhotsky, p. 533) adotta questa formulazione:

 

Hec est omnium bonarum arcium decora mater, hec mortalium genus successione continua multiplicat, mores excolit, facultates protendit…

 

Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ne aggiungo solo uno di parecchio successivo, tratto da una lettera datata 19 febbraio 1540 inviata da messer Giovan Battista Macchi, giurista faentino, a Giovanni Guidiccioni, allora Presidente ecclesiastico della Romagna, per accompagnare un dono di maioliche. In essa si legge:

 

haec est quae civitates conservata, teste Cassiodoro, omni quippe regno desiderabilis debet esse tranquillitas in qua et populi proficiunt et utilitas gentium custoditur; haec est enim bonarum artium mater decora, haec mortalium genus multiplicat, facultates protendit et mores extollit.

 

Ovviamente non importa qui la cronologia relativa: siccome è impossibile pensare che Marsilio o Alberico o Thomas Ebendorfer, e meno che mai Giovan Battista Macchi, abbiano ideato le loro modifiche al testo di Cassiodoro leggendo l’arenga di Dante del 1306 o l’epistola di Cangrande del 1312, bisogna concludere che siamo in presenza di coincidenze poligenetiche e interdiscorsive, dovute alle strutture sintattiche seguite nei vari testi e in nessun modo frutto di rielaborazioni stilistiche marcate[3].

 

In altri termini, chiunque fosse dotato anche solo di una modesta cultura come dettatore avrebbe potuto citare le Variae in contesti attinenti alla pace, apportando le opportune modifiche, e non è certo su questa base che si può affermare un effettivo intervento di Dante. D’altronde, pur essendo sicura la sua partecipazione all’atto di pace in Lunigiana, pure nel caso dell’arenga del 1306 si deve prudenzialmente considerare solo plausibile la ricostruzione già riferita: si sa molto poco della effettiva stesura di quell’atto, visto che sono scarsi i documenti locali coevi, e sarebbe facile proporre ipotesi alternative, per esempio che, data l’importanza dell’atto stesso, un notaio abbia sfoggiato una conoscenza delle Variae, non troppo difficile da ottenere trattandosi di passi notissimi, e Dante si sia poi limitato ad avallare il documento già predisposto.

 

Ma mentre per l’arenga del 1306 esistono elementi a favore di un intervento dantesco, nel caso dell’epistola del 1312, se si escludono le ridottissime coincidenze linguistico-grammaticali sopra indicate, non si registrano ulteriori tratti che possano avallare un’autorialità così impegnativa. A dire il vero, Pellegrini, oltre ad alcune considerazioni piuttosto generiche sull’importanza della “tranquillitas” e della “pax” nel pensiero e negli scritti di Dante (quasi che si trattasse di una sua prerogativa), aggiunge un tassello che, se confermato, risulterebbe interessante:

 

nella lettera di Cangrande, i malvagi responsabili delle discordie imperiali vengono definiti «vasa scelerum», sintagma che non ha sostanziale riscontro nella latinità medievale indicizzata ma che non può non richiamare il «vasel d’ogni froda» affibbiato a frate Gomita in Inferno XXII.

 

Tuttavia, in un caso come questo un controllo accurato sarebbe stato subito di giovamento. Perché, a una prima verifica tramite le banche dati Brepols, emergono questi tre esempi:

 

Alexander Neckam, Suppletio defectuum, dist. 2, v. 531: “Fex mundi, scelerum uas, Babilone satir” (XII secolo).

 

Documenta Amalriciana, I: Iohannes de Sancto Victore, Sermo in festivitate omnium sanctorum, p. 51: “O infinita uecordia et abhominabilis presumptio: hominem adulterum, concubitorem masculorum, opertum flagitiis, uas scelerum omnium dicere Deum!” (1180-1252 ca.).

 

Petrus Blesensis [Pierre de Blois], Carmina, I, 4.2a: “uas Deo detestabile, / uas scelerum” (XII secolo).

 

Come si vede, il sintagma “vas scelerum” è attestato almeno dal XII secolo (e diffusissimi sono i sintagmi “vas sceleris” e “puteus vitiorum”), e in ogni caso si tratta di un’immagine di ascendenza biblica, reperibile pure in predicatori o scrittori dai toni profetici. Non si tratta invece di un tratto originariamente dantesco anzi, al contrario, è forse “vasel d’ogni froda” di Inf. XXII 82 un volgarizzamento ‘creativo’ del sintagma indicato, sebbene i commenti segnalino solo la congruenza di quell’immagine con Inf. II 28 (“Vas d’elezione”) e con i relativi riferimenti scritturali (specie Act. 9.15).

 

In conclusione, sulla base degli elementi sinora emersi non sussistono presupposti fondati per attribuire a Dante un intervento nella stesura dell’epistola di Cangrande a Enrico VII assegnabile al luglio-agosto 1312. Le ulteriori considerazioni in merito dovranno essere idonee a reperire nuove prove significative, o altrimenti si dovrà chiudere il dossier dell’intera questione.

 

Note

[1] Qui si citerà da “Quellen und Forschungen aus ital. Archiven und Bibliotheken”, XVIII, 1926, pp. 265 s. (trascrizione a cura di Fedor Schneider). Per le altre citazioni, quando non diversamente specificato, si fa riferimento alle banche dati Brepols online, in particolare ai Monumenta Germaniae Historica e alla Library of Latin Texts (versioni 2018).

[2] Emiliano Bertin, La pace di Castelnuovo Magra (6 ottobre 1306). Otto argomenti per la paternità dantesca, “Italia medioevale e umanistica”, XLVI, 2005, pp. 1-34. Per l’intero documento, si veda Codice diplomatico dantesco, a cura di Teresa De Robertis, Laura Regnicoli, Giuliano Milani, Stefano Zamponi, Roma Salerno Ed., 2016 (Necod, vol. VII.3), pp. 238-244.

[3] L’epistola del 1312 presenta alcuni tratti degni di attenzione. A titolo di esempio: l’uso di “genitrix” come elegante sostituto di “mater”, o di “artium alumpna” che rimanda a Statius, Theb., VI 375 “artis alumnus”; le dittologie “multiplic* et dilat*” e “tranquillitas et pax”, che peraltro risultano largamente attestate; “in puteum cadunt vitiorum” è invece un sintagma presente in S. Antonio da Padova, sermone Dominica XVII post Trinitatem; un buon numero di attestazioni si registra anche per “imperatoria celsitudo”, “grassantibus inimicis”, “conquassatis capitibus”, ecc. Si tratta di materiali che denotano una buona dimestichezza con un lessico letterario o comunque colto (con punte espressiviste), ma sempre senza corrispondenze stringenti con testi danteschi.

 

[Immagine: Bronzino, Ritratto allegorico di Dante].

2 thoughts on “Una nuova epistola di Dante? Ovvero: fare filologia al tempo delle fake news

  1. Mi è stato segnalato che, per difetti nella trascrizione da sistemi informatici diversi, sono presenti alcuni banali refusi nel testo della presunta lettera dantesca (p.e. ilio invece di illo, quoruiidam invece di quorundam, buius invece di huius, ecc.). Mi scuso per l’inconveniente, che comunque non invalida in alcun modo l’argomentazione.

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