di Alessandra Sarchi
[E’ da poco uscito per Bompiani La felicità delle immagini, il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati, di Alessandra Sarchi. Presento la prima parte dell’Introduzione al libro, ringraziando l’autrice e l’editore per avercela concessa].
Una stretta unione
Nell’autunno del 1968, a Venezia, viene ripreso dalla televisione lo storico incontro fra Ezra Pound e Pier Paolo Pasolini durante il quale fra molte altre cose il poeta friulano afferma:
Vi è stato un periodo in cui pittori e scrittori e poeti erano estremamente uniti, molto uniti fra di loro. […] Io per un soffio appartengo un pochino a questo tipo di cultura; ricordo di avere letto i suoi primi Cantos – credo su una rivista pubblicata da Curzio Malaparte che si chiamava “Prospettive”, lo ricorda? Era il ’37 o ’38, avevo diciassette o diciotto anni. Ero un ragazzo, le sue prime cose le ho lette allora; e allora io disegnavo, dipingevo perché anche in quel momento fra ermetismo e pittura – la pittura di Rosai, la pittura di Carrà – vi era una stretta unione.
Pasolini si era formato a Bologna, negli anni del magistero di Roberto Longhi, ma le sue parole fanno venire in mente una scena non molto distante da quella ritratta dal pittore Amerigo Bartoli, nel 1930, al caffè Aragno di Roma.
Amici al caffè, questo è il titolo della grande tela ora alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.
Seduti ai tavolini della saletta intenti a conversare fra di loro si riconoscono letterati, critici e artisti: Emilio Cecchi, Vincenzo Cardarelli, Carlo Socrate, Ardengo Soffici, Antonio Baldini, Pasqualina Spadini, Giuseppe Ungaretti, Mario Broglio, il cameriere Malatesta, Armando Ferri, Quirino Ruggeri, Roberto Longhi, Riccardo Francalancia, Amerigo Bartoli, Aurelio Saffi, Bruno Barilli.
Il quadro ci suggerisce per gradazioni di colore e di piani un’atmosfera, una consuetudine sociale e un milieu intellettuale dove la vicinanza e lo scambio fra artisti visivi e letterati è all’ordine del giorno.
È significativo che Pasolini, più di trent’anni dopo, richiami, tra le sue esperienze fondative, proprio la vicinanza che nasceva dalle riviste e dai caffè dove poeti e pittori si ritrovavano e in alcuni casi condividevano un orizzonte di idee o un’estetica comune, spesso tra discussioni animate.
Quella “stretta unione” può suonare nostalgica, rievocata alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, quando non solo molti dei protagonisti di un’epoca non c’erano più, ma anche quelli che erano rimasti si rendevano conto che la figura dell’intellettuale era cambiata in modo irrimediabile, fagocitata e precarizzata dal capitalismo avanzato e dalle esigenze della comunicazione di massa. Al di là del vagheggiamento idealizzante, quella indicata da Pasolini era stata una condivisione praticata e vissuta da lui stesso e da molti suoi colleghi. Nel corso del Novecento, in Italia, c’erano stati pittori che avevano aggregato intorno a sé il gusto di molti scrittori, e c’erano stati molti scrittori che avevano coltivato la prossimità con l’arte, con la pittura in special modo. Per quasi tutti valeva l’idea, una sorta di versione moderna della leggenda dell’artista, che il pittore godesse di una maggior comunione, attraverso la propria arte, con la vita.
Alberto Moravia non aveva mai smesso di disegnare in proprio, dai tempi in cui aveva imparato probabilmente dal padre dilettante e dalla sorella professionista, tanto che dopo una brillantissima carriera come scrittore si domandava ancora, e non per vezzo: “Non so perché non ho fatto il pittore.” Pasolini, artista poliedrico, dichiarò più volte di aver imparato prima a disegnare che a scrivere e non smise mai di produrre schizzi, dipinti, immagini di vario tipo.
Italo Calvino, nel 1971, in occasione della mostra del miniaturista Ettore Sobrero, spostava l’idealizzazione dell’artista su un piano esistenziale: “Sarà che chi si esprime col pennello è sempre più felice di chi si esprime con la penna? O che l’astrattismo e l’informale conservino il privilegio di essere affrancati dal peso diretto o indiretto della parola?”
Carlo Levi fu pittore e scrittore con pari impegno, così come Dino Buzzati, Lalla Romano, Cesare Zavattini e Toti Scialoja. Anche Goffredo Parise avrebbe voluto fare il pittore, e si produsse in una decina di dipinti, ma come egli stesso affermava in un’intervista del 1985: “Nel ’48 andai a Venezia a vedere la prima Biennale che si teneva dopo la guerra. Era davvero formidabile; nelle sale era rappresentato, con dovizia di scelta, il meglio del meglio dell’arte moderna, da Gauguin a Cézanne, da Modigliani a Picasso, da Chagall a Paul Klee. Fui folgorato e realisticamente dismisi le mie modeste ambizioni.”
Altri coltivarono la zona anfibia tra scrittura d’invenzione, critica e collezionismo: Anna Banti, cofondatrice della rivista “Paragone” insieme a Roberto Longhi e prolifica scrittrice di romanzi a sua volta; Giovanni Testori, scrittore, critico d’arte e collezionista; Paolo Volponi, scrittore, intenditore e collezionista; Leonardo Sciascia, scrittore e critico d’arte; Marisa Volpi, storica dell’arte e scrittrice.
Altri ancora, come Elio Vittorini, dalle pagine dei propri romanzi o da quelle della rivista “Il Politecnico” (1945-1947), esplorarono le possibilità illustrative, evocative e narrative della fotografia accostata al testo scritto. Non stupisce peraltro che il riferimento a opere d’arte, l’ibridazione linguistica con il lessico proprio della prosa d’arte, l’idealizzazione della figura del pittore e dell’artista, il ricorso massiccio a immagini pittoriche siano da sempre presenti nella tradizione letteraria italiana che, in epoca umanistica, ha fondato un genere: quello del discorso sull’arte e delle biografie d’artisti. Chi nel Novecento italiano contribuì in modo determinante nel calamitare la scrittura verso la pittura, e in generale verso i fatti visivi, fu Roberto Longhi, con il suo modo di insegnare e scrivere d’arte.
Longhi elabora un tipo di scrittura che risponde alla domanda di sempre, e che in un certo senso anticipa quel visual turn che alcuni studiosi indicano come svolta fondamentale nella cultura del secondo Novecento: trovare un’equivalenza fra sguardo e parola. Colmare un divario che non è solo di codici, ma è ontologicamente basato nel corpo. Che quel divario esista e venga patito da chi scrive, lo dice molto bene Goffredo Parise: “Ora, purtroppo lei dovrà usare le parole, cioè la metafora, mentre io, con molta minor fatica, userò lo sguardo.”
A questa distanza Longhi sopperisce con una lingua e una narrazione che registrano e ripercorrono l’atto del vedere e ne decodificano le informazioni: la percezione di colori, forme, rapporti volumetrici e geometrici non rimane grezza ma assume significato perché inserita in una storia di confronti, di analogie, di memoria. La lingua deve avere tutta la mobilità espressiva, e quindi l’ampiezza di registri e fonti, richiesta per accompagnare la percezione, per trovare un’equivalenza verbale al fatto visivo. Per questo Cesare Garboli ha potuto richiamare Proust e la scoperta dei processi di memoria involontaria a proposito del metodo di lettura di Longhi, un metodo di riconoscimento che si attua a partire dalla lingua stessa. Gianfranco Contini, in un celebre articolo su “Belfagor” del 1948, ne ha consacrato la prosa come letteraria in sommo grado, ma al tempo stesso scientifica, perché finalizzata ad appurare una verità storica, percettiva, culturale.
L’importanza che Longhi assume negli anni cinquanta del secolo scorso in relazione agli scrittori si evince anche solo a leggere le Proposte per una critica d’arte che pubblica nel primo numero di “Paragone”: la miglior critica artistica è quella dei poeti, sono stati Baudelaire, Rimbaud e Verlaine a sapere parlare nel migliore dei modi delle opere d’arte. A questi tre nomi si dovrebbero aggiungere almeno Balzac, Zola, i Goncourt, Proust stesso, ma atteniamoci alla scelta longhiana: si tratta di tre poeti.
Il cortocircuito sancito da Longhi fra la parola poetica e la comprensione dell’arte, non ekphrasis come mimesi verbale ma epifania della lingua che insegue l’epifania delle cose, uno spazio dove dimensioni espressive diverse s’incontrano in un’unica istanza epistemologica, non è la sola scintilla che attira gli scrittori, molti ex allievi e non solo, che a gara pubblicano sulle pagine della neonata rivista. Se si volesse seguire, per esempio, la fortuna del testo su Piero della Francesca nel secondo Novecento ci si accorgerebbe di quanto la scrittura longhiana si dirami e inneschi la parola poetica in Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi, Giuseppe Ungaretti fino all’inserto lirico, davanti alla Madonna del parto di Monterchi, presente ne La prima notte di quiete di Valerio Zurlini.
Uno dei portati del magistero longhiano destinati a incidere maggiormente sulla produzione letteraria è la sua attenzione per il nesso tra pittura e realtà. Si tratta di un nodo che va dalla monografia su Piero della Francesca a Masaccio, fino alla sua definizione più articolata e complessa negli studi su Caravaggio e i caravaggeschi.
Cosa ha in mente Longhi quando pensa alla realtà? Rileggiamo la formulazione che ne dà ne I fatti di Masolino e Masaccio (1940), descrivendo gli affreschi raffiguranti i miracoli di san Pietro nella cappella Brancacci a Firenze:
La convinzione si rafferma quando si avverta che anche le figurette del fondo, sole o aggruppate, sono state immesse studiosamente con apposite giunte di intonaco […]. […] il sentimento della grama e povera giornata fiorentina che si passa per la prima volta in quello spazio nuovo […]. […] le scimmiette che corrono sulle cornici facendo stridere i pali negli infissi, il lenzuolo povero che pende dal davanzale, la gabbietta o il cestino ci sorprendono o ci distraggono troppo; […] pochi appunti, i quali venivano in pittura per la prima volta. […] qui non c’è una bella favola e vana, ma la vita comune di ogni giorno […].
La vita comune di ogni giorno. Questo invito inedito, a cercare nella pittura i dettagli meno magniloquenti e codificati, che fanno trapassare il vissuto concreto al piano dell’invenzione e della rappresentazione, entra in singolare consonanza con il clima di attenzione alla realtà che in Italia viene a crearsi nel dopoguerra, come rifiuto e reazione al fascismo e alle sue altisonanti retoriche. Non la favola bella di dannunziana memoria, ma il lenzuolo povero che pende dal davanzale, che racconta molto di più della vita domestica nella sua materialità.
Sembrerebbe un’anticipazione o una felice convergenza con quanto Erich Auerbach andava elaborando in quegli stessi anni e sarebbe poi confluito in Mimesis, uscito per la prima volta nel 1946, anche se tradotto in Italia dieci anni dopo.
E potrebbe essere anche, questo longhiano, l’incunabolo di una letteratura, e di un’estetica, che per alcuni decenni si svolgerà all’insegna di una parola tanto potente, quanto difficile da declinare, come realtà. Difficile, è quasi ovvio dirlo, non solo per ragioni di statuto filosofico, ma per il fatto stesso di venire assunta nel merito di tecniche della finzione e dell’illusione come sono tutte quelle artistiche.
A uno sguardo panoramico l’unico denominatore comune, per un richiamo alla realtà che attraversa le arti figurative e la letteratura dal dopoguerra all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, sembra quello di un impegno a essere nel presente, a scandagliarne le ragioni sociali, politiche, economiche ed esistenziali.
Al tempo stesso la parola realtà, in relazione alla pittura e alla letteratura italiana, si carica per via di un intreccio non del tutto riconducibile a ragioni politiche – rifiuto della retorica fascista in primis – di una valenza cognitiva nei confronti della storia.
Torna utile, allora, rileggere la prefazione di Elsa Morante che accompagna il volume su Beato Angelico, uscito nel 1970 nella collana “Classici dell’arte” di Rizzoli. Il pittore fu assegnato a sorte alla Morante, che gli avrebbe preferito Masaccio, l’autrice lo ammette esplicitamente. Masaccio campione longhiano di virtù a modo loro rivoluzionarie nella sua quieta e domestica monumentalità, Masaccio tante volte invocato da Pasolini come nume tutelare della propria concezione cinematografica era già stato assegnato e pubblicato due anni prima con il testo di Paolo Volponi. La scrittrice si accosta dunque a Beato Angelico come a un pittore che non aveva considerato prima di allora, e che di certo non rientrava nel suo personale canone, ma nel domandarsi il perché della distanza avvertita formula una spiegazione rivelatrice, in negativo:
La povera mia (nostra) lingua materna è cresciuta nella fabbrica deformante delle città degradate, fra le lotte evasive dei meccanismi schiavistici, e le ripugnanti, continue tentazioni della bruttezza. Ricevendo per dottrina imposta – come canoni di fede ecumenica – le tetre Scritture del Progresso tecnologico, i Messaggi ossessivi della Merce, e le spettrali Annunciazioni della Gerusalemme industriale, s’è ritratta a cercare le proprie immagini di salute nell’esclusione da qualsiasi chiesa. E forzata, fino dall’infanzia, a frequentare i gerghi obbligatori dell’irrealtà collettiva, s’è ridotta a riinventare un proprio lessico, scavandolo, magari, da qualche vocabolario esotico, indecifrabile per i suoi contemporanei: e rifornendo il proprio magari dai loro rifiuti, piuttosto che dalle loro botteghe.
Beato Angelico, pittore felicemente e genuinamente convinto della propria religione, del proprio paradiso interiore fatto di santi e cristianità rosazzurrina, appare dunque distante perché “un privilegio comune ai terrestri di allora, anzi (fin quasi a ieri) di tutti i terrestri del passato, era questo: la bruttezza (che significa propriamente negazione della realtà, o – come si direbbe oggi – alienazione totale dall’intelletto e dalla natura) non aveva ancora ramificato sulla terra”. Il presente in cui scrive Morante viene ribaltato sul passato, il mondo raffigurato dal Beato Angelico, per quanto improntato a valori propagandistici religiosi, è ritenuto più autentico perché coerente nella connessione fra forme e sentire. Un mondo non derealizzato, non alienato, vero, anche se percorso da esotici angeli piumati, santi che volano, miracoli domestici.
Morante aveva fatto già uso della parola irrealtà nel 1965, in Pro o contro la bomba atomica, e, nell’accezione sopra descritta, la condivideva con Pasolini. Nel 1966 Ottiero Ottieri pubblicava L’irrealtà quotidiana dove, partendo dall’accezione psicologica elaborata da Moravia, si spingeva a darne una definizione in termini sociologici: l’avanzare delle cose, degli oggetti che ci sovrastano con la loro modernità, efficienza e rapidità, eclissando la vita interiore a favore dell’egemonia delle merci.
L’irrealtà, ampiamente sperimentata su un piano psicologico e individuale dai personaggi di Moravia, acquisisce con Pasolini, Morante e Ottieri una connotazione etico-estetica, coincide con la bruttezza e l’indicibilità del mondo moderno, divorato dalla speculazione capitalista, dai falsi riti borghesi. E tale irrealtà è innanzitutto linguistica. Lo scrittore che in quegli anni è maggiormente impegnato in un corpo a corpo con la lingua è Carlo Emilio Gadda, non a caso strenuo ammiratore della prosa di Roberto Longhi e della sua capacità di rendere attraverso la parola la stratificazione del reale.
Ciò che Morante denuncia nella contemporaneità è la mancanza di una lingua che dica e non omologhi, ma è anche un venire meno del senso della Storia perché la modernità sembra recidere ogni ponte con il passato, e così rinuncia a indagare i fatti in prospettiva, a raccogliere eredità e responsabilità.
Siamo davanti a una peculiare torsione ideologica cui viene sottoposta la coppia realtà-irrealtà e che si realizza in gran parte in un confronto con la pittura, arte dell’illusione per eccellenza. Va sottolineato e capito questo nesso, altrimenti si perde l’eccezionalità di un connubio che sul piano teorico è tutt’altro che scontato, e che fu reso possibile proprio perché il senso del realismo in ambito pittorico era quello stabilito dalla lezione di Roberto Longhi: non imitare l’esistente, ma rivelare ciò che viceversa viene di volta in volta occultato dalle convenzioni dominanti, dalle falde della Storia che ricadono su se stesse.
Longhi aveva elaborato, soprattutto negli studi su Caravaggio e i pittori lombardi, la consapevolezza che in certi luoghi e momenti della storia dell’arte italiana si fosse prodotto un incontro riuscito tra l’istanza realistica e quella trasfigurativa propria a ogni forma espressiva, e che da quel connubio si sprigionassero originalità e capacità di rinnovamento. È precisamente nell’avvertenza al lettore del suo Caravaggio che il critico si libera del feticcio della rappresentazione mimetica: “Neppure la pittura realistica può darci la realtà intera, ma soltanto l’illusione, la proiezione di essa.”
Questo tipo di consapevolezza, insieme al tentativo di trarne tutte le conseguenze possibili, balugina dietro l’insistito intreccio fra dispostivi pittorico-visivi e letteratura.
Leggiamo ancora dall’introduzione di Longhi alla mostra su Caravaggio del 1951:
Ma poiché per l’occhio è reale ciò che appare, non ciò che è (e perché l’essenza materiale è della scienza e quella immateriale spazia nei cieli della metafisica), che altro potrà rendere un pittore “naturale” se non l’apparenza, l’impressione che ci danno le cose?
Nulla meglio di queste parole sigla una fascinazione profonda e un dissidio aperto: se anche la scrittura si mette a inseguire le apparenze, come potrà dirsi vera, e a che tipo di realtà aspira?
Ho scelto alcuni autori, Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino e Celati, in cui la pittura e l’immagine mediano all’interno della pagina scritta un valore altrimenti non realizzabile, in quanto è lo sguardo inteso come azione che promuove direttamente la parola.
Diversi per cultura, generazione di appartenenza e approccio ai fatti visivi, questi autori hanno in comune la messa in scena, all’interno dei loro testi, della figura di un pittore, di un conoscitore d’arte, di uno scrutatore di professione che del vedere, del tradurre il mondo in immagini o, per converso, del rovesciare immagini sul mondo si fa carico come di una missione. Attraverso questi autori, tra i primi esposti alla pressione di nuovi media portatori di narrazione, fotografia e cinema, è possibile seguire una piccola parabola istruttiva su come visione, storia, realtà e irrealtà abbiano cambiato il loro significato in una cinquantina d’anni.
Per Moravia la pittura rimane un luogo di contatto più vero con la realtà percepita dai sensi, lo schermo di un voyeurismo che ambisce a svelare i meccanismi psicologici dell’agire umano; per Volponi è un linguaggio della storia, ed è un linguaggio della conoscenza in senso lato; per Pasolini è la tensione al sacro immanente alla realtà; per Calvino è indagine sui meccanismi percettivi dell’occhio; e per Celati è una modalità dello sguardo ad accogliere “quello che c’è” in modo dialettico e privo di pregiudizi.
Nelle pagine di ciascuno di questi scrittori, in sordina o in maniera esplicita, si coglie una tensione che accompagna la domanda: che cos’è la realtà e qual è la maniera migliore per raccontarla, evocarla, farla sorgere con le parole, passando attraverso le immagini, che della realtà sono il simulacro più prossimo?
[Immagine: Alberto Moravia con il pittore Domenico Colantoni].