Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
[Uscito lo scorso settembre per l’editore Laterza, Malaterra – il libro di Marina Forti di cui pubblichiamo qui di seguito le pagine introduttive – non aveva bisogno di fronzoli o imbellettamenti per mostrare la propria, profonda importanza: che la società italiana non abbia fatto i conti con i frutti avvelenati del boom economico degli anni Sessanta e Settanta è sotto gli occhi di tutti, così come evidente è l’urgenza di una svolta sia a livello di opinione pubblica sia a livello di azioni politiche. Credo però che l’uragano-Greta, abbattutosi sul palcoscenico del governo globale del clima in occasione dell’ultima Conferenza delle Parti di Katowice, e soprattutto i suoi effetti – milioni di giovani e giovanissimi nelle piazze di tutto il mondo – abbiano reso questo libro ancor più fondamentale di quanto già non fosse. La ragione è semplice: per quanto un focus esclusivo sulla questione del riscaldamento globale abbia mostrato un sorprendente potere di mobilitazione, prendere coscienza dell’ampia e variegata fenomenologia della crisi ecologica, nonché della molteplicità delle sue radici, è un passaggio cruciale sia per approfondire la comprensione della situazione in cui ci troviamo sia per rafforzare il processo di convergenza tra le varie “anime” che compongono il grande movimento ecologista che da qualche mese agita con continuità le strade delle nostre città (el)].
Acqua, fiori e diossine dopo il miracolo italiano
A Brescia ci sono giardinetti dove i bambini non possono giocare. I cartelli sono chiari: non buttarsi sull’erba, non raccogliere fiori e foglie, non giocare con la terra e non scavarla. Il motivo è che i terreni sono contaminati da diossine e Pcb, policlorobifenili, sostanze estremamente tossiche e cancerogene disperse da una vecchia fabbrica chimica, la Caffaro. Ma quei cartelli sono là da anni, e c’è chi non ci fa neppure caso. A Taranto invece quando tira molto vento i bambini di certe zone non vanno a scuola. Li chiamano “wind day”: il vento solleva polvere dai mucchi di ferro e carbone accatastati nelle acciaierie Ilva, formando nuvole rossastre che avvolgono la città; allora scatta l’allerta e nei quartieri vicini allo stabilimento le scuole restano chiuse, per ordinanza del sindaco, per non esporre i bambini a un rischio sanitario eccessivo. A Portoscuso, in Sardegna, i bambini a scuola ci vanno, ma hanno il piombo nel sangue. Lo scoprirono i medici del lavoro durante un’indagine sugli alunni di prima media, sul finire degli anni Ottanta, e per gli abitanti del piccolo comune sardo fu uno shock: di colpo si resero conto di cosa volesse dire vivere a poche centinaia di metri dalle fabbriche di Portovesme, uno dei più grandi centri industriali dell’isola. Da allora l’attività industriale è crollata, ma resta l’inquinamento dei terreni e delle falde idriche; quanto al sangue dei bambini oggi non sappiamo, perché le ultime indagini sanitarie sono dei primi anni Duemila. Tra Priolo e Augusta, nella Sicilia orientale, gli abitanti vanno a attingere acqua ai pozzi per annaffiare l’orto, ma tirano su gasolio: la falda idrica è coperta dai residui del vicino petrolchimico.
Casi simili sono frequenti, un po’ ovunque in Italia: tanto che ci stiamo facendo l’abitudine. Per decenni i reflui delle attività industriali sono finiti nei terreni o nei corsi d’acqua, sono stati sepolti in discariche più o meno selvagge. Si sono accumulati nei terreni, hanno contaminato fiumi e falde idriche: così oggi conviviamo con la diossina, il piombo, il Pcb nei giardinetti o gli idrocarburi nelle falde, e quasi non ce ne rendiamo conto. A volte bidoni pieni di residui tossici riemergono per caso, magari dagli scavi per una nuova strada o per risistemare un argine. A volte scoppia un caso, quando si scopre che canali e acque di falda sono sature di qualche veleno di cui avevamo perso la memoria. Un decano dell’ambientalismo italiano, il chimico e merceologo Giorgio Nebbia, sostiene che per studiare l’inquinamento non bastano la chimica, la biologia o l’ingegneria, è indispensabile anche la ricerca storica: «Solo la storia delle industrie e delle produzioni può indicare quali materie prime sono state usate, quali prodotti sono stati fabbricati, quali scorie sono state prodotte»[1].
Negli anni Novanta in Italia molti siti industriali sono stati dichiarati “ad alto rischio di crisi ambientale”. Così la zona di Portovesme in Sardegna e quella di Augusta e Priolo in Sicilia, e poi Taranto con lo stabilimento Italsider (in seguito diventato Ilva). E il polo industriale di Porto Marghera di fronte a Venezia, e Piombino con le sue acciaierie. E l’elenco potrebbe continuare: uno dopo l’altro sono stati dichiarati “a rischio” stabilimenti chimici, poli petrolchimici, impianti siderurgici.
Eppure erano le industrie simbolo del “miracolo italiano” negli anni Sessanta del secolo scorso. Alcune sono anche più antiche, furono fondate all’inizio del Novecento con la prima industrializzazione italiana: come le acciaierie di Bagnoli, nate nel 1906; le fabbriche di esplosivi di Colleferro negli anni Dieci, o l’insediamento di Porto Marghera nel 1917, nell’era del capitalismo idroelettrico e del carbone. Tutto è accelerato poi nel secondo dopoguerra, quando l’Italia è entrata nell’era del petrolio e della motorizzazione di massa, con le raffinerie, l’industria petrolchimica, le plastiche. (Non che il carbone sia scomparso, ma da allora è rimasto confinato alla siderurgia e alle centrali elettriche).
Certo è che queste industrie hanno trasformato un paese per lo più rurale e arretrato in una nazione industrializzata. Per alcuni decenni hanno dato lavoro a centinaia di migliaia di persone, sfornato operai specializzati, generato professionalità. Hanno creato benessere, non si può negare. Hanno anche impestato l’aria, i terreni, i fiumi, le falde idriche: ma negli anni della grande crescita economica pochi ci facevano caso. Magari abbiamo sentito un nonno raccontare «in quel fiume andavamo a pescare», una mamma dire «là c’era la spiaggia dove andavamo da bambini» – una spiaggia che non esiste più, perché il mare è stato interrato e sopra ci hanno costruito un’acciaieria (è successo negli anni Cinquanta a Cornigliano, alle porte di Genova). Ma erano cose dette così, con quel tono di nostalgia di chi evoca l’infanzia: perché in realtà l’inquinamento era visto più o meno come un male inevitabile e nessuno aveva da ridire. E si capisce, l’Italia usciva appena dalla povertà e dall’arretratezza, oltre che dalla guerra. «Finché il petrolchimico dava lavoro, l’inquinamento non lo sentivamo», ammette oggi un ex operaio del petrolchimico di Augusta. «Su tutto prevaleva la necessità del lavoro», riconosce un medico di Portoscuso.
Insomma: per decenni territorio, ambiente, risorse naturali – acqua, aria e tutto il resto – sono stati considerati beni a disposizione dello sviluppo industriale, «concessi all’industria in uso gratuito e senza alcun vincolo»[2]. Le opposizioni e i sindacati dei lavoratori criticavano altre questioni – salari troppo bassi, mancanza di servizi, costi sociali rovesciati sulla collettività, questioni che avevano a che vedere con i diritti del lavoro e la redistribuzione del reddito: ma le variabili dell’ambiente e della salute non erano entrate nel discorso pubblico. I costi ambientali non sono stati inclusi nel conto. Finché è diventato impossibile continuare a ignorarli, e allora la crisi è scoppiata.
Una nuvola su Seveso e le prime leggi sull’ambiente
Il primo shock arriva nel 1976. Il 10 luglio, un sabato, una densa nuvola di fumo esce dallo stabilimento chimico Icmesa di Meda, una ventina di chilometri a nord di Milano, in una delle province più densamente industrializzate d’Italia. Sospinta dalla brezza la nuvola si sposta verso sud-est, investe la vicina Seveso, in parte i territori di Desio e Cesano Maderno, poi si disperde. Inutile cercarne notizia sui giornali del giorno dopo: oggi sappiamo che fu il più grave disastro dell’industria chimica civile in Europa, ma sul momento la cosa passò inosservata. Solo all’indomani dell’incidente i tecnici dell’impresa informano il sindaco di Seveso, e il giorno dopo avvertono l’ufficiale sanitario. Spiegano che si tratta di triclorofenolo, sostanza usata per i diserbanti; che un reattore chimico in fase di raffreddamento si è inspiegabilmente surriscaldato fino a esplodere. L’Icmesa apparteneva a una società svizzera, la Givaudan, che a sua volta apparteneva a Hoffmann-La Roche, una delle più note multinazionali della chimica farmaceutica.
In realtà, già il giorno dopo l’incidente i tecnici della Givaudan avevano capito che quella nuvola conteneva anche tetra-cloro-dibenzo-p-diossina, o Tcdd, la più pericolosa della famiglia delle diossine, ovvero uno dei più pericolosi sottoprodotti della reazione chimica, sostanza pericolosa già in microgrammi: ma si guardarono ben dal dirlo. Erano “i giorni del silenzio”: nessuno sapeva, e chi sapeva stava zitto.
Cinque giorni dopo l’incidente gli ufficiali sanitari accertano numerosi casi di intossicazione, che si manifestavano con febbre, bruciori sul corpo e grandi macchie rosse sul viso (si tratta di cloracne, ma i medici non lo sanno ancora). Il 16 luglio quindici bambini vengono ricoverati in ospedale, alcuni in condizioni gravi, e i medici non sanno che terapia applicare: nessuno ancora ha nominato la diossina. Il 17 luglio, ben sette giorni dopo il fatto, notizia dell’incidente arriva finalmente sulle pagine dei quotidiani. Le prime ammissioni arrivano solo il 19 luglio, quando i responsabili dell’azienda ammettono che la situazione è molto grave perché in quei 400 chili di prodotti chimici volati in aria ci sono almeno 14 chili di diossina. Al di fuori degli esperti però, tra i funzionari locali non molti sanno davvero cosa sia questa sostanza. Eppure nel mondo erano già noti altri incidenti con diffusione di diossine, e gli studi su questi casi erano ormai entrati nella letteratura scientifica mondiale (i tecnici intervenuti a Seveso se servirono poi per stimare il livello di pericolo e definire zone di sicurezza intorno all’area del disastro).
Intanto le piante intorno alla fabbrica sembrano bruciate da qualche acido, gli animali muoiono, aumentano i casi di intossicazione. Quindici giorni dopo l’incidente, la regione Lombardia istituisce una Commissione per dare pareri sugli aspetti sanitari di quello che ormai appare per quello che è, un disastro gravissimo. Il 26 luglio, sedici giorni dopo l’incidente, a Seveso e Meda arriva l’esercito, con filo spinato e cavalli di frisia, per sgomberare la “Zona A”, la più contaminata. In seguito viene definita una “Zona B”, meno contaminata ma più ampia, dove è vietato consumare i prodotti degli orti. Più di settecento persone, cioè 204 famiglie, dovranno sfollare: mesi dopo non sanno ancora se e quando torneranno nelle proprie case (molti non ci torneranno mai).
«Si era creata un’atmosfera di paura e di rabbia, i cittadini erano furiosi», ricorda Gianni Tognoni, medico e epidemiologo, allora ricercatore all’Istituto Mario Negri: in quel luglio 1976 era uno dei tecnici mandati a misurare la presenza di diossina nel territorio investito dalla nuvola dell’Icmesa. «L’Istituto aveva appena comprato uno spettrometro di massa, uno dei primi, e grazie a questo nei quattro o cinque giorni successivi all’esplosione abbiamo visto i picchi di diossina nel terreno». C’era un tale clima di rabbia, racconta, «che quando andavamo a prelevare i campioni ci mandavano i carabinieri di scorta»[3].
Solo nel giugno del 1977, dopo quasi un anno di proteste, polemiche e rinvii, la regione Lombardia istituisce un “Ufficio speciale per Seveso”. La bonifica comincia infine nel ’81, e durerà diversi anni. È la prima volta in Italia che si pone il problema di ripulire una zona contaminata da inquinamento industriale. “Bonifica” in questo caso vuol dire scavare e portare via il terreno contaminato per circa mezzo metro di profondità, ma fino a novanta centimetri nei punti più colpiti. Scartata l’idea di incenerirlo, quel terreno intriso di diossina verrà sepolto in due grandi vasche, ben isolate con diverse barriere di sicurezza e interrate in profondità. Là sono finiti anche gli animali morti, gli oggetti personali e i detriti delle case evacuate, tutto ciò che era stato contaminato dalla diossina. Parte del materiale più pericoloso sarà invece sigillato in 41 fusti, che Hoffmann-La Roche si era impegnata a prelevare e smaltire: i “bidoni di Seveso” sono rimasti in ballo per anni, prima trafugati illegalmente in Francia, poi segnalati in Italia, finalmente smaltiti in Germania[4]. La zona ripulita è stata infine ricoperta di terra buona portata da altrove. Sorvoliamo qui sulla vicenda legale: Hoffmann-La Roche fu costretta ad accettare la responsabilità per l’azienda “figlia”, ma poi se la cavò con un risarcimento, concordato con la regione Lombardia, che ha fatto decadere il procedimento penale.
Oggi chi va a Meda trova un bel parco, il Bosco delle querce: creato negli anni Ottanta, occupa quarantadue ettari di terreno bonificato della vecchia Zona A. È aperto al pubblico, salvo una zona “di rispetto” (dove sono interrate le vasche); ospita attività ricreative e culturali e anche un archivio[5]. Una zona verde nel cuore della Brianza, sul luogo del più grave disastro industriale avvenuto in Europa.
Il disastro di Seveso ha segnato una svolta per diversi aspetti. Uno riguarda l’informazione, la diffusione delle conoscenze. Nei primi anni Settanta alcuni medici del lavoro ed epidemiologi avevano cominciato a prestare attenzione alla salute e alla nocività nelle fabbriche. Una delle prime analisi puntuali su cosa era successo alla Icmesa di Meda, sulla produzione di triclorofenoli, le diossine e i dettagli del disastro, è stata quella del “Gruppo di prevenzione e igiene ambientale” del Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza (Varese), a cui avevano collaborato due professori di chimica dell’Università di Milano (fu pubblicata dalla rivista Sapere, in un numero speciale su Seveso in cui si ricostruivano anche le omissioni e i silenzi nella gestione del disastro, le conseguenze sanitarie, le responsabilità[6]). Il gruppo di Castellanza nasceva da un lavoro comune tra lavoratori e “tecnici”, sindacalisti, medici e scienziati, e fu il primo nucleo dell’associazione Medicina democratica costituita formalmente proprio nei primi mesi del ’76.
Con il disastro dell’Icmesa però non era in questione solo la sicurezza nelle fabbriche, ma quella di tutto il territorio e della popolazione circostante. «Era cominciato un percorso collettivo di presa di coscienza del rapporto tra la fabbrica e il territorio, la salute, l’ambiente, che coinvolgeva operatori della sanità, tecnici, sindacati, lavoratori, cittadini», dice Gianni Tognoni. «L’epidemiologia ambientale e sociale, nata allora, era espressione di una cultura di cittadinanza fondata sulla partecipazione, e sull’idea che questa sia una delle espressioni della democrazia». Lavoratori che si mettono a studiare per capire cosa succede nelle loro fabbriche; medici, tecnici, scienziati che vanno nei distretti industriali a indagare i rischi: ne incontreremo, in questo viaggio nell’Italia inquinata.
Lo shock della diossina ebbe riflessi in tutta Europa. È conseguenza di quel disastro la prima direttiva dell’Unione europea sulla sicurezza industriale, non a caso chiamata direttiva Seveso. In sostanza ha stabilito che sostanze nocive e lavorazioni potenzialmente pericolose devono essere dichiarate e censite; che vanno confinate a distanza di sicurezza dalle abitazioni, e che le autorità locali devono predisporre piani d’emergenza in caso d’incidente: proprio perché non succeda mai più quel che è avvenuto nella cittadina lombarda. Non succeda, ad esempio, che dei medici non sanno come curare delle persone intossicate perché l’azienda responsabile non vuole rivelare le sostanze coinvolte: proprio come era successo a Seveso in quei primi giorni.
Quanto all’Italia, fu allora che cominciò a prendere corpo una legislazione ambientale. C’era già la prima legge sull’inquinamento atmosferico, detta “legge anti smog”, approvata nel 1966 (ma poi c’erano voluti cinque anni solo per avere i “decreti attuativi”, e altri ancora per un’applicazione concreta). Solo dopo però sono arrivate norme più stringenti, come la legge sugli scarichi inquinanti nei fiumi, detta legge Merli (1976), o la legge di attuazione della direttiva Seveso[7].
Cittadini mobilitati nell’Italia inquinata
L’attenzione pubblica all’inquinamento, l’ambiente e la salute, cominciava ormai a farsi strada. Denunce e proteste si moltiplicavano. Si potrebbe ricordare l’Acna, una fabbrica di coloranti e altri prodotti chimici nel comune di Cengio, sulle montagne tra il savonese e il Piemonte, che per un secolo aveva avvelenato il fiume Bormida e tutta la sua valle: finché negli anni Ottanta un movimento di cittadini cominciò a chiedere che fosse chiusa. Il caso dell’Acna ebbe notorietà anche perché abitanti e lavoratori si trovarono su fronti contrapposti, e irriducibili: fu chiamato scontro “rosso-verde”, sindacati operai contro ambientalisti.
Destò impressione anche l’incidente alla Farmoplant di Massa, dove fu sfiorata la strage. Anche là si trattava di uno stabilimento chimico: un giorno del luglio 1988 un serbatoio esplose, si staccò dalla base di cemento a cui era ancorato e partì come un missile innescando un gigantesco incendio. Quel giorno centinaia di migliaia di persone fuggirono dalle proprie case, dagli alberghi e dai campeggi della costa in preda al panico. Ma poteva andare molto peggio. Per puro caso il serbatoio esploso si abbatté sugli spogliatoi degli operai: se fosse andato a investire i contenitori di altre sostanze pericolose, il bilancio sarebbe stato ben più tragico.
In quegli anni Ottanta era nata Legambiente, la prima organizzazione su scala nazionale a battersi «in nome del popolo inquinato». Anche associazioni storiche come il Wwf avevano cominciato a occuparsi di inquinamento. Arrivava l’eco di eventi terribili come quelli di Bhopal, in India, dove nel dicembre 1984 l’esplosione di un serbatoio in uno stabilimento chimico rilasciò tonnellate di gas tossici che investirono i poverissimi quartieri operai di fronte alla fabbrica: sei o settemila persone morirono quella stessa notte e molte di più nei mesi e anni successivi. C’era stato anche il disastro nucleare di Cernobyl, nel 1986 in Ucraina, che aveva diffuso radioattività e acceso proteste in tutta Europa – anche in Italia fu vietato mangiare verdure e bere latte fresco per evitare la contaminazione.
Insomma, mille “crisi ambientali” erano scoppiate. Eppure, la consapevolezza sui rischi dell’inquinamento industriale per l’ambiente e per la salute si è generalizzata in Italia solo più tardi, negli anni Novanta, quando il declino della chimica e della siderurgia è diventato irreversibile e le fabbriche hanno cominciato a ridimensionare o a chiudere. Solo allora, quando è scomparso il lavoro, è stato chiaro che decenni di industrializzazione avevano lasciato rischi per la salute e un ambiente devastato.
Oggi dunque l’Italia è cosparsa di siti industriali inquinati e in attesa di bonifica: monumenti all’inquinamento e alla de-industrializzazione. In questo libro ne visitiamo alcuni. In qualche caso continuano a fare notizia, come l’Ilva di Taranto; altri sono passati quasi sotto silenzio – come la valle del fiume Sacco a sud di Roma. Alcuni hanno fatto storia, come Porto Marghera con il processo ai dirigenti della Montedison. Altri non sono neppure riconosciuti: come i distretti delle cave intorno a Brescia, trasformati in un’impressionante concentrazione di discariche speciali.
Ovunque troveremo gruppi di cittadini mobilitati per rivendicare bonifiche, contro le discariche, per la salute collettiva. Cittadini, operatori della salute, medici, a volte magistrati, spesso anche lavoratori. Come gli operai di Portovesme, che si sono mobilitati contro l’inquinamento quando hanno capito che i loro figli avevano nel sangue il piombo disperso dalle loro fabbriche.
Note
[1] Giorgio Nebbia, «La ricerca storica come condizione imprescindibile per affrontare il problema delle aree industriali inquinate». Intervento al convegno Puliamo l’Italia, Dall’archeologia industriale alla rigenerazione del territorio. Brescia, 14-15 ottobre 2013 (www.industriaeambiente.it/convegno_sin/allegati/Nebbia_La-ricerca-storica.pdf ). Nebbia ha ispirato il progetto Altronovecento sui rapporti tra industria e ambiente, con la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia (www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/Default.aspx )
[2] Cito da Pier Paolo Poggio e Marino Ruzzenenti, autori di una delle prime ricerche storiche sul rapporto tra industria e ambiente, nell’introduzione a Il caso italiano. Industria, chimica e ambiente, Jaca Book 2012, pag 11.
[3] Conversazione con l’autrice, luglio 2017. Gianni Tognoni, medico, farmacologo e epidemiologo, ha avuto vari incarichi dirigenziali all’Istituto Mario Negri e ha diretto il Consorzio Mario Negri Sud. È anche segretario del Tribunale Permanente dei popoli, a cui ha lavorato fin dall’inizio con il fondatore Lelio Basso.
[4] Ricostruisce questa storia Paolo Rabitti in Diossina, la verità nascosta, Feltrinelli, 2012.
[5] Vedi www.boscodellequerce.it. Per la cronologia degli eventi ho attinto da «Seveso e l´Icmesa dall’insediamento della fabbrica al dramma del 10 luglio 1976», tesi di Massimiliano Fratter, corso di laurea in Storia. Anno Accademico 1998/99, in www.boscodellequerce.it/bdq/storia-dellincidente/.
[6] «Seveso, un crimine di pace», Sapere n. 796, nov-dic 1976. Sapere era allora diretta dal medico e biologo Giulio Maccacaro (1924-1977), che ebbe un ruolo trainante nel “Gruppo di prevenzione”, in cui collaborò con il Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza, sia nella fondazione di Medicina Democratica, “movimento di lotta per il diritto alla salute”.
[7] Nel 2006 l’insieme delle normative ambientali sono state raccolte in un Testo unico noto come “Codice dell’ambiente”.
[Immagine: Seveso].
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
Altri articoli della rubrica:
1. Politica, ontologie, ecologia, 22.2.2019
2. La natura è un campo di battaglia, di Razmig Keucheyan, 14.3.2019