di Giancarlo Alfano e Francesco de Cristofaro
[Si presenta domani 7 maggio a Roma (Villa Altieri, ore 16) Il romanzo in Italia, edito da Carocci e curato da Giancarlo Alfano e Francesco de Cristofaro. All’opera, in quattro volumi, hanno collaborato centoventi studiosi di formazione sia italianistica che comparatistica. Ne discutono con i curatori Giulio Ferroni e Francesco Pecoraro; presiede l’incontro Roberta Colombi.
Come spiegato nella premessa generale, Il romanzo in Italia presenta la storia della forma principe della modernità letteraria e le questioni più significative del suo affermarsi in Italia. A queste ultime è dedicato il primo volume, che affronta in particolare il problema storiografico (la lenta affermazione del romanzo italiano fra Seicento e Settecento e il suo rapporto col Decameron e con la tradizione del poema cinquecentesco), le questioni morfologiche e poetiche (generi, tecniche, progettualità implicite o esplicitate in manifesti) e il fondamento materiale della forma romanzesca (dal rapporto con la cultura popolare all’incidenza delle pratiche editoriali). Gli altri volumi presentano invece lo sviluppo della storia italiana del romanzo, divisa in quattro epoche ideali che vanno dall’esordio dell’Ortis, con cui Foscolo fa i conti con la tradizione francese e tedesca del secondo Settecento, a Q, firmato dal collettivo Luther Blissett. La prima epoca è quella dell’esordio, delle prove magistrali di Foscolo, Manzoni e Nievo, del lento assestarsi di una cultura narrativa condivisa. La seconda è segnata dall’irruzione dei Malavoglia, con cui si pone in termini espliciti il problema dell’adeguamento delle forme linguistiche e narrative al racconto della contemporaneità. La terza è compresa tra l’affermarsi del genio di Pirandello, l’apparizione di un capolavoro mondiale come La coscienza di Zeno e gli esordi di Pavese e Vittorini. L’ultima si presenta infine come un coacervo di soluzioni, adattamenti, sperimentazioni, in cui convivono opere straordinarie, romanzi che devono soddisfare un gusto medio ormai affermatosi e best seller totalmente imprevedibili: l’epoca in cui in un brevissimo giro di anni possono apparire Ragazzi di vita, il Pasticciaccio e Il Gattopardo. Se i volumi secondo, terzo e quarto hanno un carattere decisamente storiografico, ciò non vuol dire che le questioni presentate nel primo volume vi vengano trattate solo in chiave puramente teorica: al contrario, l’attraversamento delle epoche prevede – dopo un capitolo-quadro a firma dei curatori e prima di uno schedario ragionato, per un totale di 101 romanzi “esemplari” – l’alternanza di saggi monografici, dedicati ai maggiori romanzieri e ai loro capolavori, e di contributi che affrontano questioni tematiche, formali, editoriali. Il carattere principale dell’opera è la scelta di ragionare non sul “romanzo italiano” ma sul “romanzo in Italia”: non lo svolgimento di una storia nazionale, ma la declinazione di una grande forma internazionale entro una singola cultura. Nel Romanzo in Italia si leggono capitoli dedicati alle traduzioni, o all’influenza delle letterature straniere, o ancora alla confluenza e all’ibridazione tra romanzo e melodramma, tra romanzo e fumetto, tra romanzo e film.
Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo qui, con lievi modifiche, due stralci – rispettivamente incipit ed explicit – dai saggi introduttivi dell’opera: Anime e schemi di Giancarlo Alfano e Exit Strategy di Francesco de Cristofaro. Nel primo brano si indagano le origini della forma-romanzo nella nostra tradizione letteraria; nel secondo si scruta l’orizzonte attuale della narrativa italiana.]
Anime e schemi
Nel 1892 Luigi Capuana dedica ai Malavoglia un capitolo dei suoi Studi di letteratura contemporanea. In quelle pagine, proponendo un sintetico attraversamento del secolo giunto ormai quasi a conclusione, l’autore di Giacinta afferma che «il romanzo, da noi, è una pianta che bisogna ancora acclimare». Considerando il romanzo come il genere tipico della modernità, sulla scorta di quanto Hegel aveva spiegato nelle postume lezioni dell’Estetica, lo scrittore siciliano sosteneva che anche i Promessi sposi avrebbero messo solo «poche radici nel suolo dell’arte moderna», appoggiandosi peraltro «a Walter Scott, secondo una naturalissima necessità di circostanze». L’inevitabile dipendenza degli scrittori nostrani dai modelli stranieri poneva peraltro il «problema interessantissimo» del genere romanzesco, giunto da noi in ritardo, sebbene, «alle sue origini», la letteratura italiana avesse conosciuto «il portento del Decameron, dove tutti i germi dell’arte moderna son già sul punto di aprirsi».
Capuana non era il primo ad affermare l’impossibilità di riferirsi alle esperienze settecentesche di un Chiari o di un Piazza, per non parlare delle avventurose imprese narrate nei romanzi del Seicento. Né l’individuazione del Decameron come antico progenitore possibile della narrazione romanzesca era una trovata originale. E tuttavia è significativo che l’autore siciliano rinvenisse lì i prodromi della modernità, soprattutto se si tiene conto di un’importante caratteristica del capolavoro trecentesco, ossia la presenza (individuata a suo tempo da Mazzacurati) di una sorta di «carta d’identità a rubriche fisse» presente all’inizio di ogni novella che illustra i «tratti economici, talvolta anche quelli fisionomici» dei personaggi decameroniani, cui spesso si aggiungono indicazioni sui loro «attributi caratteriali» o su «altri elementi di psicologia sociale».
Si tratta di un aspetto decisivo dell’opera boccacciana, riconducibile alla cultura mercantile trecentesca che, con i suoi riti e le sue pratiche, intrise di precisione e attenzione al dettaglio, introdusse importanti innovazioni anche sul piano della pratica scrittoria: dalla perizia nella contabilità commerciale e nella formalizzazione dei contratti alla tendenza analitica tipica degli scrittori di cronache cittadine. Una simile attenzione alla concretezza dell’esperienza sociale e alla necessità di circoscrivere i fenomeni dentro coordinate chiare e precise si trova nelle tecniche narrative boccacciane. Il racconto svolto nelle novelle è infatti presentato come lo sviluppo delle premesse fornite all’inizio della narrazione, così che la storia risulti quasi una conseguenza diretta del carattere dei protagonisti, tanto più che nell’incipit, a fianco della «carta d’identità» con la quale si fissa l’individualità dei personaggi, vengono solitamente stabilite anche le coordinate cronologiche e spaziali dell’azione, confermando così l’avvertimento di Jurij Lotman, secondo il quale tra modello spaziale e costruzione del personaggio esiste un vincolo necessario. In tutti gli esordi novellistici del Decameron, la storia è infatti collocata in un contesto più o meno precisamente delimitato. Si tratti di Firenze o del remotissimo Catai di Marco Polo, lo schema accoppia sempre l’indicazione della città o della regione dove si svolge la vicenda con una contestualizzazione temporale. Certo, la precisione cronologica può variare sensibilmente, dalla generica vicinanza temporale (come nella formula «non sono ancora molti anni passati»; VIII 7 4) alla precisa determinazione dell’episodio storico («avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori»; VI 3 8). Ma dal punto di vista della struttura narrativa, ed esattamente come accade per l’identikit socioeconomico e caratteriale dei personaggi, più che l’eventuale storicità del riscontro, ciò che conta è il sistema di coordinate spaziali e cronologiche che configurano l’azione.
Ebbene, per quanto il riferimento al Decameron sia solo cursorio, è tuttavia lecito supporre che il riconoscimento della sua modernità da parte di Capuana fosse motivato da queste due felicissime intuizioni boccacciane. La prima consiste nell’individuazione di identità singolari: tutti i suoi personaggi hanno infatti un nome proprio, non ci sono generici “cavalieri” o “contadini”, ma solo individualità riconoscibili, quasi sempre dotate di un nome; così come nel romanzo cosiddetto borghese non c’è un generico “naufrago” ma un tale Robinson Crusoe, discendente di antichi immigrati tedeschi. La seconda ne è l’equivalente contestuale, con la fissazione di precise coordinate dell’azione: ciò che ci siamo abituati a chiamare con Bachtin il cronotopo, cioè la «fusione dei connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di senso e di concretezza». E poiché il cronotopo «ha un essenziale significato di genere», esso fornisce al lettore uno strumento fondamentale per cogliere la forma del racconto, determinando, al tempo stesso, «l’immagine dell’uomo», la quale, in letteratura, «è sempre essenzialmente cronotopica».
Il riferimento di Capuana è tanto più interessante per il fatto che nell’archetipo boccacciano si possono individuare i principali caratteri isolati da Guido Mazzoni come tipici del romanzo: 1. «gli eroi della narrativa […] sono esseri particolari»; 2. «le narrazioni esibiscono la costitutiva pluralità degli esseri particolari»; 3. «gli eroi delle trame debbono necessariamente possedere dei tratti distintivi che li identificano», e così via. È anzi notevole rinvenire, oltre alla «forma narrativa», anche il secondo «tratto che definisce il romanzo nell’accezione moderna del termine», ossia «la capacità di raccontare qualsiasi storia in qualsiasi modo». Questo è infatti quel che emerge sia dall’amplissima galleria sociologica adibita da Boccaccio (da umili lavoranti a giornata a ricchi banchieri; da prelati di campagna a cardinali e papi; da donne del popolo a marchesane e principesse) sia dalla straordinaria varietà dei casi e dei registri stilistici attraverso cui sono narrati. Insomma, al di là di quanto Capuana intendesse realmente dire, il riferimento al Decameron come esempio di modernità narrativa può essere spiegato sulla base di questi decisivi aspetti formali: la definizione di una singolarità e la sua immersione in un contesto spazio-temporale precisamente circoscritto.
Il movimento tra singolarità umana e contesto situazionale è certamente centrale per la definizione del romanzo, genere moderno per eccellenza, caratterizzato dalla «incompiutezza semantica» e dal «vivo contatto con l’età contemporanea incompiuta e diveniente» (ancora Bachtin) in cui il personaggio è costantemente inserito in una trama di relazioni complessive. Ed è interessante osservare che questo movimento è al centro delle riflessioni di uno scrittore come Carlo Emilio Gadda, la cui esperienza è senz’altro tra le più significative dell’intero Novecento, non solo italiano.
I termini della questione sono affrontati in diversi suoi scritti. Possiamo qui recuperare una recensione del 1945 a Ramón Pérez de Ayala, in cui è sintetizzata la sua concezione del rapporto tra fatto individuale e dimensione collettiva. Gadda osserva infatti che il romanziere spagnolo narra la vicenda inserendo un motivo psicologico (lo sviluppo puberale e i conseguenti turbamenti sessuali) in uno sfondo storico, così da produrre un modello narrativo complesso che collega mondo interno e mondo esterno in una circolazione di motivi che va dall’intimità alla società e, viceversa, dalla complessità storica collettiva alla psicologia individuale. Si tratta di una lezione fondamentale, che consiste nel passaggio da un elemento interiore («genetico», di natura «sessuale») a una soluzione generalizzabile (di contenuto «pediatrico», cioè riferito a un personaggio giovane), da cui si possono ricavare una conoscenza e un giudizio di valore («pedagogistico»). Gadda spiega di averci provato egli stesso nella novella San Giorgio in casa Brocchi e ne individua un’applicazione perfettamente riuscita in Agostino, un breve romanzo di Alberto Moravia a quell’epoca appena pubblicato. Prorompente seguace di Zola (si era definito «Zoluzzo di Lombardia»), Gadda vede dunque il romanzo come un sistema «d’interdipendenze e contrasti che hanno valore di realtà combinatoria». Un tale sistema, attingendo agli «strati fondi e veritieri del conoscere e del rappresentare», giunge a esprimere «la verità dei rapporti di fatto». Si tratta del compito specifico dell’arte romanzesca, che per Gadda sarebbe stato perfettamente conseguito nei Promessi sposi, la cui composizione narrativa giungerebbe a una sapiente rappresentazione dell’intero, complesso tessuto del vivere quotidiano.
In maniera analoga, circa trent’anni dopo, Italo Calvino avrebbe definito il capolavoro manzoniano come il «romanzo dei rapporti di forza», costruito su «cataclismi naturali e storici di lenta incubazione e conflagrazione improvvisa», così da annodare il tempo lungo della storia e quello lunghissimo della natura intorno ai nodi della vita: singolare e collettiva. Consiste in questo la realtà combinatoria del romanzo manzoniano, ma auspicata anche per il proprio lavoro: lo scrittore si confronta con la sua materia, sviluppando una trama di relazioni che s’infittiscono intorno alle azioni umane così da produrre una dialettica narrativa tra filo della storia e garbuglio delle motivazioni, una rete narrativa che restituisce l’intreccio tra i diversi livelli di realtà.
Gli storici della letteratura fanno abitualmente risalire la nascita del romanzo ai primi del Settecento, quando gli scrittori cominciarono a distinguere tra la forma del novel e quella del romance. Quest’ultima appariva ancora imparentata con il poema cavalleresco, incentrato sul primato dell’avventura e sulla netta ripartizione tra figure positive e figure negative, sottratta a ogni determinazione concreta; la prima risultava invece impregnata di umori quotidiani, di contesti circoscritti, di realismo, per dirla con un’unica, per quanto ambigua, parola. La necessità di individuare ambienti e personaggi precisi poneva un problema di aggiornamento dei temi e soprattutto dei “tipi” sociali attraverso i quali soddisfare l’ambizione di collegare fatti singolari e movimenti storico-sociali complessivi, in cui secondo Erich Auerbach consiste il nucleo germinale di ogni realismo, inteso come «unione del quotidiano e della serietà tragica».
Ciò implicava la necessità di modulare il romanzo sui ritmi, le cadenze, le scansioni metodiche e ripetitive della moderna vita privata, come aveva ben messo in chiaro Walter Scott nella sua recensione a Emma di Jane Austen, recentemente valorizzata da Federico Bertoni. Vi si legge che «la narrazione di tutti i suoi romanzi si basa su vicende così comuni che può essere capitato di osservarle alla maggior parte della gente e i suoi personaggi agiscono in base a moventi e principi che i lettori possono riconoscere come operanti nella vita loro e della maggior parte delle loro conoscenze».
Una simile rilevanza sociologica andava però risolta in chiave narrativa. Quale poteva essere infatti l’interesse nel seguire «vicende comuni», che tutti i lettori potevano ritrovare nella propria famiglia o in quella dei vicini di casa? E ancora, giacché si trattava di «vicende comuni», com’è possibile che fossero diventate di pubblico dominio, che fossero assurte alla dignità della pagina stampata? Un mutamento di questo rilievo – da molti studiosi messo in rapporto con il sorgere della public opinion e quindi di una società disposta a discutere pubblicamente anche le vicende che riguardano l’ambito privato – scardinava la gerarchia degli stili di origine classicista, basata sulla teoria del decorum che prevedeva la rappresentazione del quotidiano soltanto attraverso lo stile umile e comico, destituito di “serietà” e prestigio, al contrario di quanto appunto propugnava la cultura del realismo.
Ma il mutamento aveva anche un risvolto logico, che imponeva un aggiornamento delle pratiche narrative incentrate sul verisimile. Il concetto, di antica provenienza aristotelica, copre ben quattro aspetti differenti, che riguardano: i gradi del possibile (è verisimile quel racconto che narra quanto “può” accadere in condizioni normali); la nozione di “coerenza” (è verisimile un racconto ben organizzato); la definizione di “carattere” (è verisimile un racconto incentrato su un personaggio riconoscibile); la credibilità (è verisimile quel racconto che riferisce eventi che rientrano nella ordinarietà). Sebbene i quattro aspetti non siano mai effettivamente separati, la teoria letteraria moderna si è incentrata soprattutto sulla credibilità, cioè sulla «distinzione fra vero e falso», e sui rapporti che essa intrattiene, da un lato con la «verità d’opinione» (quindi con qualcosa che esula dal campo letterario), dall’altro con la «necessità interna» (cioè con le regole di composizione letteraria). In una riflessione sulla storia del romanzo e sulle forme della rappresentazione che lo caratterizzano risulta decisivo proprio questo aspetto del verisimile, secondo il quale la credibilità è l’effetto congiunto delle opinioni condivise da una certa cultura e della coesione interna del racconto. Un simile nesso tra opinione e intreccio è stato del resto individuato, con altri termini ma nella stessa prospettiva teorica, da Michael McKeon, che nel suo notevole libro sul romanzo inglese del Settecento ha illustrato la fondamentale connessione tra questions of moral e questions of truth, mostrando come le strategie narrative della verisimiglianza (“far credere vero”) possano indurre (e anzi come abbiano di fatto indotto) un approccio problematico al senso della vicenda narrata.
Analizzato da questa prospettiva, il realismo si presenta allora come un’area d’intersezione tra problemi che riguardano la dimensione espressiva e problemi che attengono all’ambito della selezione della materia. Per il primo aspetto, a partire dal Settecento s’impose una riforma del decorum propugnato dalle retoriche classiciste, con la loro rigida equiparazione tra complessità stilistica e gerarchia sociale, in base al principio che il livello più alto era riservato ai vertici della società (eroi e principi). Per il secondo si dovette procedere sia a un allargamento della provenienza sociale dei personaggi e della conseguente gamma tematica sia a un rinnovamento dei procedimenti di costruzione del racconto, giacché la credibilità di un racconto – ripetiamolo – è frutto tanto della sua coerenza interna quanto della capacità di soddisfare le attese sociali, ideologiche e culturali del pubblico, in una parola le convenzioni della propria epoca […].
Exit Strategy
[…] Mentre la scrittura dannunziana abita uno spazio in cui non solo si eclissa ogni principio di “realtà rappresentata”, ma sembra decadere l’ipotesi stessa di un mondo finzionale coerente, assicurato nei gangli della narrazione e in qualche modo “oggettivo”, all’altro estremo dello spettro morfologico della prosa italiana resiste, e infine vince, quel paradigma “documentale” su cui si fonda ab ovo la convenzione romanzesca. L’ultimo pannello di questo polittico sarà pertanto dedicato a quelle scritture, spesso ad alto tasso saggistico, che sembrano spaccare la membrana della mimesis dal lato opposto: non-fiction, autofiction, metafiction. Soluzioni diverse (anche se spesso coesistenti; e proprio dell’intreccio tra le prime due si parlerà qui), accomunate però da un’eccezionale fortuna nel paesaggio attuale della narrativa: non più la narrativa del postmoderno, ma la narrativa della post-storia.
Peraltro, se dopo esserci interrogati sul romanzo prima del romanzo e avere vagliato i cospicui apporti del teatro e della poesia, ci chiedessimo infine che ne è del romanzo oggi, oltre il romanzo, non potremmo che riferirci a uno scenario complesso e inaudito, contraddistinto da una interdiscorsività che non riguarda tanto le “lingue” parlate nei testi, quanto i “linguaggi” – ovvero i media e i rispettivi specifici formali – nei cui ambiti esse sono parlate. L’universo della finzione si è dilatato in modo esponenziale ed euforico; ma se i fruitori elettivi di storie sono (oltre che lettori di libri, ascoltatori di musica, spettatori di audiovisivi) “consumatori” di serie, di videogame, di giochi di ruolo e detentori a loro volta di autonarrazioni sulla ribalta dei social; se i prodotti artistici di maggior successo sono allocati su di una pluralità di piattaforme convergenti e conoscono una diffusione planetaria; se tutto questo è vero, sta però sempre al romanzo dettar legge e fornire la matrice fondamentale e la scatola degli attrezzi della rappresentazione. Si pensi, per l’appunto fuori del letterario, alla diffusissima pratica dei concept albums musicali, progettati per essere fruiti ciclicamente nella loro interezza; o alle serie televisive, che hanno spesso un’estensione imponente (in ciò somigliando, ben più delle pellicole cinematografiche, ai romanzi e ai cicli di romanzi), ma la cui ricezione non sottostà a dosaggi pianificati dall’alto, bensì viene regolata dall’arbitrio dell’utente, catturato in un’esperienza estetica immersiva.
È così che il romanzo tracima dal suo letto, abbandona la sua “forma pura” (se mai ve n’è stata una); ormai non è più, o non è più solo, quella cosa a forma di libro che replica il reale e che un individuo legge in solitudine, accogliendone le voci nella cassa di risonanza dell’intérieur, ricercando visioni del mondo, lasciandosi avvincere dai meccanismi della suspense o emozionandosi per un finale che giungerà al momento giusto, così da non costringerlo a custodirne il segreto dall’assedio dell’informazione. Ma ammesso che il romanzo, più che farsi scalzare da altri formati e apparati di diegesi, si sia come disseminato in essi, in che modo ha potuto allora preservare la sua funzione di paradigma, di struttura eidetica soggiacente a ogni costruzione finzionale? Come ha esercitato la resistenza – la resilienza, si dice oggi – che gli è propria, di fronte a questa mutazione epocale del paesaggio narrativo?
Una sequenza di parole (dette e non scritte), solo in apparenza remota dal nostro campo di indagine, può soccorrerci e avviarci verso una conclusione che, fatalmente, non potrà essere tale. Sono le parole trovate, in modo estemporaneo e al termine di 17 ore filate di diretta video, da Giancarlo Santalmassi, il giornalista che seguì per il TG2, davanti a decine di milioni di italiani, la tragedia del piccolo Alfredo Rampi: «Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di… di lotta invano per Alfredo Rampi».
Era sabato mattina, 13 giugno 1981, ore 6 e 47 minuti – l’istante in cui la speranza degli italiani si spense. Il bambino di 6 anni caduto nel pozzo artesiano di Vermicino aveva smesso di vivere: a nulla erano serviti i lenti e difficili scavi a opera della Protezione civile, a nulla i tentativi di gracili giovani, speleologi audaci, strampalati assurti, in una fulminea mitologia televisiva, ad angeli della salvezza; a nulla le parole di rabbia della madre del piccolo, a nulla gli incitamenti chiassosi della folla, a nulla l’arrivo sul teatro del dramma del presidente Sandro Pertini. A nulla era valso quel protratto choc collettivo, a nulla quell’evento (nell’accezione zizekiana di «effetto che sembra eccedere le proprie cause»), a nulla quella lunga notte mediatica: che provvide forse, come si disse da più parti, a stornare l’attenzione della gente dallo scandalo della P2 e dall’incubo del terrorismo, insomma da una ben più lunga e profonda notte della Repubblica.
Torniamo alla chiusa della telecronaca RAI: «Ci domanderemo a lungo […] che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare». Sono parole sconcertanti, permeate da una sorta di moralismo sapienziale. Questo sacro rosario che suggella «il primo reality show della televisione italiana» annuncia una trasformazione antropologica: secondo la diagnosi impietosa di Giuseppe Genna, «cinquanta milioni di italiani per la prima volta nella storia diventano cinquanta milioni di spettatori italiani». Certo, dopo la sincera emozione condivisa di quel non scritto romanzo nazionale, niente più sarebbe stato come prima. L’immaginario era come saturo, narcotizzato, stupefatto; la morte in diretta era accaduta, ed era accaduta non nella dimensione dell’improvviso, dello sparo nella folla che “buca” lo schermo, ma in quella durativa della narrazione, della speranza e della disperazione, dell’elezione degli eroi per un giorno, della trasfigurazione simbolica a buon mercato. Una volta toccato quell’estremo punto, quel picco di troppa-realtà, sarebbe cominciata nel mainstream l’epoca della rappresentazione mimetica, del sensazionalismo porta a porta, delle ricostruzioni effettuate con i plastici; e, nella cultura del romanzo, la stagione di un postpasoliniano “io so”, dove autofiction e non-fiction possono toccarsi, e l’evento implodere nell’inesperienza.
Forse davvero bisogna ripartire da lì, per capire dove è il romanzo oggi – e dove siamo noi oggi. Ed è allora doveroso ragionare, a bocce non ancora ferme per la verità, sul caso editoriale più clamoroso e più diffratto degli ultimi decenni, quel Gomorra che non solo ha più o meno abusivamente invaso l’area del “romanzo” (termine spesso richiamato anche nella ricezione internazionale, e abbracciato infine dallo stesso autore nell’introdurre l’edizione del decennale) e, a partire dal noto “manifesto” di Wu Ming, la zona grigia dell’“epica”; ma ha poi “contagiato” con stupefacente fortuna e felicità espressiva altri linguaggi, allargando a dismisura il suo ecosistema transmediale, l’area interessata dai suoi “effetti”, in una parola il suo indotto: il «brand» Gomorra non smette di annettersi sfere dell’immaginario e della vita sociale, dalla musica rap al teatro, dalle webparodie al graphic novel, dallo show business alla moda, dal merchandising allo smercio ricreativo dei suoi memi, fino a quei comportamenti emulativi che sempre più spesso gli vengono, con qualche moralismo, addebitati.
Al di qua del fenomeno di costume, però, il primo libro di Roberto Saviano resta, proprio in quanto libro, cruciale. Oggetto culturale «perturbante», sedicente «viaggio» documentario cui l’invenzione letteraria ha però provveduto, manzonianamente, a «rifar le polpe», autofiction impossibile (nella misura in cui il narratore non può essere stato effettivo testimone autoptico, come pure professa, della materia riferita»); «blockbuster morale» nella lettura affilata e posizionatissima di Alessandro Dal Lago, Gomorra segna, in sé e per sé, un punto di non ritorno per la forma romanzo: il giornalismo d’inchiesta e il racconto in figuris della miseria d’una patria ferita («Desideravo con tutto me stesso cambiare la realtà che avevo intorno, una realtà che mi faceva schifo») vi convergono in un artefatto editoriale – prima ancora che in un oggetto estetico – mosso da impegno civile e dotato, oltre che di qualità letteraria, di sicura presa sul pubblico e sul tessuto sociale. Più radicalmente, ci induce a chiederci che cosa sia per noi oggi la realtà, e in che modo si possano risvegliare gli anticorpi di quella che Arturo Mazzarella ha definito come «politica dell’irrealtà».
Né bisogna dimenticare che il best seller sul “sistema” della malavita campana si ricollega a una tradizione alta, benché scarsamente prolifica nel nostro paese: quella della scrittura posta all’incrocio tra racconto “strettamente personale” e saggistica engagée. È parte di questo filone, ad esempio, un libro (da taluni ritenuto senz’altro un romanzo, anche se fu pubblicato in una collana di saggistica) di sessant’anni antecedente a Gomorra, e similmente compaginato come un viaggio-reportage in prima persona: alludo a quel Cristo si è fermato a Eboli che fu così a lungo osteggiato dalla cultura egemone. Questo ostracismo ci parla di un disagio che è, in uno, ideologico e formale: perché se da un lato esprime il rigetto di molti intellettuali di fede marxista verso quella che parve loro una mitologia pauperistica e reazionaria, dall’altro è la spia di una refrattarietà di natura diversa, estetica più che culturale. Ciò che la temperie del neorealismo non poteva ammettere era il “gesto” dell’autore, sdegnoso di una rappresentazione frontale e impersonale, e soprattutto in moto perpetuo tra monumento e documento, tra falso e vero, insomma tra romanzo e inchiesta. Certo, con il tempo Carlo Levi – quest’intellettuale europeo, anticonformista e coltissimo – si è preso qualche rivincita. Ma la sua iscrizione al catasto romanzesco resta labile: il che vale, più in generale, per tutte le scritture «a bassa finzionalità», segnate, secondo Carlo Tirinanzi De Medici, dal ‘vizio d’origine’ di «una limitazione dell’autonomia del piano narrativo rispetto alla realtà».
Chi voglia mettersi sulle tracce di un possibile capostipite dei narratori della «valle perturbante» dovrà allora volgersi, più che al Cristo, al magistero di Leonardo Sciascia: di qualcuno, cioè, che fa anche da connettore tra l’archetipo manzoniano e le controstorie di oggi. È forse nel più cicatricoso dei suoi libri, L’affaire Moro – che non è un romanzo, ma illumina sulla questione meglio di qualsiasi romanzo – che lo scrittore di Racalmuto ha forzato a oltranza il limite tra realtà e letteratura: tanto da sbagliarsi, come ha mostrato incontrovertibilmente il memoriale riemerso dalla “prigione del popolo”. Sciascia adoperava un metodo positivista, filologico-linguistico, per dimostrare che lo statista rapito dalle BR avrebbe potuto salvarsi; che la responsabilità di quel “sacrificio” era da addebitarsi a registi più o meno consapevoli; infine, che tra questi ultimi v’era anche colui che ora, a ridosso dei fatti e negli stessi anni in cui avanzava una lettura radicalmente nuova della Colonna infame, stava scrivendo quell’«opera di verità» sospesa tra pamphlet, reportage e mémoire.
Che quest’ultima fosse, oltre che uno scavo documentario, un’autocritica dettata da un’onestà intellettuale fuori del comune, lo si comprendeva bene nel capitolo che si apriva con la citazione del racconto di Borges in cui Pierre Menard ricopia il Don Chisciotte parola per parola, eppure finisce per scrivere un libro diverso dall’originale. Era l’autore stesso a spiegare la strana associazione di idee: ai suoi occhi la vicenda del sequestro e dell’uccisione del leader non apparteneva all’ordine della cronaca o della storia; era piuttosto qualcosa di «già scritto», vivente «in una sfera di intoccabile perfezione letteraria», che «non si poteva che fedelmente riscrivere». Come il capolavoro cervantino – opera che secondo Foucault spalanca l’abisso tra le parole e le cose – l’affaire Moro sarebbe il portato esiziale di una questione tutt’affatto retorica. «Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la verità – quando dura e tragica apparve nello spazio quotidiano e non fu più possibile ignorarla o travisarla – sembrò generata dalla letteratura»: la letteratura di Pasolini, che chiede il processo ai capi democristiani, o quella dello stesso Sciascia, autore di romanzi “puri” come Il contesto o Todo modo. «E non è solo – ha scritto Marco Belpoliti – una faccenda di anticipazione o di previsione, ma proprio di “generazione”. È istigazione: in mancanza di “una vera riflessione, di critica e persino di buon senso” della vita politica italiana, lui e Pasolini sono stati degli istigatori».
In questo senso il libro di Sciascia, che sprigiona ancora l’odore del sangue e dei dies irae in cui fu composto, è un drammatico e attualissimo pronostico di come potrebbe andare a finire la partita tra realtà e romanzo. Autentico monumento alla post-verità, esso non ci insegna solo che la letteratura dice altro da quello che dice, come spesso si ripete; né ci insegna solo che la letteratura non rispecchia affatto il mondo, come pure un tempo si è ingenuamente creduto. Ci insegna che la letteratura, e il romanzo più di tutto, è in grado di esercitare sulle nostre vite un potere mistificatorio. È una lezione che dovremmo tenere presente, anche perché sono forse proprio le forme oggi egemoni a rivelarsi tra le più insidiose (quando lavorate male). È l’autofiction, se scade a solipsismo; è la non-fiction, se nasconde petizioni ideologiche; è la metafiction, se si estenua in freddo gioco intellettuale. Altro che exit strategy dal realismo: nella semiosfera in cui siamo gettati il romanzo rischia di rimandarci all’infinito, come in un disegno di frattali, la nostra immagine, insieme ai simulacri della realtà che noi stessi abbiamo fabbricato. Perché questo non accada, dobbiamo sempre ricordare che esso non è venuto al mondo per drogare o per forcludere quella realtà, ma per darci modo di conoscerla più a fondo.
[Immagine: Alberto Burri, Sacco 5p, 1953, tecnica mista. Città di Castello, Fondazione Palazzo Albizzini, Collezione Burri. © 2017. Foto: Scala, Firenze].
“ 15 ottobre 1987 – Il socialismo reale: un romanzo sugli anni Sessanta in cui si parlerà di Topo Gigio, Loretta Goggi, Rintintin, L’Intrepido, L’Espresso, il festival di Sanremo, Rimini, le feste dell’Unità, l’ARCI, il Concilio vaticano secondo, la minigonna, la commedia all’italiana, Fellini, Sophia Loren, Umberto Eco, i tarocchi, i gruppi omogenei, la contestazione, i Pooh, Gigliola Cinquetti, Gianni Morandi, Orietta Berti, Claudio Villa, Adriano Celentano, la scala mobile, lo statuto dei lavoratori, i figli dei fiori, l’amore, la guerra del Vietnam, la rivoluzione culturale, la casa editrice Einaudi, Feltrinelli, il « Che », Cent’anni di solitudine, Borges, Franco Maria Ricci, i Kennedy, etc., etc. “