di Matteo Meschiari
Composto oralmente e poi trascritto, Finisterre è un poema epico di oltre 2000 versi che racconta la storia del pianeta, dai gas interstellari alla fine dell’umanità. Ispirato al pensiero naturale dei Presocratici e di Lucrezio, all’epica babilonese, celtica e germanica, al poema narrativo contemporaneo (Queneau, Walcott, White, Gaspar, Liscano, Heaney), propone una versione laica di genesi, esodo e apocalisse. Scritto in prima persona, mette in scena le memorie di un osservatore disincarnato, un io sapienziale che attraversa i luoghi e le epoche, un gruppo nomade nei paesaggi del pleistocene, una ragazza sopravvissuta che raccoglie racconti. Per anni parti del poema hanno circolato in forma esclusivamente orale, ad esempio nelle interpretazioni di Sista Bramini e Lorenza Zambon, e in alcuni contesti di poesia come il Festival della Poesia di Paesaggio di Pisogne. È pensato per essere letto a voce alta.
(Matteo Meschiari)
I
ATOMI
1
Da qui – dai paesaggi basici dove risacca marea
erosione rumore mi possono dire di sé
solo un movimento sincopato polmonare
acqua-pietra acqua-pietra e nient’altro
solo questo con l’intuizione in me di un albero
di ritmi – arborescenza di nudo minerale
minerale denso minerale liquido che penetra
l’uno l’altro l’altro l’uno nelle strutture in calmo disfacimento
nel rosso-blu a intrecci di crescita e dissipazione
da qui – guardando ascoltando – il mio epilogo biologico
è già stato non è mi lascia più leggero mi porta oltre
meno colpevole quasi delle crude distorsioni
della specie. Respiro. Ma non ho polmoni
mai più – sono corpo senza organi aderisco alla materia
a questa costa – come la costa aderisce a se stessa
nel suo vuoto-pieno solo spazio solo tempo.
E da qui da me a me dico la vita la terra la mia vita la sua
come un unico battito d’ala largo notturno
sui lontani brillamenti di un’alba increata.
Dico la terra – tutta – dal suo inizio alla mia fine
nella potenza ottusa del movimento nel lieve
ingurgitarsi in polle di non-essere – e nel muschio.
Attaccato fino a esserne cieco alla sua trama ossidata
conosco la sua storia senza storia il suo scambio
di fluidi e vedo dove non c’è da vedere
quel suo allungarsi lento nei letti di arenaria.
Cieco. Ma con le dita della mente nei recessi d’erba.
2.
La terra. Dissolvere in lei quel grumo
di tristezza strana l’assillo del tempo
dissolverlo negli oceani di spazio
la salsedine la neve caduta di fresco
come unici indizi di libertà – il caos sensibile
rivoluzione vera di una colonia di muschi.
E andarsene. Fuori. Per sempre.
Suicidare il troppo umano nella terra
fare vuoto nei vuoti della scogliera
in tutti i boschi di crepacci qui e alla fine.
Pensare attraverso la terra – tutto
tutto il pensiero in lei come immerso
da prima in un doppio fluire di materia
materia natura delle cose – quella spessa
quella sottile – colore per dita di dentro.
La terra. Il non-canto della sua distruzione
del suo annidarsi nell’estremo lichene
dopo un ultimo fiotto di poca – poca intelligenza.
E invece un’azione senza memoria – il bisogno
di una visione larga profonda di guardare lontano
toccare tutte le parti scendere in se stessi
fino ai fondali dell’oceano per ritrovare il primo batterio
le faglie grumose le tracce molli di lava
gioia di fonti integre per una specie stordita.
Una ricerca anche nei che verso l’unico che
che il terreno sia complessità della mente
che l’equilibrio un franare in salita
che la luce che la pietra sintassi parole
che i muscoli siano cervello che il cervello gesti
e la catena dei corpi canto fluidi – la terra.
Io sono il suo embrione di amore qualunque
sento il cigno che muore e la tigre
che unge con il pelo le ringhiere di prigionia.
Non ho coda ma nell’acqua di una donna
l’avevo – vertebra di celacanto
iguana artigliata alla lava – arriva l’ondata
chiudo riapro la membrana dell’occhio
e guardo un non-punto nell’acqua – liberato.
E allora addio – davvero – davvero per sempre.
È tempo di ascoltare – perché ancora
ancora per poco spremerà il suo graspo
di cose nell’erba – udibile alla specie
che spegne cigni tigri nella sua nausea di noia.
È tempo di bere – perché la sala del vino
è deserta e la notte – fuori – si abbuia sulle teste.
3.
Tutto il vino dell’aperto era in me
anche se l’erba non c’era – erba in nessun luogo.
E il nulla era atmosfera senza ossigeno e sul palmo
inesistente condensate erano croste di brina e tephra
e lineamenti di scorie. Nei crepacci marginali
pendenza del tempo – le tracce di ogni vero discorso
unica interna energia di metamorfosi e rarefazione
operavano nella faglia alla radice della lingua.
È così che ho visto il non visto che dico il non detto
di ghiaccio – prima che lapilli di consonanti
e vocali da sud cadute sul suo arcuato pendio
cominciassero a far scorrere ciò che scorre.
Sull’ordito di neve sui talloni freddi dei piegamenti
di non-gneiss passarono rigagnoli torbidi
sopra l’azzurro – e il grande solco vivificato
nel mormorio generò a fiotti la propria sterilità.
L’acido escluse i brillamenti di vita e l’onda
prese a battere morta le coste di assenza
non-oceano non-prato digradante ma catrame
a rami di fiumi nella notte uguale.
Devo dirlo – tutto – quando non dire era tutto?
Tutto quel non essere parola e nulla e erba
in nessun luogo? Ma più potente ancora
quel primo suono quel mormorio su lande
non sabbiose sulla sintassi umida quel primo
gocciolare di sillabe – la duplice creazione
nello stesso calco un socchiudersi d’occhio di felino.
Tutti i giganti di crescita e dissipazione allora
si fecero materia greggia per fare morte al linguaggio
ed essere altro. E Mormorio-dalla-barba-di-scorie
lui – erose fregando limando le aule dell’uomo
spingendo me così lontano dal recinto-di-mezzo
verso nebbie a nord e deserti a meridione.
E potevo non dare vita a quel vecchio? Al suo mormorio?
Dall’uomo alla terra dalla carne al terreno
dai pensieri ritorti alle nuvole dell’aria.
Ho preso il grumo vischioso – umano troppo umano
e gli ho reso la mia parola – lontano – oh quanto
dalla stabilità rovinosa dei corpi.
4.
Gigante. Vecchio. È solo un modo di dire – come chi disse
che dalle spesse sopracciglia di Ymir gemmarono foreste.
Oppure un fiume largo nella piena d’inverno
che scorre con tutto se stesso sopra le cose
e non c’è niente che lo tiene e i pesci
nuotano adesso tra gli alberi o soffocano
nei panneggi di fango. Voli di corvi su tutto quanto
disturbati dai volumi strani che rituonano
quasi come mare. E quasi così la corrente di ciò che scorre
raschiava rapinava un alveo che non c’era
e gli altipiani profondi di tempo e spazio
li mescolava – e anche fili di non-erba argille vuote
le macchie le ombre senza forme senza luce
erano ancora da dire. Il flusso ocra chiazzato di gorghi
trasportava relitti – carne del mondo
a rapprendersi in roccia in tronchi di materia
non viva ma in moto lanciati in superficie.
5.
Volumi strani si scaldarono emersero allora
dalla nebulosa di origine si condensarono
in un’idea di sfera che irradiava calore di fuori
e la sua crosta – scoria di sopra – tremava
come pellicola sui ribollimenti del metallo.
Silicio alluminio sodio potassio magnesio calcio
erano già nei fluidi – loro che molto dopo
sarebbero stati l’argilla dei viventi
prima nel suolo dopo nella carne – suolo della carne.
6.
Quello che vedevo vedendomi nella corrente
erano fenomeni – solo quelli – distribuiti
sull’instabile superficie di un pianeta nuovo.
Ma i fenomeni erano i medesimi ovunque
e il freddo lontano di altre stelle lontane
era calore per i miei occhi senza nervi.
Guardando giù vedevo tutto il resto ogni astro
in lei nella terra – ogni possibile storia
e una sola intanto che scorreva determinandosi
unica e mai vista – alla fine – come la sola.
I suoi fenomeni – solo quelli – senza numero
o teoria – niente leggi – ma un accadere libero
e un libero stare a guardare. E più di questo.
Ero corrente sono il sodio e il potassio
sono il corrugamento laggiù subito riassorbito
la dissipazione del calore nel vuoto attorno
il tempo del fiotto fuso quello del nucleo
denso di evidenza per essere come è come era.
7.
Dal nucleo si alzavano tempeste fino alla superficie
troppo calde per essere montagne tranne nello spazio
tra salire e ricadere. Ma la pellicola di scoria
percorsa da fenditure accese da linee curve
da vibrazioni scivolata in se stessa su se stessa
più lenta però penetrata dal gelo di fuori
continuando a spezzarsi per le pressioni inferiori
più dura però accavallando lastre blocchi
accavallando frammenti ammassando tutto di sé
accettando infiltrazioni del magma prendendolo
spargendolo nei suoi solchi raffreddandolo
aprendosi però a fatica però piano così piano
infine si rapprese in larghe parti e lasciò sulla terra
banchise di basalti scricchiolava senza rumore
formò altre derive altre placche in colori diversi.
Il mare incandescente avviluppato di scorie
premeva da sotto le muoveva in correnti
ma le aree più spesse rimanevano e giri di detriti
scorrimenti solidi le avvolgevano nel tempo.
In quelle linee porose nei blocchi nelle polveri
in tutte le grane volatili scivolate nelle fessure
riconoscevo i modi di sempre delle pietre
e l’armonia dei metalli. La libertà necessaria
dei loro movimenti non era ancora disturbata
dall’acqua dall’erosione e le masse dell’atmosfera
non erano per la pioggia ma si insinuavano acide
a trasformare piano. Non altro. Nel palato
della mente sentivo la cenere secca spostarsi
cominciare migrazioni instabile asciugare – e le rocce
porfido ofiolite diorite rompevano la curva
e traboccavano nel pensiero con effusioni vetrose.
Le vie flottanti andavano percorse per ere
e solo il progressivo raffreddamento mi richiamò
dai noveri assorti – con altre forme del sogno
dicevano in me le veglie della materia. Tutto
nella pace minerale mi chiedeva adesione e silenzio
io saltavo acquietato lungo le linee dei contorni
cambiando il vuoto con il pieno il pieno con il vuoto
rovesciando la geologia in atmosfera l’atmosfera
in forme primitive di terra e la terra in idee
che potevano essere o non essere – ma erano l’adesso.
Le cavità i baratri i reticoli crepacciati erano norma
nulla di umano di regalato dalla storia – ma anarchia
da imparare a memoria per comprendere il dopo il prima.
Il vino dell’aperto era in me – e l’arrivo delle piogge
quando sostanze gassose si riebbero e caddero
quando l’atmosfera incandescente si scaricò dei metalli
quando la massa luminosa dell’aria precipitò
sulle lastre del pianeta quando e quando il vapore
d’acqua si condensò nel più spesso strato di nubi
e l’occhio vi si perse sentendolo allargare in sé
accrescersi dissolversi recedere e forme e linee
ingolfarsi in se stesse – quando il moto del minimo
dell’istantaneo si comunicò al tutto gassoso
per intere età e venne la pioggia con gocce mai arrivate
vapore – di nuovo vapore – e nuova pioggia finché cadde
finché arrivò quando la pioggia arrivò
allora tornai alla superficie del mio sogno di pietra
e ne uscii. E la pioggia cadeva dagli oceani di atmosfera
ormai cadeva senza tornare a mezz’aria vapore
cadeva su tutta la terra calda odorosa di polvere
ed entrava nelle fessure nei baratri nei reticoli di crepacci
riempiendo il vuoto di un pieno salmastro.
Corde di pioggia tempeste elettriche acido cloridrico
sul sodio delle rocce – l’acqua era calda salata.
Fumando scorreva sulla scorza di scorie dissolveva
sali alcalini – ancora acqua salata. Le correnti
le tempeste cominciarono a erodere le forme porose
le coste sbriciolate – ruscelli carichi di cenere
frammenti – fruscii fangosi – serie di sedimenti.
Tutto un movimento irrorato e inconcluso.
Matteo Meschiari (1968) saggista, romanziere, poeta, insegna all’Università di Palermo Antropologia e Geografia umana. È autore di Sistemi selvaggi (Sellerio 2008), Dino Campana (Liguori 2008), Terrasapiens (Sellerio 2010), Nati dalle colline (Liguori 2010), Spazi Uniti d’America (Quodlibet 2012), Uccidere spazi (Quodlibet 2013), Corps nu (Lacour-Ollé 2013, con Christian Petr), Geofanie (Aracne 2015), Antispazi (Pleistocity Press 2015), Tre montagne (Fusta 2015), Artico nero (Exòrma 2016), Geoanarchia (Armillaria 2017), Neghentopia (Exòrma 2017), Appenninica (Oèdipus 2017), Disabitare (Meltemi 2018), Nelle terre esterne (Mucchi 2018), Bambini (Armillaria 2018).
[Immagine: Foto di Sebastião Salgado].
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