di Nicoletta Vallorani

 

Pensare obliquo, rubrica a cura di Nicoletta Vallorani

 

Orunmila compare a intermittenza negli scritti di Wole Soyinka. È, per esempio, il filo conduttore del “Prologo tratto da Il primo esilio”, una riflessione in prosa, ma di tono poetico, collocata all’inizio del bel testo ibrido, di parole e immagini, bilingue e afro-italiano, curato da Alessandra Di Maio per 66TH A2ND. Il volume si chiama Migrazioni/Migrations e ha a che fare con l’esilio. Dunque non è così strano che, per innescare la riflessione sulla migrazione – che è viaggio di esuli incastrati nella terra di mezzo della non appartenenza – Soyinka citi il dio vagabondo, quello di cui si dice che siano proprio i viaggi e le capacità di spostamento a determinare la profonda conoscenza dello spirito umano. È, questa, una prospettiva diversa sullo spostamento territoriale. Essa non racconta la privazione, ma piuttosto l’arricchimento, l’acquisizione di un orizzonte più ampio, la circostanza per cui chi viaggia si costruisce nel tempo una competenza esperienziale che insegna cose sulla natura degli individui e della comunità.

 

Orunmila, scrive sempre Soyinka, sa che, se si aggirerà con vesti stracciate in cerca di rifugio, le probabilità di accoglienza saranno maggiori nei quartieri più poveri e da parte degli emarginati. Quelli che sono già in esilio in casa loro sono in grado di comprendere il dolore degli altri. Sanno di che cosa si parla quando si chiede rifugio. Le leggi diventano, in una certa misura, irrilevanti in una circostanza di necessità. Si salva chi sta affogando, comunque sia. E se ha rischiato ogni cosa per affrontare quel viaggio, non lo si rimanda indietro, nella prigione da cui arriva, che peraltro non è casa sua.

 

Solo andata è un video realizzato da Alessandro Gassman, su una poesia di Erri de Luca per la musica del Canzoniere Grecanico Salentino. Finanziata dalla Apulia Film Commission, la clip racconta di un vecchio salentino che, in piedi su una spiaggia deserta, grigia dei colori dell’inverno, pesca e ripensa all’esilio di sua madre, che quel mare ha attraversato in cerca di un destino più provvido. Perso nei ricordi, il pescatore intravvede migranti che stanno affogando e si butta in acqua a salvarli. L’ultima donna portata a riva si alza e si incammina sulla spiaggia, e voltandosi rivela al pescatore il volto di sua madre.

 

È un testo semplice e diretto, questo video. Funziona, perché ricorda che siamo fatti della nostra storia, e che a dimenticarla, o a non averla studiata abbastanza, si perde la capacità di dare significato a quel che accade. Si vede solo il presente e si crede a chi urla combinando frasi fatte e sviluppando le sue argomentazioni lungo la superficie invece che in profondità. Bisogna studiarla, la storia. Non fermarsi a metà. Non chiudersi. Altrimenti la terra che occupiamo diventa sterile.

 

È come dice Erri De Luca alla fine del video: “La terra ferma Italia è terra chiusa”. Un suolo senza diritti

 

In Migrazioni/Migrations, è incluso anche un testo firmato da Chris Abani. Esule nigeriano che è anche poeta e narratore prodigioso, Abani disegna una cartografia – la medesima che dà un titolo ai suoi versi – orientata dalla convinzione che “There is no native land/non c’è terra natale”. “Cartography/Cartografie” raduna testi erratici come il suo autore. Attraverso quei versi, Abani recita le parole intermedie di chi è sempre nel mezzo di un viaggio e come Orunmila cerca di imparare la grammatica delle comunità nelle quali provvisoriamente si ferma: “Siamo sempre su un binario/in attesa di un treno che quasi mai arriva”. L’appartenenza si sfarina, non sa più a cosa allacciarsi, ricapitola un rosario di ragioni per ricomporsi nel tessuto di una comunità e alla fine si rassegna a quelle solo simboliche, pericolosissime perché nel tempo perdono concretezza, si divaricano dai fatti. L’esistenza di dio, come quella della nazione, non ha bisogno di essere dimostrata. È una fede.

 

Quindi.

 

Religione. Identità nazionale. Sovranità. Purezza etnica. Difesa dei confini. Questa teoria di principi regola oggi il nostro vivere (in)civile. Idealmente, e per chi resta umano, “Il miracolo vero è che l’amore succede ogni volta/ Se c’è una terra natale è questa la sua geografia”.

 

“Ius soli” è espressione che arriva dal latino, una delle lingue originarie del Mediterraneo (solo una, non la principale). Etimologicamente traducibile come “diritto al suolo”, la definizione appartiene a un codice politico e amministrativo e identifica immediatamente una gamma di discorsi complicati, nei quali questo mantra viene spesso usato a sproposito. Nel tempo delle migrazioni, in Europa, lo “ius soli” identifica la discussione sulle modalità di acquisizione della cittadinanza per chi arriva da un paese straniero.

 

Appunto: per chi arriva da un paese straniero.

 

In Francia, ogni bambino nato sul territorio nazionale da genitori stranieri diventa francese al compimento del diciottesimo anno d’età purché abbia vissuto nel paese per almeno 5 anni. In Germania, è cittadino tedesco chiunque vi nasca, anche da genitori stranieri, se uno dei genitori risiede regolarmente nel paese da almeno 8 anni. Con lievi differenze, mi pare che la maggior parte dei paesi europei segua una normativa di questo tipo.

 

La questione della “terra natale” diventa, a tutti gli effetti, centrale nelle normative attuali. Essa viene invocata con orgoglio da chi rivendica appunto un diritto di nascita che simbolicamente conferma la propria cultura, religione, etica e quant’altro: sono italiano, cattolico, maschio; amo la mia patria, la mia famiglia (spesso allargata a comprendere diverse donne) e i miei figli (con qualche confusione di maternità). Sono nato qui e sono bianco, e questo mi rende proprietario di questa terra e di questa aria.

 

Nessuno può respirare dove respiro io.

 

In questa cornice, è evidente che la circostanza di un figlio nato in una nazione diversa da quella dei suoi genitori solleva un problema, oltre a dimostrare che in materia di confini, terra da calpestare e aria da respirare bisogna immaginarsi nuove regole, se non vogliamo simbolicamente morire di stenti.

 

Se chiedi a un ragazzo egiziano nato in Italia se ha nostalgia del suo paese, è legittimo che lui ti risponda: “Io sono nel mio paese. Sono nato qui”.

 

Nella Tempesta di Shakespeare, giusto all’inizio del ‘600, Calibano è l’incarnazione dell’ignoto e del selvaggio immaginata come tale in un’epoca precedente all’espansione imperialista della monarchia britannica. È l’altro assoluto e inimmaginabile, quello che agli occhi occidentali appare un “abominevole mostro” impossibile da collocare. Nella scala dei viventi non trova un suo posto. In linea di principio e come lui stesso sostiene, Calibano è in origine il padrone dell’isola, espropriato del suo diritto dai naufraghi in cerca di rifugio (Prospero e Miranda) e che ora rivendica la sua proprietà. Da Miranda, ha imparato a parlare, e questa capacità dovrebbe coincidere con un passo avanti in termini di maturità e coscienza di sé. Di ciò che ha appreso, tuttavia Calibano fa un uso sconsiderato: “Mi avete insegnato a parlare, e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire”. In altri termini, a Calibano è stata fornita la parola – e il diritto di esercitarla – e lui la userà come un’arma contro chi gliel’ha insegnata.

 

Qui e ora, in Italia, abbiamo la storia di un ragazzino qualunque, che risolve una situazione di emergenza evitando che essa si trasformi in una strage. Lo fa con naturalezza e, come certe volte fanno i ragazzi, senza riflettere troppo sui rischi. Con molta generosità, sua e dei suoi amici, e anche con un pizzico di fortuna, risolve un brutto guaio, determinando l’intervento risolutivo delle forze dell’ordine. Questo ragazzino è nato in Italia da genitori stranieri e ha un nome insolito, come insoliti sono i nomi di alcuni suoi amici. La cosa in sé non dimostra nulla: ne conosco di persone con nomi bizzarri – tipo Sciana, che è di Cernusco sul Naviglio, o Brando, che è figlio di due appassionati di cinema, o Acheropita, che è calabrese, o Alessandro Mahmood, che è di Gratosoglio. Questo ragazzino, senza girarci intorno, dice che avere la cittadinanza italiana è il suo sogno, e che sarebbe contento di condividerla con i suoi compagni che, come lui, sono nati qui. Tutti camminano su questo suolo da quando sono nati, ma non hanno il diritto di chiedere legalmente il diritto di esserci.

 

Ecco. Di fronte a lui c’è un adulto (solo adulto, senza entrare in dettagli istituzionali) che esercita il suo potere (ovvero la parola politica, e l’autorità – l’autorevolezza qui non c’entra – che essa comporta) e risponde: «Vorrebbe avere lo ius soli? È una scelta che potrà fare quando verrà eletto parlamentare».

 

Poi la comunità si stringe, e questo cambia qualcosa. Calibano, il nostro Calibano bianco e maschio, che ha imparato i trucchi del linguaggio e sa come usarli, dice che no, stava scherzando. Al piccolo eroe, una sorta di rediviva piccola vedetta lombarda, va dato un premio, l’orsacchiotto di una cittadinanza regalata perché “ha dimostrato di aver capito i valori di questo paese”. Si è fatto bianco, cioè, anche lui, comportandosi come un “bravo italiano” – che è un concetto del tutto teorico: siamo bravi o banditi indipendentemente dall’etnia. Indossando una paternità surrettizia, l’adulto di cui sopra dimentica quel che ha detto e da padre buono elargisce un dono. Ma la cosa davvero triste, infinitamente triste, è che viene attribuito un premio dove ci starebbe un riconoscimento di legge, uno ius soli. E come tutti i premi, esso viene declamato in mondovisione: stiamo a vedere se diventa realtà.

 

Bravo Calibano: i trucchi del linguaggio, in effetti, li hai imparati tutti.

 

Pensare obliquo, rubrica a cura di Nicoletta Vallorani

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1. Indossare le parole, 25.2.2019

 

[Immagine: Rami].

 

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