di Sabrina Ragucci

 

[Si inaugura oggi, presso il MAR – Museo d’arte della città di Ravenna, la mostra Arrigo Dolcini, professione fotografo. Marina di Ravenna negli anni ‘50 e ’60].

 

Le fotografie contengono un nucleo irriducibile di realtà, diceva Szarkowski, e al contempo si presentano come oggetti con una vita propria. Descrivendo la fotografia come oggetto_1, Shore, scriveva che essa può essere conservata in una scatola o in un museo; può essere riprodotta come notizia o pubblicità; può essere conservata perché utile o come un pezzo d’arte. Di certo, nell’accumulo l’oggetto si trasforma in tessuto tramato, un evento unico che ci avvolge, ci afferra, ci prende nella sua rete_2, in modo che lo spettatore sia costretto a passare attraverso foreste di simboli che l’osservano con sguardi famigliari_3.

 

Arrigo Dolcini, di professione fotografo, poco prima di morire il 28 marzo 1994, chiede all’amico Pericle Stoppa se lui, Pericle, dopo la sua morte, potrà occuparsi dell’archivio.

 

In questa richiesta c’è qualcosa che ricorda Totò ne La banda degli onesti_4, una scena non mitica, ma di raccordo, una scena che – al di là della finzione surreale – risulta autentica nelle sfumature esistenziali: il portiere Totò, alias Antonio Bonocore, sale da un moribondo, inquilino dello stabile che Bonocore stesso presiede, e porta il latte (il latte bianco adatto a chi nasce e a chi muore). Il moribondo, l’inquilino signor Andrea, ex incisore, decide di lasciare ad Antonio un compito e il suo bene più caro, qualcosa che, amareggiato, l’inquilino signor Andrea ha sottratto sul luogo di lavoro («dopo quarant’anni di servizio, lo sa con quanto mi hanno mandato in pensione?»): si tratta di alcuni cliché della Banca d’Italia, accompagnati dalla carta filigranata di Stato, materiale utile a stampare banconote da 10.000 lire. Una scena laterale, appunto, non a caso poi citata e rivisitata in Scusate il ritardo, di e con Massimo Troisi, alias Vincenzo (in anticipo rispetto agli anni Zero, Vincenzo, a differenza di Bonocore, è già senza cognome). Vincenzo, trentenne, vive con la madre ed è proprio la madre a insistere affinché il figlio, eterno adolescente, porti il mangiare all’anziano professore che abita al piano di sopra. Dopo un lungo divagare, il professore dice: «Vincé, se dovessi morire (…)». È il medesimo se dovessi morire dell’ottantaseienne Arrigo Dolcini rivolto al più giovane Pericle Stoppa, un cominciamento di frase che conferma nel destinatario dell’ipotesi la necessità di esitare, di prendere tempo, di non credere alla morte imminente. L’aura di Benjamin, per il suo «singolare intreccio di spazio e tempo»_5, arriva dopo, vive nel futuro e guarda al passato, un futuro sempre imprevedibile, eppure inevitabilmente certo: la morte del mittente. L’aura persistente sottotraccia è la costante di un’opera e indica: Arrigo Dolcini è stato qui. La banda degli onesti e Scusate il ritardo sono due film così italiani da comprendere tanto Arrigo Dolcini – fotografo molto attivo tra il 1956 e il 1983 – quanto il Dopoguerra e la fine dei Settanta. Non più neorealismo, già commedia (umana).

 

L’eterogenesi dei fini ha riconosciuto e permesso all’archivio Dolcini, di aderire al suo primigènio intento documentario, e quindi di trasformarsi da negotium in arte. Il tesoro è stato ritrovato in un mercatino a Marina di Ravenna, all’inizio degli anni Zero, prima di essere conservato dal 2007 alla Fototeca della Biblioteca Classense. Ora, finalmente, grazie alla selezione e rivisitazione della curatrice – la fotografa Alessandra Dragoni – l’archivio Dolcini approda al Mar, Museo d’arte della città di Ravenna_6, per essere restituito alla comunità, all’aura, al potere della distanza, ai suoi abitanti immortali, «apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina»_7.

 

Cosa conosciamo davvero, cosa ricordiamo? Includendo ciò che ricordiamo di quel che è stato fatto ieri. Arrigo Dolcini era un professionista, all’inizio degli anni Cinquanta ha aperto un negozio a Marina di Ravenna, Foto Nettuno; la fotografia, per lui, è stata letteralmente un’occupazione, un’attività, ma la fotografia di Dolcini è stata anche orgogliosamente fotografia vernacolare, gesto e campo dell’errore. Senza dubbio questa fotografia, accumulata da Arrigo Dolcini per più di vent’anni, appartiene alla medesima arte, amata da curatori e artisti della modernità, in prevalenza americani, perseveranti in una composizione che immaginava persino negare la presenza di un autore dietro lo scatto, tanto che, per paradosso, lo stesso nome dato al negozio da Dolcini, Foto Nettuno, in modo sorprendente sottolinea quell’intento, rimandando alla nota storiella: Chi è il dio del mare?/ Nettuno/ Impottibile, qualcuno deve pur ettere! Una fotografia che è ripetizione del gesto, fissità di tempo e contesto, luogo in cui il – più volte evidenziato – particolare si trasforma in discorso collettivo: ecco la festa della fine di un’epoca, quando ci si rivolgeva a un fotografo per un ritratto o una fototessera, e proprio ad Alessandra Dragoni è toccato vivificare la naturale e moderna, fittiziamente inconsapevole, disposizione metafotografica di Dolcini, così da ritrovare nelle nuove stampe, e nella sequenza ideata da Dragoni, qualcosa che afferma e insegue l’essenza della fotografia, la fotografia che si interessa della fotografia in sé.

 

Arrigo Dolcini è nato nel 1908, all’inizio del Secolo breve, stesso anno di nascita di Cesare Pavese, stesso anno di realizzazione del dipinto di Umberto Boccioni, Il romanzo di una cucitrice; una giovane cucitrice legge seduta accanto a una finestra da cui entra la luce del sole, la macchina da cucire a lato, a riposo. La stessa luce del sole, inseguita da Dolcini per tutto il suo tempo di fotografo. Prima di aprire il negozio, Arrigo Dolcini è stato tante cose, soprattutto è stato un bambino lavoratore, come accadeva in Italia, e non solo. C’è una fotografia del 1918 che lo ritrae con il fratello Renato, entrambi indossano una giacca bianca da barbiere. Arrigo appoggia la mano destra alla bicicletta del fratello, la ruota anteriore avanza verso di noi, ed è lisa, i pantaloni di entrambi sono corti, eredità di un’epoca che era solo a prima vista in via d’estinzione; la mano sinistra è nascosta dietro le spalle in un gesto paziente, Renato siede di traverso sulla canna, i suoi piedi incrociati si incontrano e si arrestano al limitare del piede destro di Arrigo: i fratelli Dolcini sono in attesa che qualcosa accada, e infatti un’altra guerra mondiale li separerà dal loro presente. Si sono trasferiti a Marina di Ravenna da Forlì, la madre ha deciso di aprire un’edicola, grazie alle agevolazioni del nuovo piano regolatore del 1909: qui si tratta di inventare il turismo di massa, come ci indica Giorgio Falco in Condominio Oltremare, lasciando la parola a Tiberio Muccioli_8, sindaco di Cervia nel 1873: [Cervia] «Invita l’Operaio che è riuscito a riunire un gruzzolo di L.100, frutto di continuati lavori per mandare ai Bagni la malaticcia Consorte o qualche figliuolo; Invita in una parola tutti i poveri diseredati dalla fortuna (…)». Arrigo Dolcini è stato la cucitrice di Boccioni, rimasto seduto accanto a quel mondo, il suo. «Tu sei uno di noi, Issione. Tu sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga. Essi tastano tutto da lontano con gli occhi (…)»_9. E sono proprio gli abitanti del paese di Dolcini, tra compleanni, cresime, comunioni e tempo libero, ad assurgere a quell’unica immortalità possibile che è la testimonianza di ciò che siamo per il tramite di ciò che siamo stati.

 

Sembra quasi impossibile che le fotografie di Arrigo Dolcini non siano state influenzate dalla fotografia americana degli anni Settanta, in particolare da Diane Arbus, Garry Winogrand, Lee Friedlander e William Eggleston. Sebbene più giovani di Dolcini, questi artisti colti e disinvolti erano già molto noti, appartenenti a una cultura anglossassone dominante e meritoriamente   disposta a investire nelle arti; il loro lavoro era costruito su un’attenta osservazione critica e una conseguente oggettivazione di soggetti banali, su composizioni in apparenza tagliate con l’accetta, direbbe Guido Guidi, anch’egli erede consapevole delle teorie di Szarkowski. Tutti loro, Arbus, Winogrand, Friedlander, Eggleston, Guidi, in quegli anni hanno indagato la definizione estetica dell’istantanea, teorizzata e canonizzata dalle cartoline di Walker Evans, e dal suo stile documentario, a sottolineare non una negligenza ma l’appartenenza a una tradizione specificamente fotografica. Pericle Stoppa, dicendo che «Arrigo non conosceva nulla, era un autodidatta assoluto», ci riporta all’enigma (anche commerciale) ormai risolto di Vivian Maier, collezionista compulsiva di giornali e riviste. Danilo Montanari, raffinato editore d’arte (e di questo volume, tra l’altro), anch’egli di Marina di Ravenna, possiede una magnifica piccola stampa del chiosco dei gelati Dolcini, appartenuto ai genitori di Renato e Arrigo, quel chiosco che – prima di essere chiosco dei gelati – era stato probabilmente l’edicola della madre. Sappiamo dunque che i fratelli sono cresciuti con le riviste illustrate dell’epoca e hanno assorbito in modo istintivo un modello. Quindi, la questione non è più se Arrigo sia stato influenzato dai fotografi moderni, ma come, anch’egli, appartenga a quella tradizione, all’estetica dell’istantanea, poiché proprio la sua permanenza nello stile del linguaggio fotografico fa di lui un fotografo moderno, tanto che una delle sue fotografie potrebbe rientrare in un’antologia curata da Szarkowski, Shore, Guidi.

 

Per una qualche ignota ragione, i fratelli Dolcini non hanno combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale. Renato, considerato dai suoi concittadini il fratello talentuoso ed eccentrico, è sempre stato alla ricerca di qualcosa di imperscrutabile: dal moto perpetuo alla musica di un violino riassemblato; invece Arrigo aveva fama di essere riservato e taciturno. Sappiamo bene che, sebbene Arrigo Dolcini non sia stato in guerra, è impossibile affermare che non l’abbia vissuta, semplicemente non ne parlava. Non a caso la rimozione è stata il fondamento della nuova repubblica, dopo la sconfitta di una maggioranza che si era detta fascista, cosa si poteva fare? Forse la rimozione è sembrata l’unica soluzione praticabile, per tamponare una guerra civile e ricomporre la pacificazione; di sicuro il compito del fotografo di Marina di Ravenna è stato quello di accogliere tutti in silenzio, descrivere i superstiti senza più giudicarli. Arrigo Dolcini ha registrato l’euforia degli adolescenti ubriachi, le pose ancora di provenienza autoritaria, le mani sui fianchi di donne, uomini e bambini sulla battigia (tanti piccoli e grandi Mussolini), le cene in trattoria, la maternità, l’ingresso precoce nella vita da adulti, il circo, l’ebbrezza della sopravvivenza. Guardando le fotografie sembra che Arrigo Dolcini non abbia mai sognato di viaggiare oltre la sua spiaggia. Ne Il mestiere di vivere, Pavese scrive: «La noia indicibile che ti dànno nei diari le pagine di viaggio». Dolcini ha vissuto tra la spiaggia e il suo negozio, che vi si affacciava. Soprattutto ha camminato a lungo e fotografato. A smentire la meravigliosa definizione di fotografia – citata da Szarkowski_10,- data da Walker Evans “non vera tranne che per Walker, ma assolutamente vera per lui”: «mai, in nessuna circostanza [la fotografia] è fatta in qualche luogo vicino a una spiaggia». Dal Dopoguerra fino al 1957, come in uno stato di incubazione, prima di diventare per molti anni l’unico fotografo di Marina di Ravenna, Arrigo Dolcini era già fotografo lungo quei pochi chilometri di spiaggia che rappresentano il nucleo del suo lavoro. Ecco che si inventa il mestiere di fotografo da spiaggia. Insiste lungo la battigia tutto il giorno, da giugno a settembre, alla ricerca di clienti che ora, visti da qui, ci appaiono, sopra ogni cosa, i suoi veri fratelli.

 

 

Milano, 21 marzo, 2019

 

 

Note

1 Stephen Shore in Nature of Photographs

2 Georges Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze, Fazi editore, 2008

3 L’homme y passe à travers des forêts de symboles/Qui l’observent avec des regards familiers. Baudelaire. Les Fleurs du Mal, IV (1857)

4 Banda degli onesti, 1956, diretto da Camillo Mastrocinque, sceneggiatura di Age&Scarpelli

5 Walter Benjamin, Breve storia della fotografia

6 Arrigo Dolcini, professione fotografo, Marina di Ravenna negli anni Cinquanta e Sessanta, dal 27 aprile 2019 al 30 giugno 2019. 90 stampe 20×30, estratte da un archivio di 25.000 negativi, la curatrice Alessandra Dragoni ne ha visionate 12.000.

7 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (seconda stesura), citato anche da Georges Didi-Huberman, ne il gioco delle evidenze, Fazi editore, 2008

8 Giorgio Falco, Sabrina Ragucci, Condominio Oltremare, L’orma editore, 2014

9 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, 1953

10 Szarkowski at the Modern, in Jerome Liebling (a cura di), Photography. Current Perpectives, Rochester: Light Impressions, 1978 (pubblicato originariamente in The Massachusetts Review, Inc., 1978) Maren Stange

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