di Weldon Kees (nella versione di Damiano Abeni)

[Il 18 luglio 1955, Weldon Kees (nato nel 1914),  poeta, narratore, pittore, critico d’arte, jazzista, compositore e autore di testi musicali, fotografo, saggista e conduttore radiofonico, parcheggiò la sua Plymouth Savoy non distante dall’imboccatura nord del Golden Gate Bridge a San Francisco. Lasciò le chiavi in macchina e scomparve per sempre. Oggi è un autore di culto, un classico della poesia americana del Novecento. Nel 2005, a cinquant’anni dalla scomparsa, il «New Yorker» gli ha dedicato un profilo. Le sue poesie si possono leggere su molti siti letterari americani (poemhunter, poetryfoundation, poets, ecc.). Presento un’antologia italiana dei suoi testi, purtroppo senza testo inglese, per questioni legate al diritto d’autore]

POESIA INVECE DI UNA LETTERA

Afferrando il nulla in un turbine di foglie
qui in questo paese dalla faccia di fumo, in rovina,
ti penso al di là del continente,
che metti alla prova il sorriso maturato in catastrofe
e splendidamente pronta adesso per la morte.

La promessa frusta del nostro lascito
è abitudine adesso; quell’altro anno s’è fatto inverno
mentre contemplavamo i frammenti di un mondo
che cadeva sfatto come un bouquet malato,
mancandone l’odore, anche se il nome dato al tempo
fu sufficiente. Conosciamo quell’odore adesso,
credo, bene fin dove è sicuro conoscerlo.
E persino mentre sono sulle scale augurandoti fortuna,
riempie i portici e le strade, mentre questo vento rancido
soffia per le tue stanze sfitte.

Che venti più rancidi possano soffiare non si può dire,
né indovinare. Quello di stasera soffia nella testa,
e ogni sillaba è falsa, secca.
Buonanotte, buonanotte. Agli sconosciuti, a una strada vuota.

*

RAGAZZA A MEZZANOTTE

Poi cammina avanti e indietro, o rigirati nel letto
mentre i proiettili, freddi, ciechi, sibilano a ritroso dal centro del bersaglio,
e di’: “Non rifarò quel sogno. Non sognerò
sussurri da tempo consumati che svaniscono per i corridoi
che attraversano palazzi che non ho mai conosciuto;
lo schiocco dei guanti di gomma; il bimbo alto, cieco,
che grida il mio nome; le lenzuola macchiate
di un’altra ragazza. E poi una campana cupa,
che risuona dentro le ombre al freddo,
disturba lo schermo che è la mia testa nel sonno.

—Il tuo volto non è mai sereno. Rimani sempre
su soglie carbone, al buio. Parte del tuo volto
è scomparso. Dici ‘Solo farla finita con questo accidenti di mondo.
Nebbie contagiose calano. Cristo, potremmo morire
come a volte fanno i cervi, le corna impigliate,
marcendo nella neve’.
……………………………….E io non posso mai parlare.
Ma ti ho mai detto la verità?
Non me la sono cercata; una nuova malattia si fa strada.
Voglio le tue labbra sulle mie labbra, la tua bocca
sui miei seni, ancora, ancora, ancora, ancora;
voglio il mattino ricolmo di sole.

Ma devo sognare ancora una volta le città bruciate,
legno consunto, e silenzio lungo i moli.
L’amore è la camera di un malato dal tetto mezzo sfatto
dove le notti cadono in pioggia ininterrotta.
Cuore, cuore. Io non vivo. La menzogna di pace
riecheggia senza scopo; gli orologi sono morti.
Ciò che abbiamo avuto non lo riavremo mai”.

*

IL CLUB DEL CRIMINE  

Nessun maggiordomo né fantesca, niente sangue sulle scale.
Nessuna zia lunatica, né giardiniere, o amico di famiglia
sorridenti tra bric-a-brac e assassinio.
Solo una villa con la porta spalancata
e un cane che abbaia a uno scoiattolo, e le auto
che passano. Il cadavere parecchio morto. La moglie in Florida.

Esamina gli indizi: lo schiacciapatate in un vaso,
la foto strappata della squadra di Basket della Wesleyan,
sparpagliata con delle ricevute di assegni nell’ingresso;
una lettera d’ammiratore mai spedita a Shirley Temple,
il distintivo di Hoover sul bavero del trapassato,
il biglietto: “Essere ucciso così mi va benone”.

Non c’è da sorprendersi allora che il caso sia irrisolto,
o che il detective, Le Roux, sia adesso un pazzo incurabile,
e sieda da solo col suo camice bianco in una camera bianca
e urli che il mondo intero è pazzo, che gli indizi
non portano da nessuna parte, o a pareti tanto alte
che non se ne vede la sommità; che urli della guerra
tutto il giorno, urli che niente può essere risolto.

*

XANTHA STREET

Chiudo gli occhi e non vedo altro che pioggia
e bocche livide allineate alle posate.
Ma le stanze sono vuote come la campagna adesso:
gli angeli ascendono al Cielo splendidamente
a pagina 289, eppure continua a scendere la sera.

Miseramente fissa su un Grand Guignol di ottavo rango
in cui ogni agonista proclama la sua purezza,
la vista si acuisce nello specchio:
il clima dell’omicidio suscita nuove erbe,
e i vicini sciancati sfoggiano smorfie divergenti
mai viste prima da nessuno.—Inchiodato in una scatola,
inchiodato in una penna, inchiodato in una stanza
che una volta ti racchiudeva con amore, scrivi:
“Chiuso. Basta. Fine”, e metti la firma,
delirante, ma orgoglioso del tuo scrivere. Fuori ululano belve;
le autorità, però, tengono sgombri i marciapiedi.

E’ a loro che ogni faccia si volge,
loro che stabilizzano le stanze che questo terremoto scuote,
disegnandone un qualche futuro, indistinto, già consunto.
Queste nostre stanze sono le più scosse.
Freddo nel cuore e più freddo nella testa,
strizziamo gli occhi in stanze oscurate
verso uscite che sono svanite.

*

LA DEPOSIZIONE DI JAMES APTHORP

1.
Un muro. Una sedia. Un letto. Uno chiffonier.
Il ghiaccio riempie gli spazi vuoti della strada.
Non ancora con silicio e cinabro
verrò guarito. Non ancora—i capelli
raschiati, barbuto, fino al cranio—
con prezzemolo macedone. (Il farmacista
si trascinava verso di me con il camice sporco. Non m’è piaciuta
la sua smorfia, come ha disposto vasellina
e aspergo. “Non ce l’abbiamo”, ha detto. Un vasetto c’era
tra le retine dei capelli). Adesso sento il ghiaccio
che riempie gli spazi vuoti, congelati. Semi anneriti
cadono dalle peonie; e ancora una volta
i cardini del cuore si aprono cigolando su
una stagione che ha echi di iniquità,
prevedibile, e adesso quasi gradita. L’autunno
è arrivato, e poi un inverno. Ho abbracciato il muro
lungo il lago. Sotto il sole di gelo,
dove una volta la mia gola, così come l’estate, ha sanguinato,
ho tracciato il tuo nome in un ghiaccio più profondo,
i capelli raschiati, barbuto, fino al cranio.

2.
Era una stanza come le altre. Sul davanzale,
un rododendro in vaso. In seppia,
incorniciata al muro, una fotografia
di Reims, in cui camminano figure,
o paiono camminare, alla luce dei lampioni. Addormentandomi,
verso il crepuscolo, mi svegliavo a guardarli camminare,
a testa in giù. E anch’io continuavo a camminare.
Sulle setarie e il catrame che essiccava,
erba stenta e malerbe brunastre, le travi in secca
e i tronchi sulla spiaggia… Un letto. Una lampada.
Un muro. Una sedia. Uno chiffonier. Adesso,
in lontananza, colline, dove non cammina nessuno.
Gli spazi vuoti si riempiono di ghiaccio.
Penso a come si arrampicavano i pigmei,
scivolando nella sabbia, poi ancora arrampicandosi,
cadendo, e a come le nuvole
si radunavano nella calura. Solevo vederle,
appena dietro agli occhi, prima
che calasse il crepuscolo, e con esso, al solito,
le luci l’accompagnano, e una specie di sonno.

3.
Uno di loro discendeva a galla la corrente tutta notte al gelo,
dopo il lungo salto dal ponte; un altro, sanguinante,
moriva in un fosso vicino al Randall Creek, diceva il giornale—
Una bambina di otto anni, col cancro, malata
per mesi e da poco spruzzata di neve.
Ci andavo a camminare. Adesso gli spazi vuoti
si riempiono di ghiaccio, e si spaccano. Hanno trovato
la sorella maggiore che si provava i suoi vestiti a casa; la madre
in un bar di Xantha Street. Aveva un’ascia.—Io ho abbracciato
il muro lungo il lago. Il catrame s’era essiccato. Lui si muoveva dietro il bancone.
verso di me, con il camice sporco. Discendono tutti la corrente adesso.
—e poi viene il gelo e l’orlo delle cose è immobile.

4.
Non potevo avere intenzione di uccidere
un farmacista nel negozio. Ma i semi,
neri e prevedibili, cadono dalle peonie
e ticchettano sul parquet, come perline. Erba stenta
cresce nelle crepe. Quella non è Reims. Reims va a pezzi.
Perché non la smettono tutti e te la raccontano giusta
e ammettono che non possono guarire niente? Quei santuari
dove gli storpi buttano cinti e bastoni—
buttateci anche me, in cima alle stampelle,
lasciatemi morire. Non silicio né cinabro,
non prezzemolo macedone. Non volevo uccidere
il farmacista nel negozio. Ho sentito il ghiaccio
spaccarsi mentre Reims cadeva. Un muro.
Una sedia. Uno chiffonier.—Gli ho sfondato la testa
con un vaso di crema per i foruncoli. Faceva ancora una smorfia
mentre cadeva. Così tante retine per capelli, tutti quei balsami,
e come solevano salire, e noi non possiamo nemmeno salire,
cadendo, giù a valle, spinti contro le travi,
schiacciati sulla setaria e il catrame, urliamo,
urliamo e camminiamo, a testa in giù,
mentre il ghiaccio riempie il mondo.

*

RITORNO DELLO SPETTRO

Nessun addio improvviso, bontà vostra,
stavolta, vecchio spettro, da tanto espatriato.   Amico di questa casa,
riscalda tutta la tua evanescenza a questo fuoco
che ci brucia entrambi per notti finite.
Per tutti gli anni del mio germinare, tu, infaticabile,
hai ossessionato la polvere della soffitta, l’oscurità della cantina,
gemendo nel sottoscala, facendo cigolare le porte.
I giorni marciavano con le tue continuità.

E adesso cominciano le notti. La tua assenza partorisce
un più protratto silenzio nelle stanze. Noi infestiamo noi stessi.
C’è una persiana che sbatte nella mente,
ragnatele antiche che veleggiano dietro agli occhi,
un lamentarsi nel cuore che ammonisce insistente.
—vecchio spettro, amico di questa casa, resta!
Cosa c’è là adesso a spronarci verso
il passato, le nostre devastanti nostalgie?

*

LA STANZA DI SOPRA

Doveva essere marzo che il tappeto consunto s’è bucato.
Adesso il giorno passa e io fisso
le assi di pino deformate che furono inchiodate dal padre di mio padre,
le venature scompaginate. Esposte, dove il vuoto lo concede,
le tarlature di ottant’anni; scarpe di quattro generazioni
scalpicciano e raschiano e cadono
sul pavimento macchiato da mio padre,
sangue fresco gli sgorgava dalla testa. Il fiato
dei fuochi autunnali e un secolo di sigari, il fumo
magnanimo e brutale di quella pistola, resistono.
A marzo il tappeto era lacero come il passato. La sua trama
marcisce come le vite a cui ci attacchiamo. Adesso è agosto,
e il pavimento è vuoto, assolutamente levigato,
e, finché io sarò vivo, immarcescibile.

*

LA CLINICA
A Gregory Bateson

Luce nella gabbia come lamina incendiata
a mezzogiorno; e io vengo preso
con tutte le altre bestie che gemono
e ballano e sputano, sferzano la coda
quando i dottori attaccano la corrente.
Il soffitto frigge. Onde baluginano dal pavimento
dove l’inferno si spande sottile fra le sbarre.
E poi un interruttore scatta ed è finita
fino al giorno dopo. Chiudi, Va a casa.
Cloruro di calcio, un milligrammo
più o meno, ficcato con un ago nel cervello, vicino
all’infundibulo. A volte dormiamo settimane.
…………………………………………………………..Relazione
del dottor Edwards: sedici esami (cinque donne, quattordici uomini).
Risultati lontani dall’essere positivi. Atassia statica,
pressione arteriosa, riflessi, acuità visiva. Una certa signora Wax
incapace di ricordare un lungo viaggio su una Chevrolet
dal New Jersey a casa sua a Forest Hills. Spossatezza
riferita da alcuni. Queste notti fumose
sento gli occhi secchi e incartavetrati, sono stanco
dopo venti ore insonni. L’efficienza
è sotto i tacchi.—Le luci
hanno sfarfallato e si sono spente.
C’è un rumore come l’inverno per le strade.
……………………………………………………….Vide Master,
Muzie, Brown e Parker sul cuore ipoplastico.
Culpin ha sottolineato la rilevanza dell’origine psicogena. Da Costa
ha escluso l’ipotesi sifilide. Se seguiamo Raines e Kolb,
seguiamo Raines e Kolb—E’ solo una specie di ferita
rimediata in chissà che guerra, che si apre di tanto in tanto.
Segni di essiccamento, ma pochissimo dolore.

Ho seguito Raines e Kolb, in quel buio percorso a ritroso,
cercando un indizio; eppure in quella tenebra, a malapena una goccia
del mio sangue non è rabbrividita. Bocche senza mani,
occhi senza luce, la lingua secca, intollerabile
sete. E poi siamo entrati in quella stanza
dove una marea di bestie ballava, sputava e urlava
su una piastra incandescente.—E mi trovai a casa.

*

L’OSCURITÀ

L’ho vista a lungo nell’albero
verde ormai,
nelle forme sui marciapiedi, unte

e festonate di pioggia, e dove
mani hanno toccato porte.
Su tetti e strade,

su faccia che passa dopo faccia
l’ho vista espandersi,
al limite del cielo a mezzogiorno

finché non macchia le erbacce
morte in chissà quale luogo deserto
e satura il sole

—come se qualcuno avesse tirato la cordicella,
in una casa estranea,
di una luce fioca, che s’oscura.

*

PRIMO ANNIVERSARIO

Dopo la tua morte, estranei del paese
hanno spinto il legno nero che indossavi
alla grande finestra. E’ stato allora che
le pareti, il soffitto, e il pavimento
sono cresciuti. La stanza era mostruosa, ingigantita.

Tutto quel lungo pomeriggio, l’unica cosa condivisibile
fu lo spazio. L’unica cosa che abbiamo conosciuto
da allora è paura. Di nuovo
le ruote girano e la scatola foderata di seta è sparita.
La stanza è miniaturizzata, immutabile e nuda.

*

PER DUE ANNI

Questo nulla che si nutre di se stesso:
matite che si mutano in acqua nella mano,
frammenti di frase, sospesi a mezz’aria,
pensieri in schegge nella testa come vetro,
fogli spogli che riflettono il mondo
sbiancato, il mondo che mi ha ammutolito.

E’ stato così per due anni. Pian piano,
tutto ciò che si fende, disgrega, taglia, spacca, scioglie o divide
per portarmi a quella dose di corrosione, è bruciato
consumandosi in barlumi fino alla fine.—Ora in una calligrafia
più vecchia scrivo il mio nome. Ora con voce fattasi estranea
parlo ai silenzi di stanze alterate,
scosso dalla coscienza di reiterazione e ritorno.

6 thoughts on “Questo nulla che si nutre di se stesso

  1. non lo conoscevo minimamente. una bellissima scoperta. speriamo presto in un volume il più possibile esauriente di quest’opera poetica. e magari, appianando i problemi legali, con testo a fronte.

  2. Sì, una bellissima scoperta. Neppure io conoscevo questo poeta e queste poesie. Un grazie a Damiano Abeni.

  3. Neanche io conoscevo questo poeta che mi sembra porti con sè tutta la vitalità della poesia americana della metà del secolo scorso, ma con una connotazione un po’ notturna, un po’ onirica. Mi piacerebbe davvero poter leggere le poesie con il testo a fronte. Non so se commetto un errore nell’affermare che questi versi mi ricordano, per certi aspetti, anche alcuni testi di Milo De Angelis: che cosa ne pensa il traduttore?

  4. La scrittura di questo grande mi ricorda molto lo stile beat: essenziale, puzza di fumo, di vuoti bicchieri di gin, di sudate canottiere, di macchine rotte e sbrecciate. In fondo.

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