di Andrea Cortellessa

 

 

[Sull’«artista italiano più noto nel mondo» (così nella quarta di copertina), Maurizio Cattelan, è appena uscito – nella nuova collocazione editoriale di Quodlibet (pp. 237, € 20) – il numero 39 della rivista «Riga», curato da Elio Grazioli e Bianca Trevisan. Oltre a quattro interviste all’artista, il fascicolo come sempre propone, accanto a interventi critici già editi, altri composti per l’occasione, fra i quali proponiamo quello di Andrea Cortellessa. Lo stesso insieme ai curatori, a Marco Belpoliti e a Riccardo Venturi, presenterà il numero di «Riga», alla Sala Graziella Lonardi Buontempo del MAXXI di Roma, venerdì 3 maggio alle 18.30].

 

Fu vera gloria? Ai posteri
L’ardua sentenza

 

Manzoni – l’altro –, Il cinque maggio

 

 

Italia sì Italia no Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì puoi dir di no, ma questa è la vita.

 

Elio e le Storie Tese, La terra dei cachi

 

 

Se risponde al vero l’idea di Bartolomeo Pietromarchi, secondo il quale è almeno dagli anni Sessanta delle seconde avanguardie che si sarebbe fatta quanto meno problematica l’interpretazione intellettuale dell’identità italiana, un’interpretazione da quel momento necessariamente ironica, ambivalente (basti pensare ai titoli emblematici di due ormai classici romanzi-antiromanzi, entrambi inevitabilmente datati 1963: Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino e Capriccio italiano di Edoardo Sanguineti), nessuna opera d’arte meglio del Bel Paese di Maurizio Cattelan, realizzata in un altro anno-chiave come il 1994 e da allora esposta al Castello di Rivoli, pare dar corpo a questo nodo di contraddizioni. Nell’espressione di matrice nobilmente letteraria che la intitola, e che per inveterata tradizione designa l’Italia, persino la voce di wikipedia.en ravvisa infatti una sfumatura ironica. La stessa impiegata già da James Joyce nel Finnegans Wake, definendolo con un suo tipico pun «illbelpaese»: avendo finito, come capita a quasi tutti i veri innamorati dell’Italia, per odiarne certe sue storture antropologiche e sociali (il bel paese è infatti, per antonomasia, pure ill, cioè “malato”: una Waste Land insomma – o un formaggio scaduto).

 

Il paese per antonomasia bello, di natura e d’arte, era del resto già per i viaggiatori europei del Grand Tour, in effetti, un «paradiso abitato da diavoli»: quelli che, due anni dopo Il Bel Paese di Cattelan, mettevano in scena – tra «papaveri e papi», «donne cannolo», «primari fantasma» e «commando omicidi» – Elio e le Storie Tese, lucidissimi proprio perché farseschi, sul palco per eccellenza nazionalpopolare del Teatro Ariston di Sanremo. Il belpaese era diventato La terra dei cachi. Uno sberleffo atroce – nelle intenzioni, dicono ora gli Elio, parodia della canzone “impegnata”, foglia di fico festivaliera che funziona però, a tutti gli effetti, come una canzone davvero “impegnata” – capace tuttavia di imporli definitivamente, nonostante la loro cifra colta e paradossale, come icona pop, cioè nazional-(anche)-popolare. Loro coetaneo, anche Cattelan è un artista sbucato da sottoterra (emblematico l’Untitled del 2001, colla sagoma dell’artista che fa capolino appunto da una buca, effrazione proditoria nel cosmo ordinato e sussiegoso della sala museale) per poi inopinatamente assurgere all’empireo del sistema dell’arte globale. Non casuale neppure la figura della sospensione che (a partire almeno dal cavallo di Novecento, 1997) è una vera e propria ossessione di Cattelan. Il quale, ha ricordato Marco Belpoliti, ha raggiunto il suo massimo succès de scandale coi bambini impiccati il 5 maggio 2004 a un albero di Porta Ticinese: allusione, a un tempo, al burattino impiccato di Pinocchio e al Duce a testa in giù di Piazzale Loreto (nonché, aggiungo, alla «spoglia immemore» dell’«uom fatale», il Napoleone commemorato da Manzoni cui tanto il Duce s’ispirava). Questo etimo mortifero fa sì che la grande personale All, vera e propria consacrazione di Cattelan curata da Nancy Spector al Guggenheim di New York nel 2011 – dove tutti i suoi lavori erano appesi al soffitto del Museo – appaia a Belpoliti «come un’esecuzione di massa».

 

Forse però, più che come una fantasia di apocalittica giustizia sommaria, come la intende Belpoliti, la funebre fantasmagoria del Guggenheim può essere letta quale fantasia suicidaria: impiccati al cielo dell’arte globale sono i tanti “piccoli me” rappresentati dalle opere passate di Cattelan e ora messi a morte, convocati en suspendu come, a loro tempo, i mini-autoritratti delegati a disegnatori di identikit in Super Noi del ’99: di lì il rimpicciolimento che connoterà i suoi autoritratti successivi (dove appunto «l’artista appare come un adulto rimpicciolito (Mini-me) e l’io dell’artista si è ristretto», ha scritto Pietromarchi; ma tale appare, si badi, pure l’icona di Hitler nel lavoro forse in assoluto più celebre di Cattelan, Him del 2002). Una messa a morte simbolica con la quale Cattelan annunciava una prima volta – la prima di una lunga serie – l’intenzione di sospendere definitivamente la propria attività artistica: la quale di contro prosegue tuttora, in effetti, ma con l’allusivo status di opera sospesa. Anche in questo caso al pari di Elio e le Storie Tese: i quali, dopo aver ufficialmente annunciato il proprio scioglimento, hanno varato un prolungato tour che proclamano il primo del gruppo sciolto (con allusione, conoscendo i compiacimenti scatologici che ricorrono nel loro corpus, vagamente oscena). Sicché non è un caso che, in uno degli irriverenti scambi di personalità coi quali riesce ancora a offendere il sistema dell’arte (o almeno certe sue frange più refrattarie all’ironia), Cattelan abbia scelto di mandare appunto Stefano Belisari, in arte Elio, a ritirare in sua vece, nel 2009, il premio alla carriera della XV Quadriennale di Roma (dando così vita a un gustoso happening che si potrebbe intitolare, parafrasando Heidegger, Perché l’arte nel tempo di «Scherzi a parte»?).

 

Sebbene Il Bel Paese sia opera in effetti di formato piuttosto grande (ha un diametro di tre metri), non sorprenderà a questo punto che sia a tutti gli effetti un’Italia in miniatura, come quella compiaciutamente stereotipata che dal 1970 intitola un parco a tema di Rimini, quella fatta intrecciare da Cattelan sul tappeto circolare posto al piano terra del Castello di Rivoli (in modo che i visitatori debbano, per accedervi, calpestarne l’icona): che riproduce infatti l’etichetta del formaggio omonimo, brevettato nel 1906 da Egidio Galbani, la quale comprendeva, allora come oggi, il caratteristico Stivale delle carte geografiche con, in basso a sinistra (parzialmente “impallando” la costa occidentale della Sardegna…), l’effige del geografo Antonio Stoppani. C’è un precedente: lo stesso anno Cattelan aveva esposto infatti, col titolo I Found My Love in Portofino, due topi che in una scatola di plexiglas rodevano con gusto una confezione di formaggio sulla quale era ben visibile, appunto, l’etichetta «Bel Paese».

 

Come scrive sul proprio sito l’azienda produttrice, quello del formaggio Bel Paese, che un secolo fa fece le sue fortune, fu un «vero colpo di genio, antesignano del moderno marketing: la realizzazione di un packaging originale in un mondo di formaggi venduti sfusi». Era insomma l’invenzione di un brand che si appropriava, per farlo, dello storico brand del prodotto-Italia: il primo made in Italy a livello globale essendo, in effetti, l’Italia stessa. Non è nato infatti negli anni Sessanta-Settanta del Novecento (come ha sostenuto di recente un appuntito reader curato da Daniele Balicco) lo stereotipo del made in Italy. Di quegli anni è però l’inizio della sua exploitation artistica anzitutto come forma materiale, geometrica o, come la definisce Pietromarchi, «unità di paesaggio»: dall’Italia rovesciata di Luciano Fabro in una data-simbolo come il ’68, sino alla Carta d’Italia unita di Flavio Favelli, passando per l’Italia cancellata di Emilio Isgrò, sempre la forma peninsulæ, così riconoscibile appunto dalla propria sagoma materiale, è servita agli artisti – artisti tutti italiani, è il caso di sottolineare – per dichiarare un’appartenenza-disappartenenza che è loro permessa dalla «contraddizione consentita» (come l’ha definita Marina Mizzau) che, in termini retorici, è la figura dell’ironia. Una figura che presenta capovolgendo, afferma negando, enuncia cancellando (come nel caso eloquente di Isgrò) o, come nel caso in oggetto, celebra calpestando. Ma lo specifico di Cattelan, il suo giro di vite crudele, consiste in un’ironia di secondo grado: perché a ben vedere già i furbastri protonovecenteschi della Galbani avevano rimpicciolito, a misura di formaggino, l’icona cartografica del Bel Paese. (Con un’ironia ancora più sottile, e dunque ancora più ambivalente, quell’icona l’aveva fatta propria, senza interventi, Luigi Ghirri nella copertina di Viaggio in Italia, la seminale mostra del 1984.)

 

Proprio alla memorabile definizione poetica dell’Italia come bel paese (in chiave linguistica, nel XXXIII dell’Inferno dantesco, il «bel paese dove ’l sì suona»; in chiave propriamente geografica nel sonetto CXLVI del Canzoniere petrarchesco, «il bel paese / ch’Appennin parte e ’l mar circonda e l’Alpe») s’era intitolata nel 1873 l’«ideologia geografica», come l’ha definita Matteo Meschiari, di padre Stoppani: ossia l’autore ritratto appunto nell’etichetta del formaggio Galbani (a riprova di una popolarità tanto indiscussa, allora, quanto ai nostri occhi sorprendente). E in effetti il fortunatissimo compendio di divulgazione geografica e naturalistica che Il bel Paese s’intitola, colla sua suasoria scorrevolezza colloquiale, ossia la forma «facile e attraente» che rivendicava (nonché coll’effetto scenografico delle illustrazioni che vi erano incise), riuscirà a imporre il «programma pedagogico e politico di Stoppani», di matrice ovviamente cattolica e dagli intenti normativo-rassicuranti, «confondendo volutamente i piani dell’essere e del dover essere» (così, acutamente, Meschiari) e in tal modo esercitando un’egemonia non inferiore a quella esercitata a suo tempo, sul piano linguistico e antropologico, dai Promessi Sposi di Manzoni – il capolavoro cui manifestamente, peraltro, s’ispirava (e nel cui testo si trova pure il sintagma del titolo). Così rinsaldando, conclude sempre Meschiari, un «modello etico, estetico e politico essenzialmente urbano, religioso e borghese» che poi è quello restato complessivamente dominante, nel Bel Paese appunto, nel secolo che da allora è seguito (nella fede granitica, scrive in clausola al suo libro Stoppani, che «la natura è l’espressione più universale e intelligibile della natura di Dio», sicché l’«ordine» che è dato rinvenirvi è «un inno incessante alla potenza, alla sapienza, alla bontà di Dio»).

 

A contribuire in misura decisiva a codificare le coordinate simboliche della nazione, insomma, è stata un’opera che, se non appartiene propriamente al canone letterario, certo è stata fra quelle culturalmente più influenti dell’Italia Unita. Non è verosimile che Cattelan abbia ragionato su questo, ma sappiamo come gli appartenga una prensilità non meno che animale, un intuito infallibile a catturare, ogni volta détournandole crudelmente, le icone-chiave dell’immaginario nazionale e globale (basti pensare all’Hitler di Him, al Wojtyla della Nona ora, eccetera); sicché non poteva sfuggirgli il cortocircuito eloquente per il quale, a distanza di appena una trentina d’anni, la pia opera pedagogica dell’abate Stoppani si fosse potuta trasformare in un brand commerciale e di consumo destinato a divenire, come scrive Pietromarchi, «nel corso del tempo esso stesso un’icona, un logo, associato alla produttività nazionale, ormai parte del nostro bagaglio iconografico nazional-popolare […]: un’Italia “brand”, ormai sequestrata dalle logiche del marketing». Non solo una Milano da bere, come quella degli anni in cui concepisce e realizza Il Bel Paese: un’Italia da mangiare, da deglutire anzi in un giulebbe di leccatine, come quelle dei topi in trappola nel “cartone preparatorio” che è I Found My Love in Portofino. Per passare in quello che è davvero «un crogiuolo di panze», per dirla coll’emulo e complice Elio, infine pervenendo alla deiezione terminale, ormai inequivocabile, della «terra dei cachi».

 

Di fronte a un’opera, come quella di Cattelan, ormai vasta e storicizzata, è canonica la domanda se la sua sia o meno un’arte politica. C’è da scommettere che lui risponderebbe, come fa oggi Elio a proposito di quella vecchia, irresistibile canzoncina anni Novanta, che la sua è solo la parodia di un’arte politica. Tratto determinante di ogni sua operazione restando la coazione a una dissimulazione ironica: tale da riuscire nel capolavoro di irritare il conformismo della “provocazione” più politicamente corretta, oggi dominante il sistema dell’arte, e insieme quello imbolsito, ma non per questo meno coriaceo, della buona creanza e delle buone maniere borghesi (come quello di chi organizza e distribuisce, agli artisti, premi alla carriera e onorificenze varie). Eppure un’opera come L.O.V.E., il clamoroso dito medio-saluto romano eretto nel 2012 in Piazza della Borsa a Milano, dovrebbe parlar chiaro circa l’attitudine di Cattelan a concepire ogni sua opera – per dirla con uno dei suoi più acuti interpreti, Stefano Chiodi – come «un elemento di crisi e di discontinuità nel tessuto apparentemente continuo delle rappresentazioni dominanti, un fattore di realtà e un segnale di allarme specificamente indirizzato alla cultura italiana». Solo che, come è inevitabile in un artista come lui “nativo postmoderno”, tale politicità non può manifestarsi che in forme oblique, ambigue, appunto ironiche. In questo Cattelan appare degno erede di Manzoni – quello vero, Piero – che, come lui trent’anni prima di lui, giocava a sua volta con deglutizioni, deiezioni e derelizioni (il recente America è insieme un omaggio a Duchamp e al suo nipotino di Milano). Sulle ceneri – ancora una volta come lui, c’è da scommettere – di un profondissimo desengaño esistenziale. Anche Piero Manzoni riuscì a scandalizzare insieme, in quel modo, tanto i buoni borghesi ambrosiani che i bravi artisti engagés del suo tempo; per esempio quando in un’intervista, sprezzante, dichiarò: «La politica? Non ha nessun significato per noi, noi viviamo in un mondo avveniristico!» (e invece, come ho provato a mostrare altrove, è davvero politica – su un altro piano – un’arte che, atrocemente quanto precocemente, decostruiva tutti i presupposti di quello che allora non si chiamava, ma già assolutamente era, il «sistema dell’arte»).

 

È solo dopo il rovesciamento globale operato da Manzoni col Socle du monde, il suo anti-tolemaico Omaggio a Galileo, che un artista insieme sempre prematuro e catastroficamente tardivo, quale appunto Cattelan, si mostra – ha scritto Stefano Chiodi – «figlio sin troppo esemplare di un tempo che sappiamo bene scettico e disincantato, un’epoca che ha assimilato ogni opposizione, rovesciato il rovesciamento dell’avanguardia, raddoppiato e sterilizzato gli argomenti duchampiani contro l’arte». È insomma, Cattelan-Pinocchio (che una volta si è pure appeso e anzi sospeso, seppure solo in effigie, e provvedendo pure a sbeffeggiare un nume engagé come Joseph Beuys), un artista «condannato a mentire». Sulla home-page di un sito intitolato a suo nome, ma che risulta abbandonato da anni, occhieggia non a caso un’insegna a caratteri cubitali che, nella sua programmatica equivocità, non lascia spazio a equivoci: IO MENTO. Ma, da Clizia il Cretese a Giorgio Manganelli, sappiamo cosa pensare – di chi metta le mani avanti in questo modo.

 

 

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Fa partire dai quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto, Bartolomeo Pietromarchi, la sua ricerca sulla «nostra identità attraverso le arti visive», come suona il sottotitolo del suo Italia in opera, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, che presenta Il Bel Paese di Maurizio Cattelan alle pp. 62-3 (dallo stesso saggio di Pietromarchi, alle pp. 29-30, il commento citato a Super Noi; e, alle pp. 60-7, l’esplorazione della Forma Peninsulæ nella figurazione contemporanea; alle pp. 185-6 un commento a L.O.V.E.). L’opera, un tappeto circolare di tre metri di diametro, è stata esposta per la prima volta a Rivoli, alla mostra SoggettoSoggetto. Una nuova relazione nell’arte di oggi, curata da Francesca Pasini, Giorgio Verzotti e Antonella Russo nel 1994. La voce citata di Wikipedia è questa: https://en.wikipedia.org/wiki/Bel_paese_(phrase). L’espressione «illbelpaese» è in James Joyce Finnegans Wake [1939], Libro primo V-VIII, a cura di Luigi Schenoni, con un saggio di Edmund Wilson, Milano, Mondadori, 2001, p. 129. Si veda l’interessante saggio di John McCourt, Joyce, il Bel Paese and the Italian Language, in Joycean Unions. Post-Millennial Essays from East to West, numero monografico a cura di R. Brandon Kershner e Tekla Mecsnóber di «European Joyce Studies», 22, 2013, pp. 61-79.

L’espressione Un paradiso abitato da diavoli, proverbiale già nel Seicento (ma a lungo erroneamente attribuita a Goethe), ha dato il titolo a un articolo di Benedetto Croce uscito su «Napoli nobilissima. Rivista di topografia e arte napoletana», n.s., 3, 1922, pp. 153-7: titolo di recente ripreso da Giuseppe Galasso per l’antologia di pagine su Napoli appunto di Croce (Milano, Adelphi, 2006), ma adottato anche da un bel saggio storico – che ripercorre appunto questo tòpos – di Nelson Moe, uscito negli Stati Uniti nel 2002 (e tradotto da Milena Zemira Cuccimarra, col sottotitolo Identità nazionali e immagini del Mezzogiorno e una prefazione di Piero Bevilacqua, presso l’ancora del Mediterraneo nel 2004). La canzone La terra dei cachi venne presentata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo del 1996, condotto per la quarta edizione consecutiva da Pippo Baudo (qui la performance nella serata finale; i costumi imitavano il look dei Rockets, band francese degli anni Settanta-Ottanta: https://www.youtube.com/watch?v=VEQlYVdSzYM), conseguendo il premio della critica intitolato a Mia Martini (mentre il festival venne vinto da Ron e Tosca con Vorrei incontrarti fra cent’anni); questo il testo completo: «Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi; / tanta voglia di ricominciare abusiva. / Appalti truccati, trapianti truccati, motorini truccati che scippano donne truccate; / il visagista delle dive è truccatissimo. / Papaveri e papi, la donna cannolo, una lacrima sul visto: / Italia sì Italia no Italia bum, la strage impunita. / Puoi dir di sì puoi dir di no, ma questa è la vita. / Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè: c’è un commando che ci aspetta per assassinarci un po’. / Commando sì commando no, commando omicida. / Commando pam commando papapapapam, ma se c’è la partita / il commando non ci sta e allo stadio se ne va, sventolando il bandierone non più sangue scorrerà; / infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma. / Primario sì primario dai, primario fantasma, / io fantasma non sarò e al tuo plasma dico no. / Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò / “fi fi fi fi fi fi fi fi ti devo una pinza, fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l’ho nella panza”. / Viva il crogiuolo di pinze. Viva il crogiuolo di panze. Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande così. / Italia sì Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi. / Italia sob Italia prot, la terra dei cachi. / Una pizza in compagnia, una pizza da solo; un totale di due pizze e l’Italia è questa qua. / Fufafifi’ fufafifi’ Italia evviva. / Italia perfetta, perepepè nanananai. / Una pizza in compagnia, una pizza da solo: in totale molto pizzo, ma l’Italia non ci sta. / Italia sì Italia no, Italia sì ué, Italia no, ué ué ué ué ué. / perché la terra dei cachi è la terra dei cachi. No». Interessante la rievocazione recente, da parte del gruppo, del senso di quell’exploit sanremese: https://www.youtube.com/watch?v=XHuRPOG3BvY. Di Marco Belpoliti è citato The End. Berlusconi & Cattelan, in «doppiozero», 10 novembre 2011: https://www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/end-berlusconi-cattelan (la mostra Maurizio Cattelan: All, curata da Nancy Spector, si è tenuta al Guggenheim di New York dal 3 novembre 2011 al 22 gennaio 2012). La performance di Elio-Cattelan alla Quadriennale di Roma, 24 marzo 2009: https://www.youtube.com/watch?v=AM3wk-TAQSM. Una replica del medesimo format è andata in scena all’Accademia delle Belle Arti di Bologna nel 2013, quando a ritirare il premio intitolato a Francesca Alinovi Cattelan ha mandato il duo comico I Soliti Idioti (al secolo Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli) scatenando le ire del Presidente del Premio, Renato Barilli.

La storia del formaggio Bel Paese è qui: https://www.galbani.it/prodotti/bel-paese/storia. A cura di Daniele Balicco è Made in Italy e cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea, Palermo, Palumbo, 2016 (ma si vedano già i materiali raccolti dallo stesso Balicco sul numero 68 della rivista «Allegoria», marzo 2015). Di Marina Mizzau è citato L’ironia. La contraddizione consentita, Milano, Feltrinelli, 1984 (riguardo alla particolare preterizione che è la Cancellatura di Isgrò, rinvio a due mie interviste all’artista: Emilio Isgrò, la Sicilia incancellabile, in «alfabeta2», 11, luglio-agosto 2011, pp. 19 e 21; Emilio Isgrò cerca un impiego, in «doppiozero», 12 gennaio 2018: https://www.doppiozero.com/materiali/emilio-isgro-cerca-un-impiego). Molto raro il catalogo della storica mostra Viaggio in Italia, curata a Bari nel 1984 da Luigi Ghirri, Gianni Leone ed Enzo Velati, ed edito dall’editore Il Quadrante di Alessandria (una riproduzione parziale, e di formato ridotto, è in Racconti dal paesaggio. 1984-2004: a vent’anni da «Viaggio in Italia», a cura di Roberta Valtorta, Milano, Lupetti, 2004).

Il bel Paese di Antonio Stoppani esce nel 1873, col sottotitolo Conversazioni sulle bellezze naturali: la geologia e la geografia fisica d’Italia, presso la Società Editrice Internazionale di Torino; dopo numerosissime edizioni tardo-ottocentesche e primo-novecentesche, se ne sono fisiologicamente diradate (ma mai del tutto interrotte) le tracce editoriali; molto curata l’edizione recente di Luca Clerici, uscita da Aragno nel 2009. Del Bel Paese discorre a lungo Matteo Meschiari in Terra sapiens. Antropologie del paesaggio, Palermo, Sellerio, 2010, pp. 166-81 (e nel recente Nelle terre esterne, Modena, Mucchi, 2018, pp. 185-210; rinvio alla mia prefazione Esercizi di lettura terrestre, ivi, pp. 9-15 e su «doppiozero», 28 settembre 2018: https://www.doppiozero.com/materiali/esercizi-di-lettura-terrestre). Il passo di Manzoni dove è citata l’espressione il bel paese è nel cap. XXXIII dei Promessi Sposi, corsivo mio, cit. da Meschiari a p. 192 di Nelle terre esterne): «Con una tale sicurezza, temperata però dall’inquietudini che il lettore sa, e contristata dallo spettacolo frequente, dal pensiero incessante della calamità comune, andava Renzo verso casa sua, sotto un bel cielo e per un bel paese, ma non incontrando, dopo lunghi tratti di tristissima solitudine, se non qualche ombra vagante piuttosto che persona viva, o cadaveri portati alla fossa, senza onor d’esequie, senza canto, senza accompagnamento». Le citazioni da Stoppani sono invece alla p. 210 dello stesso Nelle terre esterne.

La citazione da Stefano Chiodi è da Arte e identità italiana, recensione al libro cit. di Pietromarchi, in «doppiozero», 22 giugno 2011: https://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/arte-e-identita-italiana; più avanti cito dall’importante saggio Infiniti noi. Maurizio Cattelan, in Id., La bellezza difficile. Saggi e interventi sull’arte contemporanea, Firenze, Le Lettere, 2008, pp. 113-36 (le citazioni a p. 113 e a p. 132). Per un’interpretazione in chiave “politica” di Cattelan si vedano altri due suoi contributi: La discordanza inclusa. Arte e politica dell’arte, in Il confine evanescente. Arte italiana 1960-2010, a cura di Gabriele Guercio e Anna Mattirolo, Milano, Electa, 2010, pp. 157-97 (in particolare alle pp. 157-61) e, particolarmente centrato, Cattelan in L.O.V.E., in «il manifesto», 3 ottobre 2010. L’intervista citata di Piero Manzoni è quella di Adele Cambria, Vivono nell’avvenire, uscita su «Il Giorno» il 18 giugno 1957 (per l’interpretazione cui alludo rinvio a Monsieur Zero. Ventisei lettere su Manzoni, quello vero, Trieste, Italosvevo, 2018, pp. 16 sgg.; nel saggio cit. Infiniti noi, a p. 117, Chiodi accosta l’«atteggiamento» di Cattelan a «quella genia di temperamenti artistici singolari e inclassificabili che ha costellato il secondo Novecento italiano e che anzi ha finito per rappresentarne la parte più controversa e vitale, da Piero Manzoni ad Alighiero Boetti a Gino De Dominicis; personalità alle quali Cattelan si può accostare per la volubilità, l’insofferenza, l’ironia, il gusto per il paradosso, pur rimanendo in sostanza immune dall’ipersensibilità cosmica, dall’inadattabilità sociale, dall’idealismo visionario che aveva caratterizzato in misure diverse i loro rispettivi percorsi»). America, del 2016, è un WC in oro a 24 carati; lo ha ricollegato al precedente della Merda d’artista di Manzoni, oltre che naturalmente alla Fountain di Marcel Duchamp (1917), un acuto intervento di Luigi Bonfante, Cattelan tra Fantozzi e Duchamp, in «deepsurfing», 5 ottobre 2016: https://deepsurfing.wordpress.com/tag/piero-manzoni. L’opera pinocchiesca di Cattelan è La rivoluzione siamo noi, del 2000, che s’intitola come il celebre autoritratto in marcia di Beuys, del 1971 (di una “funzione-Pinocchio” nell’arte italiana recente ha parlato suggestivamente Bartolomeo Pietromarchi in Italia in opera, cit., pp. 78 sgg.; ho provato a sviluppare questo spunto in un testo contenuto nel catalogo del Padiglione italiano della Biennale di Venezia 2013, curato proprio da Pietromarchi: Sogni d’oro ovvero: Ritratto dell’artista come Pinocchio, in Vice versa, Milano, Mousse, 2013, pp. 209-15). Il sito citato è http://www.mauriziocattelan.altervista.org/.

 

 

[Immagine: Maurizio Cattelan, il Belpaese (particolare)].

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