di Laura Pugno
[Jacopo La Forgia (1990), fotografo e scrittore, ha da poco pubblicato il suo primo romanzo intitolato Materia. La fuga degli elementi, edito da effequ. Pubblichiamo un estratto del libro, preceduto da un’intervista realizzata da Laura Pugno].
“Materia” è ambientato in un mondo che mi ha ricordato un po’ “Il mondo senza di noi” del celebre saggio di Alan Weisman, ma anche l’appello al romanzo di Amitav Gosh ne “La grande cecità”, quando l’autore scrive che finora il romanzo sembra aver sostanzialmente eluso certi temi forti dei nostri tempi come il cambiamento climatico. Cosa mi dici al riguardo?
Trovo che i temi del cambiamento climatico, degli effetti dell’industrializzazione sull’ambiente, dell’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali debbano necessariamente trovare spazio nella letteratura, sia per la questione del realismo che per sensibilizzare sulle problematiche. D’altra parte, nel mio libro gli eventi ambientali che conducono alla fine della vita umana li ho lasciati sullo sfondo, in secondo piano. Sono la cornice della storia, non il loro centro. Vista l’esistenza di opere come quella di Weisman, infatti, credevo fosse superfluo, e pretenzioso, lavorare nella stessa direzione – ed è comunque il territorio della non-fiction quello più adatto per ambientare e descrivere nei dettagli gli effetti dei cambiamenti ambientali.
Ero più interessato a immaginare – e a rappresentare metaforicamente – lo sforzo colossale che è necessario per arrestare lo sfaldamento della realtà una volta che ci si è resi conto, in estremo ritardo, che il mondo sta per andare a rotoli. Il fatto che sia un personaggio femminile a mettere in atto questo sforzo, poi, non è casuale. Se il mondo è quello che è, è soprattutto per colpa degli uomini.
Di questo mondo in cui si svolge il romanzo, e che è e non è il nostro, tu tracci un’architettura che è un intreccio di storie. Comprendiamo in che ambiente ci troviamo mano a mano che queste storie si snodano e si rivelano davanti ai nostri occhi: volevi scrivere un romanzo di racconti, sia pure tutti tesi a un unico fine? Come hai scelto la tua architettura narrativa?
“Romanzo di racconti” è la definizione perfetta. Ogni episodio del libro ha un significato proprio e può essere teoricamente letto singolarmente, ma collocato accanto agli altri il suo senso si moltiplica e si amplia, formando con il resto delle storie un significato più profondo e più stratificato.
Tutto è partito da una serie d’immagini; la protagonista Elena mi è apparsa davanti molte volte, e ogni volta si trovava in luogo diverso; posti che ricordavano quelli che ho visitato e in cui ho vissuto. Turchia, Olanda, Australia, India, Ladakh. Ho scoperto, osservando attentamente quello che faceva, che tutte le sue azioni miravano a un unico fine, che è quello che rivelo nell’ultimo episodio del libro. Tra gli episodi della sua vita che mi apparivano, ho deciso di riportare, ovviamente, quelli che mi sembravano più interessanti. I raccordi tra un capitolo e l’altro sono naturali, perché racconto sì del macrotema della fine del mondo ma attraverso una vita sola, quella di Elena.
Per le atmosfere e i temi, vengono alla mente due autori: il Calvino de “Le città invisibili”, e il Buzzati de “Il deserto dei Tartari”. Ti ci ritrovi? Ne citeresti altri, italiani e non?
Citi due libri che ho amato molto. Delle “Città invisibili” ho posseduto quattro copie, perché continuavo a regalarle alle persone cui tenevo di più. Nel testo faccio vasto uso di frammenti, immagini, suggestioni e idee sia di narratori che di saggisti. Le presenze più evidenti sono: Bellow, per l’appunto Calvino, Dürrenmatt, Fenoglio, Murakami, Mari, Merleau-Ponty, Ōe, Tournier, VanderMeer, Vasta. Altri ancora potrei averli dimenticati o potrei averne fatto un uso inconsapevole. Credo molto nell’uso del “double coding”: se il testo si moltiplica con connessioni ad altri testi, ne guadagna in forza e incisività. Ogni riferimento ad altri romanzi o saggi ha un senso, nessuno è casuale.
La doppia codifica, o double coding, è un procedimento che troviamo nella letteratura di tutti i tempi, ma che ritroviamo in particolar modo nella narrativa postmoderna. Si tratta in un certo senso di “farcire” il romanzo con un secondo livello di lettura, ricco di rimandi ad altri testi e a teorie, che presuppongono un lettore capace di coglierli. Approfondiamo questo punto: parlami della tua idea di double coding, e della tua idea di lettore, il tuo lettore o lettrice ideale?
Per definire il double coding, seguo la lezione di Eco: consiste nell’organizzare il proprio testo con la finalità di renderlo acquisibile seguendo entrambe le modalità d’interpretazione, quella semantica e quella critico-estetica. L’interpretazione semantica o semiotica è il risultato del processo per cui il destinatario, di fronte alla manifestazione lineare del testo, la riempie di significato. L’interpretazione critica e semiotica è invece quella per cui si cerca di spiegare per quali ragioni strutturali il testo possa produrre quelle (o altre alternative) interpretazioni semantiche. Il double coding si riferisce specificamente alla dimensione intertestuale: per arrivare al livello di lettura critico bisogna cogliere il riferimento ad altri testi.
Cerco di organizzare i miei testi in modo che possano essere già fruibili a un livello meramente semantico, ma per afferrarne i sensi nascosti, riempirne gli spazi bianchi e illuminarne le oscurità è richiesta un’intensa attivazione cooperativa da parte del lettore. Il mio lettore ideale è quindi sia una ragazzina di tredici anni (come la figlia dell’editore, una delle prime ad aver letto la versione finale del libro) che, beh, tu.
C’è un interessante gioco tra prima e terza persona nel tuo romanzo, dato che la prima persona è affidata in prima battuta a un soggetto animale, l’elefante che pensa il mondo, vero regista occulto del romanzo, e solo alla fine di un passaggio di coscienza alla protagonista femminile, Elena. Volevi identificarti con questo soggetto? Scrivere in un certo senso la natura, o dalla parte della natura?
L’elefante che pensa il mondo si chiama Ben perché Ben Rushd è il nome ebreo di Averroè. Averroè è un filosofo andaluso del dodicesimo secolo che ha tradotto in arabo e commentato gran parte dell’opera di Aristotele. La sua idea più conosciuta, e studiata, è quella secondo la quale sia intelletto attivo che passivo sono, per farla breve, appannaggio del divino. Questo vuol dire, in parole povere, che Dio pensa il mondo attraverso l’uomo. Ora, nella realtà del mio romanzo l’uomo finisce per apparire come un errore nella creazione e non come il fine ultimo dell’esistenza della natura, e per questo motivo va “risolto”. Quindi sì, nel caso dell’elefante parlare di “identificazione con la natura” è giustissimo. Ho mirato piuttosto in alto, ma ho creduto che fosse il punto di vista migliore da cui descrivere la fine della vita umana.
Per quanto riguarda Elena, il discorso è diverso, e anche più personale. Ho sempre sentito in me una forte componente femminile e l’ho voluta esplorare, capire che cosa significasse. È un primo passo, ho una vita davanti, ma già comincio a vedere qualcosa. E poi, come ho già detto, sono fermamente convinto che siamo arrivati dove siamo arrivati soprattutto per colpa degli uomini. Solo le donne ci possono salvare.
Da donna, ti chiedo: non è però anche questo un modo di ridurre il femminile a un’astrazione, innalzandolo ora, laddove per tanti secoli è stato abbassato? Non è giunta l’ora che donne e uomini collaborino da pari? Lo credi possibile, anche se per ora non sta evidentemente ancora, del tutto, accadendo?
Hai ragione, sono stato troppo assertivo. Al di là della frase a effetto, sono assolutamente d’accordo sul fatto che gli uomini e le donne debbano collaborare da pari. Però, dal punto di vista narrativo, volevo un eroe (intendiamola in senso narratologico) singolo. E questo eroe mi è apparso donna. Se devo essere sincero, non ho mai sentito molto realistiche le narrazioni in cui a salvare il mondo è un maschio. Io in Matrix i ruoli di Neo e Trinity, per esempio, li avrei invertiti. Vado a sensazione: se in una situazione di emergenza c’è bisogno di un leader, io sento che è meglio una donna.
*
Materia. La fuga degli elementi
di Jacopo La Forgia
Interludio. Martino
È successo molto tempo fa, Elena aveva quindici anni. La costa era lontana, in acqua erano soli. Andrea non aveva buttato l’ancora, aveva detto che non serviva, che il mare era calmo. Martino teneva un occhio aperto e controllava quello che succedeva, avrebbe voluto dormire ma non riusciva, c’era un rollio cui non era abituato. Andrea era a poppa con Gabriele, stava annodando un filo a un gancetto di metallo. Un minuto prima Martino era sdraiato dov’erano loro, lì era più fresco; poi gli avevano dato una voce e l’avevano fatto spostare.
«Con la canna da pesca te la cavi» disse Andrea a Gabriele. «Ma questo non l’hai mai usato, fatti spiegare bene».
Erano a pochi metri da tre isolotti della laguna, a sud della città, su una piccola barca che odorava di pesce e di benzina. Andrea e Gabriele stavano impalati e muovevano solo le mani, in mezzo ai piedi gli frusciava un lungo filo trasparente. Andrea era piccolo, aveva mani agili. Gabriele era più ingombrante e più impaziente.
«Ok, ok. Però fammi provare, che imparo» disse Gabriele.
Andrea pescava per divertimento, ogni tanto qualche orata ci scappava; Gabriele pescava per ossessione e non aveva mai preso nulla. Martino era molto più bravo di loro, i pesci li prendeva con la bocca. Li regalava a Elena, che in quel momento era seduta con i piedi fuori dalla barca e si stava infilando la muta smanicata da apneista.
«Tino!» chiamò.
Lui le andò vicino, Elena gli mise una mano sulla testa e lo accarezzò dietro alle orecchie.
«Allora, che vai a vedere?» le chiese Andrea.
«Faccio il giro delle isole, pare passino gli squali».
Gabriele borbottò; erano troppo in fondo, non sarebbe bastato il fiato.
«Guarda che è brava, eh!» disse Andrea.
Lei si voltò, mise la maschera e andò in acqua. Martino la seguì.
Nuotarono verso il più grande dei tre isolotti. Erano linee sottili che emergevano dall’acqua. Elena pinneggiava davanti a Martino. Arrivarono all’isola più grande, sopra si vedevano le rovine di un vecchio edificio militare. Le onde scivolavano sul bordo dell’isolotto, rivelando e nascondendo piccoli animali. A Martino non interessavano, non odoravano di nulla. Elena andò giù. Per un paio di metri Martino la seguì, di più non riusciva; risalì, guardò la sua ombra e rifletté.
Si piacevano molto, Elena e lui. Si erano incontrati in un giorno di pioggia, all’ingresso del suo palazzo. Martino era lì, affamato e solo. Lei aveva aperto il portone e gli aveva fatto cenno di entrare.
Al tempo Elena aveva paura di molte cose. Una era l’acqua del mare: «È buio lì dentro» diceva. «Ci stanno gli squali, le orche, i capodogli».
Martino dell’acqua non aveva timore, così un giorno la portò a una grande spiaggia, le fece chiudere gli occhi, le trottò davanti e lei lo seguì ascoltando i suoi passi. Quando sentì il rumore delle onde si sedette sulla sabbia. Martino le mordicchiò una mano, Elena si rialzò e sempre con gli occhi chiusi corse verso l’acqua; li aprì quando sentì il mare arrivarle alle caviglie.
Ora andavano spesso sott’acqua. Martino prendeva qualche piccolo pesce, lei andava in fondo per osservare quelli più grandi.
Tornò su, era un po’ delusa.
«Li vedo ma sono lontani, Tino, mi sa che oggi non ci arrivo. Mannaggia».
Tornarono alla barca e si sdraiarono al sole. Martino a poppa, gli altri sui cuscini a prora. Elena stava in mezzo, la testa appoggiata al braccio di Andrea. Gabriele pensava ai fatti suoi, teneva il bolentino con il filo in acqua e continuava a pescare senza risultati. C’era calma, era bello.
«Allora non li hai mica trovati gli squali» disse Gabriele dopo un po’.
Appoggiò il bolentino a terra, si alzò lentamente in piedi. Aveva un corpo grande, l’ombra nascondeva Andrea ed Elena dal sole. Aprirono gli occhi e lo guardarono.
«Forse ho visto qualcosa, ma passano molto in fondo… dopo ci riprovo» disse Elena.
«Non sei stanca?» chiese Andrea sfilandole il braccio da sotto la testa e mettendosi a sedere.
«Sto meglio in acqua che fuori» disse lei guardando Martino.
Ora era sera, si era alzato il mare, la luce era calata. Elena continuava ad andare sotto e a tornare su. Martino non stava più in acqua; era stanco e la guardava dall’isolotto. Si voltò verso la barca e vide Andrea e Gabriele. Erano più lontani di prima, facevano cenno a Elena di tornare. Lei andò giù di nuovo.
Martino si assopì. Per qualche secondo i respiri furono l’unico rumore che sentiva. Durante quei secondi non ci fu altro. Il mare rimase silenzioso. I respiri continuavano a fare rumore. Poi dentro la testa passò un pesce nero.
Alzò la testa e spalancò gli occhi. Vide delle bolle. Elena non le faceva mai quando era sott’acqua. Martino si voltò. Andrea era impalato. Gabriele si era buttato e nuotava verso di loro.
Martino si gettò in acqua. Mise la testa sotto. Aveva paura. Dov’era? Vedeva solo blu. Tornò a galla. Guardò su, cielo. Guardò intorno, acqua. Si sentiva male. Doveva stare tranquillo. Respirò a fondo. Andò giù. Spinse. Era troppo lontana, la sentiva ma ancora non la vedeva… ma no, eccola! Era vicina. Non smettere di muovere le pinne, si disse Martino. E ora, perché si era fermata?
Le gambe erano immobili, ora. Fluttuava.
Martino risalì, respirò ancora, tornò di nuovo dentro. Elena è un pesce, si disse. È come un pesce, e io a pescare sono il migliore. Ora la prendo. La raggiungo e le mordo la spalla.
Elena si riprese appena, rimise il corpo in verticale, alzò la testa. Martino la morse ancora, più forte. Andarono su per inerzia. Superficie. La morse, di nuovo. Lei fece un respiro rotto cercando di mangiare aria. Martino la leccò. Elena piangeva. Un altro morso. Finalmente Elena si mosse, ma nella direzione sbagliata. Gabriele era ancora lontano ma nuotava fortissimo. Martino la seguì, le addentò i polpacci, la guidò verso Gabriele. Lei andò avanti. Gabriele la prese. Martino rimase indietro. Gabriele la riportò alla barca, Andrea la trascinò dentro.
Con le ultime forze Martino si gettò anche lui in barca. Elena era svenuta: Gabriele sapeva cosa fare, disse ad Andrea come spingere sul petto e le soffiò in bocca. Martino barcollò, poi ritrovò una qualche stabilità, poi la perse ancora. Stentava a riprendere fiato.
Abbaiò fortissimo.
Elena vomitò l’acqua, Gabriele l’abbracciò, Andrea pianse. Martino morì, perché andava tutto bene.
[Immagine: Immagine di copertina di Chiara De Marco].
L’invariante umano e’ la mitopoiesi, che si declina e si trasmette di volta in volta e ad ogni latitudine nel poetico locale attraverso svariati mezzi; non lo e’ invece la lingua, che e’ un fenomeno etno-culturale che nasce localmente e finisce circoscritto in un tempo dato. E’ il motivo per cui il literary e la poesia si stanno inevitabilmente estinguendo mentre tornano strutture, pastiche e combinatorismi, col paradosso che questi ultimi, in forma di parola scritta, non interessano comunque al vasto, potenziale pubblico che ritrova il medesimo poetico in altre forme piu’ avvolgenti, dirette ed appaganti. Il trionfo del mid-cult e del pop fino al trash, quindi? No, lo spaccio iconico primigenio, che prescinde dalla forma immanente.