di Gianluigi Simonetti

«Esistono opere fondate su un principio di coerenza e opere che poggiano sulle proprie contraddizioni. Le opere di Bordini appartengono al secondo tipo: trasformano le contraddizioni in momenti di verità». Così Guido Mazzoni introducendo Difesa berlinese (a cura di Francesca Santucci, Luca Sossella editore, 2018), il volume di Carlo Bordini che raccoglie per la prima volta tutte le sue prose, scritte in un arco temporale di circa quarant’anni. Il titolo allude a un’apertura nel gioco degli scacchi che prevede che il nero si difenda attaccando: come si vede la contraddizione di cui parla Mazzoni è in fondo già nel titolo, come pure succede nel romanzo più bello e ambizioso di Bordini, Memorie di un rivoluzionario timido, che del resto apre Difesa berlinese. Nel libro, oltre alle prose narrative, alcuni saggi letterari, pochi ma splendidi, tra cui uno su Pasolini, composto subito dopo l’assassinio, tra le cose più penetranti mai scritte sul suo conto, che insiste non a caso sulla schizofrenia di quel poeta («deteriore per due motivi: 1) perché era una scissione; 2) perché non era accettata come scissione»). Accanto ai saggi, alcuni frammenti, epigrammi e scritti inediti, fra cui un recente Autoritratto, in cui il nesso tra schizofrenia e esattezza è rivendicato da Bordini stesso: «Credo che la mia sia una scrittura schizofrenica, e credo che ogni forma d’arte, quando funziona, riesca a raggiungere quella che io voglio chiamare qui “iperverità”».

 

Abituati come siamo, ormai da molti anni, a scritture lineari, compatte e senza crepe, e sempre più spesso anche a scritture ottimiste, terapeutiche, per cui le contraddizioni – specie le più dolorose e insormontabili – rappresentano un problema da eludere o risolvere, fa un certo effetto leggere le prose di Difesa berlinese, specie quelle più autobiografiche e strazianti: che per me sono le già citate Memorie, cominciate nel ’76 e pubblicate per la prima volta nel 2016, e il Manuale di autodistruzione, scritto tra l’82 e il ’94, uscito in francese nel ’94 e in italiano nel ’98. L’iperverità fa male, e per questo fa bene. In tutti i suoi testi migliori Bordini mette in scena uno scontro esterno e interno: tra conscio e inconscio, tra potere e individuo, tra singoli individui, spesso tra un uomo e una donna. Non cerca armistizi, non si aspetta intese: «Mi sembra assurdo indicare una soluzione». Anche se non ha nulla di paludato o di retrò, anzi è contemporaneo, piano e privo di qualsiasi orpello, lo stile di Bordini ci riporta a un modello novecentesco, e quindi antico, di letteratura; quella che chiedeva agli artisti di non nascondere, ma al contrario valorizzare il nucleo conflittuale delle proprie opere d’arte. «Credo di essere un romantico», dice di sé Bordini in uno scritto, La zona grigia, in cui rievoca gli anni Sessanta e Settanta della sua formazione; e viene in effetti dall’eredità post-romantica, filtrata dall’esperienza della letteratura ‘selvaggia’ che segue al Sessantotto, l’idea che è dall’attrito tra l’organizzazione razionale della forma e la libertà dei desideri inconsci che scaturiscono le confessioni più assolute e più sincere, quelle che fanno emergere le motivazioni profonde delle azioni dei personaggi e portano alla luce il senso vero della vita: «i continenti inesplorati, e, quindi, pericolosi». Così come, su un altro piano, viene dalla poesia italiana degli anni Settanta – la scena in cui Bordini ha esordito – la pretesa, o la speranza, di non avere padri e maestri: l’ambizione di possedere una vita e uno stile personali, di non somigliare a nessuno, di fare letteratura contro la Letteratura intesa come potere e istituzione.

 

Così, mentre le nostre librerie vengono invase da opere progettate a tavolino per essere consumate in modo rapido, appagante e inoffensivo, Bordini ci ricorda che l’artista più libero è quello che solo in parte è responsabile di ciò che fa – «non scrivo quello che so, ma lo so mentre scrivo» – e che la sua missione profonda non è quella di intrattenerci, ma di portarci dove non vogliamo andare. Per questo, tra l’altro, tutti i suoi migliori interpreti hanno descritto l’approccio di Bordini con formule ossimoriche: «razionalismo onirico», per Febbraro, «dormiveglia vigile», per La Porta. La capacità di usare la contraddizione come figura di stile e strumento di comprensione rappresenta non solo il tratto più caratteristico della sua scrittura, ma anche la sua qualità più preziosa, perché più rara. E bisogna aggiungere che questa risorsa alimenta non solo la narrativa, ma anche la poesia di Bordini, come la restituiva, qualche anno fa, I costruttori di vulcani, il volume – edito, come Difesa Berlinese, da Luca Sossellache radunava tutte le sue liriche. «Alcuni mi definiscono un poeta narrativo, altri un poeta sperimentale», insiste l’Autoritratto; «a me vanno bene entrambe queste definizioni, ma non completamente». In poesia come in prosa Bordini sfugge alle categorie consolidate (Strana categoria è il titolo della sua prima raccolta): la narrativa contiene momenti lirici, accesi e visionari (con la libertà sintattica e grafica che associamo solitamente alla poesia); i versi hanno cadenze prosastiche e scopi decisamente romanzeschi, accaniti come sono non a costruire, ma a distruggere miti – a cominciare dal più personale e dal più lirico dei miti: quello dell’autenticità individuale («Ho cercato di parlare quindi infine il più possibile male di me stesso»).

 

Ecco allora che i due volumi gemelli che contengono l’opera di Bordini, questo nuovo Difesa berlinese e I costruttori di vulcani uscito otto anni fa, letti insieme, oggi, restituiscono per intero non solo l’opera di un autore difficilmente classificabile nelle tipologie della letteratura più convenzionale, ma anche, paradossalmente, di un artista perennemente scisso, forte delle sue scissioni: il ritratto coerente di una frattura. La storia stilistica di Bordini, a doverla sintetizzare, è proprio quella delle sue antinomie. Contraddizione tra un passato di militante trotzkista (con punte di estremismo rivoluzionario) e un’inclinazione decisa per gli scrittori di destra, come Cèline o Pirandello (resi liberi dal loro pessimismo antropologico, dalla loro radicata asfiducia in ogni vero cambiamento). Contraddizione tra una sincera passione politica e la diffidenza per ogni forma di arte engagée («La poesia socialmente impegnata ha sempre bisogno di un pizzico di eresia»). O ancora, contraddizione tra una vena fortemente sperimentale e una estraneità alle neoavanguardie continuamente ribadita. Al termine di questa trafila, una sorprendente complementarità, che non è vero equilibrio – Bordini non vuole essere equilibrato – ma profonda ambivalenza. Bordini, lo rileva Mazzoni, sta con le vittime e i carnefici nello stesso tempo; come molti grandi scrittori. E come molti grandi scrittori ci difende e insieme ci attacca. «Avevo paura del mondo, della mia famiglia, e, per non farmi schiacciare, assumevo un’aria quasi sacerdotale. Conosco uno scrittore abbastanza noto che non cammina, striscia. Dopo imparai a ribellarmi strisciando».

 

[Questa recensione è apparsa sulla «Domenica» del «Sole 24 Ore»].

2 thoughts on “Su “Difesa berlinese” di Carlo Bordini

  1. “Berlino, venerdì.
    […] Spleen sempre. Le vostre ragioni non valgono un bel nulla. Ho revocato talmente tante cose. Chitarra. La letteratura universale mi sembra fino ad oggi niente. Qualche pagina dell’Imitazione di Cristo, qualche pagina della Tentazione di Sant’Antonio ed insomma un’antologia della rinuncia.
    […] Per fortuna amo i versi, i libri, i veri quadri, le belle acqueforti, qualche scorcio di natura, gli abiti delle donne, tipi imprevisti…In breve, tutto il caleidoscopio della vita. Ma in fondo è finita proprio male quando la vita per voi non riveste altro interesse che quello di un caleidoscopio, no?”

    Jules Laforgue. Oeuvres complètes. vol. 4. Lettres. 1881-2, Mercure de France, Paris 1922. p. 156-7

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