di Pierluigi Pellini
[Questa recensione è uscita, con alcuni tagli, su «Alias»]
Un titolo memorabile: precoce emblema di tutta la stagione esistenzialista, La condition humaine. E un incipit folgorante: il terrorista, Chen, uccide nel sonno un trafficante d’armi, nella penombra sospesa e allucinatoria di una camera d’albergo (siamo a Shanghai, alla vigilia della rivolta del 1927), quasi in una scena da thriller psicologico ante litteram, ma in bianco e nero e girato al rallentatore, dove ogni gesto si carica di un peso insostenibile («Ucciderlo non era niente; toccarlo, quello sì era impossibile»), e ogni dettaglio assume vita propria, esibendo l’enigma di un’allegoria vuota («Quel piede viveva come un animale addormentato»). Un titolo e un incipit fra i più belli di tutto il romanzo del Novecento: questo, almeno, non si potrà negare al capolavoro di uno scrittore pretenzioso, di un intellettuale velleitario, di un ladruncolo un po’ mitomane, di quell’André Malraux che, partito per l’Indocina per far razzia di statue khmer, diventa anticolonialista quasi per caso, e poi eroe della guerra di Spagna, protagonista (tardivo, però) della Resistenza, infine ministro di De Gaulle e scrittore ancora oggi considerato, in Francia, un ‘classico’ del Novecento – ma altrove da qualche decennio ridimensionato, se non proprio dimenticato; e da qualche mese riedito da Bompiani (La condizione umana, pp. 352, euro 15).
È molto significativo che, per presentare al pubblico italiano un’opera fino a non molto tempo fa canonica, l’editore abbia sentito il bisogno di esibire in bandella la testimonianza di un popolare giallista («Questo libro mi fece letteralmente venire la febbre»: Andrea Camilleri), e in copertina il nome della traduttrice (Stefania Ricciardi), sul cui lavoro torna anche il risvolto: «una nuova ed emozionante traduzione». C’è motivo di rallegrarsi: finalmente anche da noi pare superata «l’invisibilità del traduttore» (per dirla con Lawrence Venuti); ma che senso ha definire una versione «emozionante» (per il lettore, si suppone)? Una traduzione può essere tale, certo, per chi la fa; e a volte, purtroppo, anche per chi la recensisce. Ma è un’emozione, quest’ultima, triste e un po’ sadica: di chi intuisce la magagna leggendo l’italiano, va a controllare l’originale e puntualmente trova conferma dello strafalcione. Cito un paio di esempi fra i più clamorosi. Kyo a Possoz che sorride (con una dentiera ben fatta): «Sei fortunato ad avere ancora dei denti così, con la vita che si fa in campagna». Il dialogo è fra due dirigenti comunisti; si svolge in città. Lo svizzero Possoz è un ex operaio anarco-sindacalista, non un contadino. E ovviamente il francese ha en campagne (non à la campagne): cioè «in guerra»; o, alla lettera, «durante una campagna militare». Ferral si spoglia in bagno, prima di raggiungere a letto l’amante: «Quando tornò, Valérie sognava e aveva perso il sorriso». Nell’originale, ovviamente, la donna rêvait: «era [diventata] pensierosa». E un esempio meno vistoso, ma sintomatico della generale sciatteria. L’estremo Oriente è un posto «in cui gli intrallazzi stessi prosperano indisturbati». L’originale dice où la combine même règne avec nonchalance, e cioè: «dove perfino la corruzione regna pigramente»; o, se si vuole: «dove perfino gli intrallazzi si fanno con pigra noncuranza». Infine, un inopinato calco: un ministro diventava arrogante «se lo pungeva una mosca napoleonica». Questa mouche napoléonienne non è, come sembra di capire dalla versione di Ricciardi, una rara specie nota solo agli entomologi; è inserita in un’espressione idiomatica: lorsque le piquait une mouche napoléonienne: «quando gli prendeva il ghiribizzo di fare il Napoleone», o qualcosa di simile. Come spesso capita, a rendere pedissequamente alla lettera una frase fatta, si produce un divertente non sense: evitarlo dovrebbe essere l’abc del traduttore.
Di là dall’evidente inadeguatezza della versione di Stefania Ricciardi, importa sottolineare qualcosa di più importante, sintomatico, e generalmente valido. Il crescente, e troppo spesso immeritato, prestigio (anche mediatico) accordato in anni recenti ai traduttori è direttamente proporzionale al discredito in cui molta editoria tiene gli specialisti di storia letteraria. E infatti non c’è nemmeno una pagina di presentazione, d’interpretazione, o quantomeno d’inquadramento storico, in questa Condizione umana di Bompiani: il corto-circuito dell’emozione (autore-traduttore-lettore: con l’editore che risparmia e lucra) fa totale economia di ogni mediazione critica. È lo spirito dei tempi; poco giova osservare che un curatore competente avrebbe, se non altro, corretto qualche erroraccio di traduzione.
Poi, avrebbe anche spiegato che quello di Malraux non è affatto il romanzo storico e d’avventura che a prima vista può sembrare. Certo, ha per tema una rivoluzione, e una sanguinosa repressione: nel giro di pochi giorni – il tempo è scandito con precisione martellante, quasi ora per ora – i comunisti s’impossessano della città, sottraendola al controllo governativo (i signori della guerra del Nord); ma l’alleato nazionalista, il Kuomintang di Chiang Kai-shek, d’accordo con le potenze coloniali occidentali, viola i patti e stermina dirigenti e attivisti dell’Internazionale. E tuttavia la drammatica concitazione delle vicende storiche è cornice funzionale, per non dire semplice pretesto, di una riflessione sull’esistenza individuale, improntata a una sorta di estremismo quasi escatologico, che vede nella «familiarità con la morte» l’unica pietra di paragone di ogni verità sulla vita. Degli eventi storici sembra importare a Malraux quel tanto che basta a motivare la tensione spasmodica di tutte le azioni compiute dai suoi personaggi: còlti, se così si può dire, in uno stato di costante survoltaggio psichico; osservati in «un fluttuare incerto eppure inesorabile di destini». «Destino» è la parola chiave del libro, ripetuta come un Leitmotiv minaccioso; e l’enfasi espressionista è il suo tratto stilistico dominante, nel racconto degli scontri a fuoco come nelle descrizioni e nei dialoghi. Non c’è spazio per la prosa del quotidiano: in questo, La condizione umana si colloca agli antipodi di tutta la tradizione realista, anche di quella variante primo-novecentesca (il cosiddetto realismo modernista) cui pure si avvicina, oltre che per il gusto sperimentale del montaggio e per qualche accenno di oltranza linguistica, anche per l’insistita inclinazione (auto)riflessiva.
Un’introspezione raziocinante domina infatti allo stesso modo i frequenti monologhi interiori e i sincopati dialoghi, quasi sempre notturni (è un libro di tenebra), quasi sempre ultimativi. Perfino i personaggi meno chiaroveggenti sono presentanti mentre si sforzano di riflettere, «con il collo incassato: cormorani schiacciati dal peso del pensiero». E, appunto, narrazione e pensiero si agglutinano in trovate metaforiche un po’ retoriche e un po’ ermetiche, sempre in bilico fra la brillante trouvaille e lo scivolamento nel kitsch – a un lettore italiano possono fare l’effetto di un ipotetico Pirandello uscito alticcio dalle Giubbe Rosse. Eppure la malcelata ambizione filosofica, la densità gnomica, che fa del libro un repertorio di frasi a effetto, non basta a ascrivere La condizione umana al filone del romanzo-saggio modernista; la memorabilità degli aforismi di Malraux è compromessa da una sorta di inflattiva moltiplicazione. Così, oggi, il più delle volte suonano vuoti: un po’, se è lecito suggerire un altro poco giudizioso accoppiamento, come i proverbi di padron ’Ntoni; anche a non volerli irridere con ironia postmoderna, li si legge quasi con postuma condiscendenza.
Ma è un altro il vero paradosso di questo libro che a ogni pagina, al culmine concitato di ogni dialogo (ce ne sono a decine), sembra distillare inarrivabili verità esistenziali, avvalorate una volta per tutte (e per tutti) dalla tensione di circostanze drammatiche; di questo romanzo che mette in scena uno dei grandi conflitti, anche ideologici, del secolo breve, lasciando però completamente sullo sfondo gli attori storici della rivoluzione, quegli operai di Shanghai la cui confusa presenza brulica sempre lontana, sullo sfondo. I protagonisti sono, chi più chi meno, cosmopoliti: nomadi professionisti della rivoluzione o naufraghi dell’esistenza, gli uni e gli altri privi di ogni radicamento. Per questi comunisti senza comunità, per questi compagni tanto generosi nell’azione e nel pericolo, quanto bloccati in un’affettività intransitiva di monadi incomunicanti, la metropoli cinese in cui vivono è il luogo di un’immedicabile estraneità. Quale che sia la loro provenienza geografica o sociale, quale che sia la parte politica per cui combattono (e quasi tutti muoiono), condividono un’unica cosa: un’assoluta e disperata solitudine, che può indifferentemente tradursi in nichilismo blasé o, al contrario, in un appello implicito, perfino negato, ma non per questo meno forte, a una disarmata bontà, a una solidale dolcezza. Smentendo, in entrambi i casi, le pretese concettuali di una scrittura raziocinante.
Non c’è motivo di stupirsi: oltre a offrire una delle più riuscite rappresentazioni letterarie della solitudine del terrorista (ne parla Daniele Giglioli in un libro bellissimo, fresco di ristampa per il Saggiatore: All’ordine del giorno è il terrore), anche in questo La condizione umana inaugura la temperie dell’esistenzialismo parigino, il cui esibito, lucido pessimismo della ragione quasi sempre cela una struggente nostalgia di romantica tenerezza. Una nostalgia che nel romanzo trova espressione nell’amore profondo e fragile di Kyo e May; o nella saggezza oppiacea del vecchio Gisors; o nel rimorso del belga Hemmelrich, scisso fra i doveri familiari (il figlioletto malato) e la solidarietà con i compagni. O ancora, soprattutto, nella generosità semplice e sublime del russo Katow, sfuggito in patria al plotone d’esecuzione delle armate bianche, per essere arso vivo in una caldaia dagli aguzzini del Kuomintang, dopo aver donato a due compagni di prigionia quel che gli restava di più prezioso: la capsula del cianuro. Una sua frase riassume esemplarmente il senso (e anche i limiti) del romanzo di Malraux e, forse, di tutta una stagione della cultura francese: «Se uno non crede a niente, proprio perché non crede a niente, è obbligato a credere alle qualità del cuore quando le incontra».
questi classici bompiani ispirano tutti diffidenza… si può dire?