di Claudia Crocco
[Una versione più lunga di questo intervento è stata pubblicata nel volume La poesia italiana degli anni Ottanta. Esordi e conferme (Lecce, Pensa Multimedia, 2019), a cura di Sabrina Stroppa. Ringraziamo la casa editrice e la curatrice del libro]
1) Gli esordi
Secondo una definizione di Marina Cvetaeva, poi ripresa da Milo De Angelis, i poeti si dividono in due categorie: poeti di fiume e poeti di lago[1]. Mentre i primi accolgono l’eterogeneità dell’esistere, e ne rispecchiano la mutevolezza nel tempo, i secondi iniziano a scrivere per l’urgenza di esprimere un numero limitato di idee o ossessioni, e su quelle ritornano in tutte le loro opere. Mario Benedetti rientra senz’altro in questa seconda categoria. Il suo libro d’esordio, Moriremo guardati,[2] è molto diverso da Umana gloria o da Pitture nere su carta, con i quali è diventato famoso negli ultimi quindici anni; a una prima lettura sembra lontano anni luce, quasi di un altro autore.
Tuttavia, se lo si rilegge insieme alle due raccolte successive, La casa e Il cielo per sempre,[3] si nota che Moriremo guardati è anche qualcos’altro: è l’inizio di una riflessione sulla caducità dell’esistenza, sui limiti del linguaggio, infine sulle possibilità della letteratura di rappresentare e trattenere le esperienze. Questi, in sostanza, rimarranno i temi principali della riflessione poetica di Benedetti; e questo è uno dei motivi per i quali ha senso occuparsi delle sue prime opere.
Parlare delle poesie d’esordio di Mario Benedetti è molto difficile, per vari motivi. Uno di questi è la volontà dell’autore: Benedetti ha ripetutamente negato i primi libri, cercando di distruggerne le copie ancora in circolo e rimuovendone i titoli dai profili biografici diffusi in pubblico. È difficile, inoltre, trovare informazioni paratestuali sulle raccolte degli anni Ottanta, sia come conseguenza del tentativo di occultamento, sia a causa della difficile reperibilità dei materiali autografi di Benedetti in seguito alla malattia che lo ha colpito nell’autunno 2014. Infine, alcuni dei primi testi sono stati rielaborati negli anni successivi e sono confluiti in Umana gloria (Milano, Mondadori, 2004), la sua raccolta più importante;[4] il fatto che molte poesie siano ormai reperibili e leggibili in una versione più aggiornata non rende inutile, tuttavia, occuparsi dell’assetto originario delle prime raccolte.
Benedetti ha esordito negli anni Ottanta, in un clima culturale diverso rispetto a quello di inizio anni Zero; eppure le sue opere precedenti Umana gloria sono quasi sconosciute, oltre che poco studiate. Non solo: se è vero che alcune poesie giovanili sono state poi rielaborate nei libri successivi, è anche vero che altre non sono mai state ripubblicate. Si tratta di poesie meno riuscite, ma non per questo prive di interesse, in quanto mostrano il nucleo della poetica di Benedetti nel periodo della sua formazione; oppure, in alcuni casi, sono tanto diverse da quel che poi sarà il suo stile più maturo, da risultare quasi più significative di quelle che verranno riprese, poiché indicano una sperimentazione in corso e una via alternativa alla poesia.
Per tutti questi motivi si è deciso di dedicare attenzione alle prime tre raccolte di Benedetti, da Moriremo guardati a Il cielo per sempre: da un lato, è utile identificare gli elementi che resteranno nella poesia di Benedetti, e che testimoniano il processo di incubazione di Umana gloria, Pitture nere e Tersa morte; dall’altro, le poesie e le prose poi abbandonate rappresentano una sperimentazione alternativa, che elimina l’etichetta di “poeta semplice”, spesso frettolosamente attribuita a Benedetti, e mette in rilievo la complessità della sua riflessione sulla poesia.
2) Moriremo guardati (1982)
Moriremo guardati viene pubblicato a Forlì, presso Forum/Quinta Generazione, con una presentazione di Gabriele Scaramuzza e una nota di copertina di Silvio Ramat. Sia Scaramuzza sia Ramat erano stati docenti alla facoltà di Lettere di Padova, dove Benedetti aveva studiato fra il 1975 e il 1980,
Il libro è diviso in due sezioni: la prima, Moriremo guardati (1976-1979), comprende trentuno testi; la seconda, Appendice (1980), nove. Il 1976 è l’anno del terremoto in Friuli, che anche in Umana gloria viene considerato punto di inizio della scrittura.[5] Entrambe le sezioni contengono sia prose sia poesie. Può sembrare un dettaglio poco rilevante, perché quasi tutte le opere di Benedetti avranno questa caratteristica, e anche perché in Italia la poesia in prosa è un fenomeno di moda da più di un decennio. Se si pensa, però, che i primi testi del libro sono datati 1976, l’ibridazione fra prosa e poesia inizia ad apparire degna di nota. Nel 1976 gli unici poeti italiani che scrivono poesie in prosa sono Giampiero Neri e Cosimo Ortesta, ma l’opera di entrambi rimane abbastanza isolata in quel decennio, ed è poco probabile che fosse nota a Benedetti. Anche l’influenza di Francis Ponge e della poesia in prosa francese gli era del tutto estranea. Da dove venga l’uso della prosa di Moriremo guardati è una questione non banale.
Come nota Andrea Afribo, il primo libro di Benedetti è anche il più inattuale.[6] La sintassi, la struttura metrica, ma soprattutto il lessico sono molto distanti da quelli dei libri successivi. Lo si intuisce già dal primo testo, Quanto s’incatina il cielo;[7] un altro esempio è quello che segue:
Sono ventilati i ciliegi
nel chiaroscuro lunare:
una brezza che infoglia il cielo
per un gioco prenatale
Mi perde il fresco calore:
sono nei miei passi
lungo la via arsa
e la notte si protende invano
sulle mie ginocchia
per sollevarmi in un cespo d’aria
Lì e altrove
franto dal dover andare
si sperde il mio dolore d’informe (p. 17)
Questa poesia è fra le prime del libro, e presenta alcune caratteristiche comuni a molte altre della raccolta. Senza voler creare schemi troppo rigidi, nel primo libro di Benedetti si possono distinguere tre gruppi di testi. Il primo comprende poesie arcaizzanti, influenzate dalla tradizione poetica italiana ufficiale (soprattutto da Montale, da Pascoli, dall’ermetismo e da Campana). Da un punto di vista metrico, si notano versi regolari, in particolare novenari; si trova anche la rima imperfetta (lunare : prenatale), che scomparirà del tutto nelle opere successive. Scarsa la punteggiatura: qui c’è solo un due punti, altrove solo una virgola, in un caso la punteggiatura è del tutto assente; raramente troviamo il punto fermo finale. Nella sintassi ci sono microfenomeni aulici, ad esempio l’anastrofe letteraria fra sostantivo e aggettivo («il fresco calore»), l’inversione finale fra soggetto e verbo.
Il lessico è il luogo dove tanto le novità quanto i preziosismi lirici sono più evidenti: si trovano termini desueti e letterari come «infoglia», «la via arsa», «franto dal dover andare». Anche l’ambientazione notturna e lunare appare abbastanza tradizionale, così come l’identificazione o la comunione spirituale fra l’io e gli elementi naturali; ma qui compare una caratteristica che rimarrà nella poesia successiva di Benedetti, fino a diventare uno dei suoi segni distintivi, ovvero la «percezione animistica delle cose inanimate»[8]: la notte si protende sulle ginocchia «per sollevarmi in un cespo d’aria»; il vento agita le foglie dei ciliegi «per un gioco prenatale». In tutta l’opera di Benedetti, fin dagli esordi, le figure retoriche di forma e di pensiero «non hanno un’origine intellettualistica o esornativa, ma psicologica e percettiva; si inseriscono su un fondo che rimane compattamente realistico, ma rivelano che il confine fra mondo interno e mondo esterno viene tracciato secondo categorie diverse da quelle di cui si serve la coscienza desta».[9]
Svariate poesie della raccolta presentano caratteristiche simili a queste appena descritte, e formano la parte più arcaica del libro, da un punto di vista stilistico.
C’è poi un gruppo di testi nei quali alcuni dei fenomeni appena descritti sono ancora presenti, ma in modo residuale, in quanto bilanciati dal tentativo di costruire una poesia più moderna, sia nella forma sia nel contenuto. Vi si alternano versi brevi ad altri molto lunghi, come poi sarà tipico delle opere successive. Il verso lungo è quasi unico in Umana gloria; versi brevi e lunghi si alternano nelle Pitture nere e in Tersa morte. Prendiamo come esempio l’incipit della raccolta, una prosa lunga:
Sulla distesa gonfia delle foglie che nessuno avrebbe più visto lungo i rami a far baldoria col vento, avanzava il rotto trapestio. – Dove siamo? – gli chiedeva. Gli diceva dell’aria densa che in fondo alle tasche del giaccone appesantiva le mani. – Qui mio padre raccoglieva i funghi – le rispondeva. Risaltava sull’aria fredda il bianco vapore delle parole, la cui fragilità s’intorpidiva un istante sui loro visi, mentre si volgevano l’uno verso l’altro. […]
Quando mio padre partiva, c’era un pane diverso nella credenza, non il solito di ogni giorno ma rotondo e crociato. Lo mordevo con ansia lontano da possibili occhi come se in tale modo avessi potuto custodire mio padre per molto tempo dentro di me. Mia madre piangeva. Io uscivo di casa, mi ricordo, e vagavo nel cielo dove le rondini non erano ancora […]. (pp. 9-11)
In apertura si può riconoscere un endecasillabo di quarta, sesta e decima («Sulla distesa gonfia delle foglie»), seguito da un termine desueto («il rotto trapestio»). Si tratta dell’esordio del libro e dell’esistenza poetica di Mario Benedetti; ma siamo in una prosa, non in un testo in versi. Il ritmo è costruito soprattutto attraverso figure riconducibili alla ripetizione, come in molti altri suoi testi: ad esempio del sostantivo funghi («Qui mio padre raccoglieva i funghi […] le cupole dei funghi […] Non ci sono funghi! […] I funghi erano apparsi») e del verbo rimanere nella prima parte («Gli rimaneva la sensazione di aver parlato per qualcuno che non c’era […] le rimanevano i suoni uditi […] dita che rimanevano dita»). Le ripetizioni più importanti, comunque, sono quelle dei sostantivi «cielo», «mani», «parole», «occhi» e del verbo «guardare»: si tratta di parole ad altissima frequenza non solo in Moriremo guardati, ma anche nei libri successivi, che dunque hanno un valore ulteriore rispetto a quello di contribuire a creare il ritmo.
[…]
Compaiono, inoltre, altre due caratteristiche che rimarranno tipiche dello stile di Benedetti (soprattutto di Umana gloria): l’uso di aggettivi semplici, che mimano o esprimono una percezione infantile del mondo («Ed era bello quando veniva la notte») e di proposizioni causali o finali che vengono meno al proprio valore sintattico, in quanto non motivano in alcun modo il contenuto logico della frase principale («Si guarda per vedere, eppure….»). È di questo tipo uno dei periodi finali del testo, nel quale viene introdotto un riferimento alla morte del padre dell’autore: «Io uscivo di casa, mi ricordo, e vagavo nel cielo dove le rondini non erano ancora. Era per il freddo che aveva chiamato mio padre con sé, come se nel freddo potesse restare, lontani dalle giornate cariche di cielo allegro e feroce come i bambini che andavano in spiaggia». […] La morte del padre viene introdotta brevemente, in modo frammentario, e come seguendo la logica sconnessa di un bambino.[10]
In un articolo uscito sul numero 0 di «Scarto minimo», Benedetti commenta la poesia di De Angelis, ma dalle sue considerazioni si possono trarre informazioni utili per capire la sua idea di stile poetico all’altezza delle prime raccolte: la non concordanza delle persone e dei tempi nella frase viene considerata il segnale di una alterazione della norma linguistica entro la quale l’uomo comunica e vive; sono un modo di creare «perplessità circa un’oggettività presunta del referente senza però, per questo, accanirsi a negarlo […]». In questo modo riesce a concretizzarsi, a prendere forma, quella che Benedetti chiama «una solitudine non orfana», citando un verso di De Angelis. Anche la paratassi ha un ruolo: «Nella giustificazione emerge infatti la caratteristica di necessità e insieme di superfluità degli eventi».[11]Nel numero successivo della rivista Benedetti cita direttamente la Neoavanguardia: «Ma in questo atteggiamento infastidisce il ricordare la perdita della verità, attraverso una scrittura che manifesta una sorta di astio, di rancore verso il linguaggio, semplicemente perché esso non dice quanto dovrebbe, perché non può farlo», quindi specifica che il suo riferimento è sia ai giochi fonici dell’Intraverbalismo sia ai commenti metalinguistici di Sanguineti, ma anche a Zanzotto e a Pasolini: «Pare che il poeta si imponga il compito di rendere conto di una mancanza, di quella impossibilità, come se si dovesse rendere conto a qualcuno di ciò. Ma non c’è più nessuno, nemmeno l’oggettività dei saperi nella quale alienarci. Siamo, per così dire, soli».[12]
Una delle ossessioni di Benedetti è stata l’incapacità del linguaggio di esprimere appieno la realtà, e di sottrarre il ricordo, le emozioni, i gesti, le cose, le persone e il paesaggio allo scorrere e al deperimento del tempo. Non è un tema nuovo: la non referenzialità del linguaggio è il tema della cultura e della letteratura europea negli anni Sessanta e Settanta. Il punto è che, per quanto riguarda la poesia italiana, una consapevolezza teorica al riguardo viene attribuita principalmente alla Neoavanguardia, mentre anche Benedetti fa delle riflessioni originali al riguardo; in parte, sono registrate nelle pagine di «Scarto minimo», in dialogo con quelle di Stefano Dal Bianco e degli altri autori vicini alla redazione. Si può dire che da qui – dalle dichiarazioni di poetica negli anni Ottanta, ma anche dal primo libro – nascano i fulcri teorici della poesia di Benedetti: la letteratura è uno sforzo continuo di rendere conto di quel complesso di sensazioni, esperienze e impressioni soggettive che costituiscono la realtà;[13] lo stile deve renderne la finitezza e l’essenza caduca.
L’ultimo gruppo di poesie di Moriremo guardati si distingue per lo stile, molto diverso rispetto a quello dei testi appena considerati. Un esempio:
scendiamo i gradini per la mensa nelle maglie sottili dell’estate
e ti pulsa il cuore profumato dagli alberi senza cuore e chiedi
la pausa della mano tra i capelli tra le case dalle finestre ampie
per guardare sulla strada le mani d’ossa che mostrano la verità,
con le mani sudate per l’attesa fino al tavolo dove sederci e guardarti 5
mentre mangi fino al sudore del viso salito in fretta dirci
non siamo stati e non saremo, tra le cucchiaiate il formaggio le verdure
eccomi vesto di… ho un male qui dietro vengo da via Facciolati
da via Facciolati e te ne vai e ce ne andiamo e l’erba ciuffa polverosa
bocca a bocca col viatico sciupato delle suole per la morte 10
del topo che scivola sul piatto della strada dal Michelin che scivola
dentro la città,
a lutto certo fino all’apertura dei negozi posso dire è vero
che l’erba sale dal fiume a prendermi il verde della maglia è vero
che il sole è linfa da illanguidire sulla tua bocca nel gialliccio delle 2 15
e poi la carne da riportare la sera che deve venire
la notte quattro braccia sfilando le carezze i peli sulla lingua
per dire tutto di noi che viviamo prigionieri di qui (p. 22)
La prima caratteristica che colpisce di questo testo è l’impaginazione orizzontale (comune a quello a pagina 30 della raccolta): forse dovuta alla lunghezza dei versi, di fatto richiama l’aspetto grafico di alcune opere dello sperimentalismo poetico italiano ed europeo. La sintassi è più sconnessa del solito, tanto da essere prossima a quella del discorso indiretto libero (vv. 13-14); non stupiscono, dunque, gli anacoluti (vv. 7-10). Un probabile modello di questo tipo di indiretto libero si trova nelle prime opere di Milo De Angelis, e in particolare in Somiglianze (Milano, Guanda, 1976), che era senz’altro familiare a Benedetti alla fine degli anni Settanta.[14] La punteggiatura è costituita soltanto da tre punti di sospensione al v. 8, nonché dalla virgola ai vv. 4, 7, 12. Quest’ultimo è anche l’unico verso breve (un senario tronco), mentre gli altri superano sempre le dodici sillabe. Il ritmo non segue moduli regolari; è scandito da ripetizioni anaforiche (l’anadiplosi «da via Facciolati / da via Facciolati») ed epistrofiche («è vero»). Nonostante le ripetizioni rimangano molto frequenti, questo iniziale tipo di iterazione – nella quale l’assenza di punteggiatura fa sì che anafore ed epifore diventino quasi gli unici puntelli ritmici della lettura – si attenua nelle opere successive. Si tratta di un uso della ripetizione molto vicino alla poesia e alla poesia in prosa dei Canti Orfici;[15] ma, ancora una volta, il modello più vicino è quello di De Angelis.[16]
[…] Nei testi del terzo gruppo di Moriremo guardati c’è una sperimentazione formale più evidente, la quale non resterà nelle successive opere, ma contribuisce a delineare una poetica che rimane sperimentale, molto più di quanto si sia stati disposti ad ammettere fino a ora. Fra le caratteristiche stilistiche ancora da segnalare, c’è l’inserto di lingue diverse dall’italiano, che possono occupare quasi interamente una poesia (ad esempio il tedesco e il francese a p. 33) o pochi versi (il greco a p. 29).
3) La casa (1985)
La casa è una plaquette che comprende sei sezioni: L’incontro, La corsa, La distanza, La città, I passi, Strada ferma. I testi sono quattro o cinque per sezione, senza titolo ma indicati con numeri romani, e sono solo in prosa; le pagine del libro non sono numerate. Sia dal punto di vista formale, sia per quanto riguarda le immagini rappresentate, siamo in un mondo prossimo a quello di Moriremo guardati, dal quale vengono ripresi anche svariati testi. Fra questi, le prime due prose:
La strada sale come il tratto forte seguito sul quaderno, trasportata dagli autocarri, dai carri trainati dai buoi. […]
Sono ritornato e questa è la casa… il comignolo in cima al tetto, la grondaia perché si avevano i soldi, le finestre che ti mostravano ai giovanotti bruna e col viso sempre di profilo; e i giovanotti dicevano: “è la Luisa”, e invece era tua madre; la Maria non è mai a casa, la Maria non è mai a casa, sragionava la nonna. Di sera Giovanna lavora al corredo. Si sposa entro l’anno. Lavora e Giovanni è sempre da lei. Sempre più spesso. Lui è andato in America e là è rimasto per cinque anni. Sua madre scendeva in piazza con la gerla e guardava, bruna bruna come una ciliegia sotto spirito. Era bella come si diceva a una ragazza: sei bella. Andavamo nei campi. Si cucinava e si sturava una bottiglia di vino, con la vecchia che sorvegliava. Nel sedano la neve, è inverno. Le viti stanno bene sui terrazzi. Giovanni va con le sue gambe tra gli sterpi. Nel sedano sta bene la neve.[17]
Anche in questo caso si può notare un attacco metricamente regolare, se pure in una prosa: «La strada sale come il tratto forte» è un endecasillabo di seconda, quarta, ottava e decima. I luoghi di La casa sono i borghi friulani dell’infanzia di Benedetti. L’andamento è per lo più narrativo, con gli stessi personaggi del primo libro (Giovanni, Giovanna, Maria, Laura);[18] tuttavia la narrazione è statica, come bloccata dall’interno. Questo rallentamento è ottenuto attraverso gli espedienti stilistici che diverranno tipici della scrittura di Benedetti anche nelle opere degli anni Duemila: lo stile elencatorio e nominale («Il fresco aromatico. Il fresco delle sette di mattina d’estate qui. La borgata, le mie dita, il tavolo, le tue dita», III); la predominanza della paratassi («Spinge e il venditore mi parla, mi legge le ellissi, mi raggruma, mi getta», IX); la presenza dell’aggettivo dimostrativo per indicare prossimità alle cose, anche accanto a verbi all’infinito («questo continuare», XVIII; «questo tavolo»); l’uso improprio delle proposizioni casuali e finali, ma anche delle condizionali, con una protasi alla quale non fa seguito alcuna apodosi. I sostantivi e i verbi riconducibili al campo semantico della visione sono ancora numerosi, e sembrano indicare la presenza dello sguardo dell’autore accanto alle cose rappresentate:
[…] Una memoria servirebbe, preferibilmente commossa, da qui a laggiù. Sguardi avrebbero dovuto scegliere le ragazze curvate, educati a preferire, a riconoscere nel risciacquo dei panni l’occasione per l’abbraccio, per la certezza di sé nel dire: eccola che lava!, per la migliore corsa sull’erba. Nessuno è rimasto a guardare il piede lanciato nella lotta. Entrambi i piani, il mio e quello dell’acqua, sono scomposti tra i lavatori, i pioppi, l’erba, attraverso il piede che non resta e non rincorre. […] Devo convincermi a non ritornare più così solo e identico. Mi sono trascinato per le case, mi sono trascinato per le strade, i miei occhi hanno guardato ancora per vedere. Mi è parso di poter concentrarmi sopra il colore verde, risalire alla funzione della luce del sole, ricostruire il paesaggio.[19]
In La casa lo sguardo è sempre più concreto: gli occhi possono muoversi e scomporsi, ma il movimento può avvenire anche in senso opposto («Negli occhi i rami, il Corso a metà, i piedi», XXIII). La vista è associata alla possibilità di parlare e nominare le cose, talvolta attraverso sinestesie o slittamenti metaforici («Marco guardava. […] Le autostrade s’incontrano con le spiagge nei discorsi e gli sguardi sono pronunciati, hanno da sempre dimenticato e vogliono», XXI [corsivo mio]). Guardare è un modo per imprimere nella memoria e per definire un’identità, e per questo la visione è accompagnata dalla prossimità fisica alle cose, quasi dal poterle toccare («Versano il caffè e latte nei bicchieri di vetro, e guardano. Queste mani che aspettano… Quelle mani. Il vetro, sì è il vetro: tocco le dita, le vedo, se ne vanno. Ripenso, mentre sto uscendo. So ancora camminare, ricordo abbastanza», XVI). Alcune prose sembrano riflessioni sui limiti dello sguardo come fonte di conoscenza e di identità:
Se guardo… dove il cielo è chiuso in alto, dove non mi posso fermare – questa aria stretta seguìta, quell’aria grande, quelle strade d’aria che portavano chissà dove e gli occhi non riconoscevano più, non faticavano – cerco di andare: le montagne più alte, i posti nell’ombra e salgo, … perdo i pensieri, le parole che vedo sono qualcosa di su, di chissà dove, che si muove non per me, non per altri, perché tu rimanga, perché tu sia ancora. […][20]
La capacità linguistica è ciò che rende possibile il ricordo; lo sguardo e le parole permettono di fissare la presenza di cose e persone perdute o destinate a terminare. Come vedremo, questa riflessione proseguirà nell’opera successiva, Il cielo per sempre, per continuare fino a Tersa morte.
[….]
Nella stesura in versi di Moriremo guardati, come si è visto, gli unici segni di punteggiatura presente sono due virgole e i puntini di sospensione, mentre non compaiono punti fermi (né maiuscole); quella di La casa rinuncia all’uso della virgola, che spesso viene sostituita dal punto, ma vi tornano le maiuscole. Nonostante sia l’unica raccolta interamente in prosa, La casa è il libro in cui la sintassi e il verso di Benedetti iniziano a diventare più regolari e la sperimentazione prende una direzione sempre più precisa, allontanandosi da quella del terzo gruppo di testi di Moriremo guardati. Uno dei tropi ancora presenti è l’uso della ripetizione: «E guardo, guardo – ancora, ancora. […] La notte – la notte. L’iride asciutta» (V); «non importa, non importa; […] perché avrei potuto bere, bere, masticare, masticare», (XIX); «vederci, ancora vederci, vederci ancora» (XXIV).
Parlare di versificazione non è improprio, in quanto il verso non è del tutto assente in questa raccolta: lo si percepisce in modo chiaro nel ritmo di almeno un testo, il XXII della sezione I passi, che deriva da una poesia di Moriremo guardati. Si considerino entrambe le versioni:
Inutile questo caldo alle mani,
o anche il vento sul petto
a schiuderlo, a scamiciarlo…
verso la valle del valico ingombro
dove ragazze vivono dietro i banconi.
Questo riguardarmi le mani
rigirandole per guardarne il colore,
questo torcere le braccia per guardare i gomiti;
o lo sguardo per uscire, per scendere, per andare
tra le tante tante voci, nella molta ressa.
Inutile sedermi a trovare un tavolo,
la luce ventosa a boccoli
sui riccioli dolci del pane
e masticare nel tinnìo dei piccoli cucchiai…
dove non è più del convenuto da un tempo lunghissimo.
Riprodurre il gioco dei desideri
nello scambio sonante sul tavolo:
tintinnio a misurare i tanti colori,
le tante figure giovani colorate, uguali,
la molta ressa. O anche uscire dai passi
scomposti nell’eccesso di ansia
e di caldo inutile, smarrire giù
l’ultima poca protezione che mi resti.[21]
Inutile questo caldo alle mani o anche il vento sul petto, a schiuderlo, a scamiciarlo, verso la valle del valico ingombro dove ragazze vivono dietro i banconi. Questo riguardarmi le mani, rigirandole per guardarne il colore, questo torcere le braccia per guardare i gomiti; o lo sguardo per uscire, per scendere, per andare tra le tante tante voci, nella molta ressa. Inutile sedermi a trovare un tavolo, una luce boccoli sui riccioli dolci del pane e masticare nel tinnìo dei ventosa a piccoli cucchiai, dove non è più del convenuto da un tempo lunghissimo […][22]
I cambiamenti fra le due versioni sono pochi: la virgola fra primo e secondo verso viene a mancare; mentre compare una virgola, per due volte, a sostituire i puntini sospensivi («scamiciarlo… verso»; «cucchiai… dove»); scompare un aggettivo nel verso finale («poca»).
4) Il cielo per sempre (1989)
Anche Il cielo per sempre comprende testi già presenti nelle raccolte successive, a partire dall’incipit (che riprende il testo conclusivo di Moriremo guardati); a differenza del libro precedente, si tratta soltanto di versi. Qui lo stile di Benedetti si va definendo in modo più preciso, sia nel lessico sia nella sintassi. Tra le raccolte degli anni Ottanta, Il cielo per sempre è quella più vicina ai libri degli anni Duemila; in particolar modo, alcune poesie sembrano prefigurare il tono e il linguaggio di Umana gloria e di Tersa morte.
Il cielo per sempre è un libro sulla malattia[23] e sulla morte: sulla compresenza di vivi e morti, ma anche di passato e futuro, nel tempo della poesia. Tre versi, circa a metà della raccolta, possono essere considerati presupposto di questa riflessione:
È successo un tempo
ma è come fosse adesso
perché anche adesso è un tempo[24]
L’idea che le dimensioni temporali comunichino in qualche modo nella mente di chi le vive o rivive, e attraverso la poesia, non è nuova ai lettori del Benedetti più maturo: vi si trovano riferimenti sparsi in Umana gloria, ma è soprattutto l’idea alla base di Tersa morte. Sia in quest’ultimo libro sia in Il cielo per sempre la compresenza di vivi e morti, e di piani temporali diversi, è ottenuta attraverso una mescolanza di tempi e di soggetti, che non sempre concordano come dovrebbero. Qualche esempio:
Strada che sarà ancora
pagina con le altre
hai costruito ceste, fiori e una
ragazza nata nel 1905 e morta
nel 1936, paese
che si curva e piange
in un pomeriggio di sole. (p. 8)
La calligrafia di mio padre
e correrebbe la bicicletta nera…
Mi sembra domani la pioggia sulle tegole,
l’autocarro con la legna, mia madre
che guarda tutto quello che accade. […] (p. 24)
Il tram a Milano in viale Monte Nero,
eri seduta a guardarlo come guardavi i treni.
Con la bicicletta senza i freni,
dopo il passo di Monte Croce
per andare a Attimis, a Forame,
è stata una fortuna non cadere, sfracellarsi.
Sapevo che c’eri, che eri vicino a guardare
mentre io pensavo, e ti trattenevo.
Come una foglia tra le foglie
eri sulla panchina. C’erano alberi e alberi,
e il tuo viso, il vestito del solito blu.
Madre, persona morta
in viale Monte Nero, sulla strada per Attimis,
per Forame dove sei nata. (p. 22)
In Tersa morte la riflessione sulla morte e il tentativo di rievocazione dei morti porterà a una scomposizione del soggetto[25] e a una riflessione sulla scrittura, che diventa discorso sull’impotenza del linguaggio. Anche nel Cielo per sempre accade qualcosa di simile: i soggetti si scompongono e l’io può essere qualcun altro, nella scrittura:
Anche voi sorridenti, come un altro,
come un altro vengo. I miei veri amici,
la clausola che permette
di resistere e salvarci.
Io che pensavo parlo anche per voi,
per continuare insieme. (p. 7)
Casa che non c’è più
io che adesso sono Adriano. Quel dolore,
la domanda rimasta.
Poi con il vento i visi feriti, è così difficile
essere morti. (p. 3)
Anch’io sono lì dove noi siamo i morti.
Ogni giorno è la casa
e il mondo si restringe in poche cose
quando in ultimo nella camera gridi.
E io ricopio delle frasi:
come una pioggia
a metà del cielo dopo tante piogge,
i tuoi occhi non vogliono dire,
sono celesti. (p. 17)
La pioggia resta a metà del cielo per il tanto piovere.
Ci si dimentica di sé e il sosia ripete le onde del mare.
Si diventa l’uomo o la donna che non si vede
chi sono nella propria vita, sul rilievo fisso del mare.
Si diventa altri occhi per morire dovunque, dovunque
è l’aquilone del tetto sopra il condizionatore Hisense.[26]
Compaiono anche molti riferimenti all’atto di parlare, oltre che di scrivere, come se la nominazione delle cose ne garantisse la sopravvivenza: «quando nelle tue parole ci siamo noi e c’è tutto / l’avere incominciato da piccoli» (p. 18); «io che parlo per te e ti regalo / questo foglio docile, nudo» (p. 20); «Parliamo. Al di sotto / lasciano la terra le lettere / vanno verso nuovi secoli. / – Le ricomporranno? / non le ricomporranno più?» (p. 21). All’inizio della raccolta, nel testo che riprende l’ultimo di Moriremo guardati, il linguaggio è ciò che dà identità, ma anche ciò che viene meno: «Terra lasciata a nessuno / le parole che non so. / Fibra caduta fuori e non so dire/ che un tempo ero qui/ e mi dicevano: tu / e io dicevo: sai / senti, sì» (p. 1).
Il senso del nominare, ma anche il legame fra discorso e tempi della poesia, sarà chiarito in un’intervista, molti anni dopo l’uscita del libro:
Alcune esperienze sono nel tempo, ma sono vissute come se fossero senza tempo: ad esempio l’innamoramento o il dolore per una grave perdita. Il fatto che siano nel tempo ne relativizza l’importanza, nonostante siano cose molto forti. Per cui io cerco di testimoniare, di dare un senso a quello che facciamo e che siamo; così che il senso che c’è non si vanifichi. Ma non sono sicuro di poterlo fare, né che lo si possa fare, cioè che abbia un senso di una certa portata. Io mi sento in bilico – credo di essere sempre in bilico, anche scrivendo. Esprimo sempre fratture, scrivo per fratture.[27]
Il fallimento del linguaggio, come già accennato, sarà una costante nelle opere successive, ed è il nucleo della riflessione di Tersa morte.
Nel Cielo per sempre, come poi nelle raccolte successive, i verbi più numerosi sono quelli che si riferiscono alla visione: «I bambini guardano il cielo» (p. 2); «Guardo la sera ancora» (p. 4); «Guardo le stelle» (p. 10); «Anche noi una visione intera / dal primo uomo all’ultimo guardando / questi di questi giorni» (p. 15); «I fiori tutte le notti aperti, mi guardi» (p. 16); «Guardo vicino all’acqua l’acqua» (p. 18); «mia madre / che guarda tutto quello che accade». Come in La casa, lo sguardo è in movimento, gli occhi sono una presenza animata: «Ho paura anche di questa stanza. Gli occhi svuotati e bere» (p. 5); «[…] son questa / stoffa che corre negli occhi del bambino» (p. 11); «Immaginano che non parlavi. / Non erano tuoi gli occhi»; «i tuoi occhi non vogliono dire, / sono celesti» (p. 17).
5) Conclusioni
Se dovessimo definire i primi tre libri di Mario Benedetti attraverso lo stile, si potrebbe dire che i fenomeni retorici prevalenti sono l’accumulazione paratattica (e, in particolare, l’elenco ellittico), l’iterazione, la reticenza. Si è già detto molto riguardo all’uso della paratassi e dell’elenco; aggiungiamo che diventerà la cifra stilistica dominante nei libri degli anni Zero. […]
Come si è visto attraverso gli articoli di «Scarto minimo», il lavoro sulla paratassi fa parte della riflessione poetica di Benedetti fin dagli anni Ottanta, ed ha un modello certo nelle connessioni alogiche del primo De Angelis. La sintassi è uno dei modi attraverso i quali Benedetti esprime una percezione soggettiva del mondo, che corrisponde ai frammenti percepibili da un individuo. Nel primo libro la sperimentazione sintattica consiste anche nell’assenza di punteggiatura, ma questo aspetto diminuirà già a partire da La casa e verrà abbandonato nelle opere successive.
Un altro elemento stilistico che diventerà meno frequente è l’uso “ritmico” della ripetizione, mentre continueranno a essere presenti parole-refrain: sostantivi o verbi che vengono ripetuti a distanza di poche frasi o paragrafi, non solo strutturando il ritmo del testo, ma anche contribuendo a generarne il significato.[28] Quelle che possono sembrare vere e proprie ossessioni lessicali di Benedetti sono, in realtà, i nuclei della sua riflessione poetica ed epistemologica: lo sguardo, il linguaggio, l’identità, il cielo – e, in sintesi, le possibilità della letteratura di rappresentare il mondo nella sua particolarità.
La centralità della visione corrisponde al tentativo di cristallizzare attraverso la poesia paesaggi, legami, vite di persone del passato e del presente, annullando il tempo storico, nella coscienza della fallacia e della vanità di questo tentativo. Una possibile fonte di questa parte della poetica di Benedetti, ancora tutta da scandagliare, è la filosofia di Michelstaedter. Si considerino questi paragrafi da La persuasione e la rettorica:
Quale è il sapore del pane? quello del primo pezzo che mangio quando ho fame o quello che mangio dopo quando mi sono saziato? il buono, il caro, che ogni altro odore vince, quale mi spira incontro s’io cerchi invano il pane o quello del pezzo d’arrosto che avanza alla mia tavola? E l’occhio, che cos’è che l’occhio vede? davvero io credo che ognuno possa esperimentare la dubbia vista del suo occhio, ed essere incerto quale sia la faccia delle persone che più gli sono vicine. […] quale è l’esperienza della realtà?
[…]
Ma guardare anch’esso è un verbo e se pur verbo vuole il soggetto. E poiché gli scienziati non possono uscir impunemente dalla loro pelle come i bachi da seta, per guardare come son fatte le cose, ci è forza ammettere che l’oggettività è τροπον τινα una soggettività. – E allora bisogna andar all’altro estremo: se non è il io, è il sasso. […] Per fare esperienza oggettiva io devo guardare le cose che non vedo: poiché quelle che vedo, le vedo per l’assenso della mia persona intera.
E guardare vuol dire procurare all’occhio la vicinanza che risvegli il suo assenso: non come occhio che serve al mio corpo ma come occhio, come insieme di lenti: l’assenso inorganico.[29]
«Qual è l’esperienza della realtà?»: per Michelstaedter l’idea che la conoscenza della realtà sia oggettiva è un’illusione: la percezione delle cose può essere solo soggettiva, in quanto è continuamente mutevole. Per esprimere questo tipo di individualità dell’esperienza, Benedetti non solo si serve di molti verbi riconducibili all’atto del guardare, ma cerca di rendere la concretezza dello sguardo, la prossimità fra occhio e oggetti («negli occhi i rami»; «le piastrelle negli occhi»; «il buco riaperto degli occhi deciso a scherzare»; «Gli occhi accoccolati tra le guance guardavano. Gli occhi ammorbiditi, quasi sorridenti») che continuerà nelle opere successive («il vento chiuso negli occhi per pensarlo»; «Guarda negli occhi i suoi occhi»).[30]
L’esempio del sapore del pane, che cambia a seconda del momento in cui lo si mangia, sembra riecheggiare in una riflessione che Benedetti annoterà anni dopo, nel commento a una poesia scritta dopo Pitture nere su carta (Milano, Mondadori, 2008), prima pubblicata online e poi confluita in Materiali di un’identità:
Il giallo è un colore come tutti: ma un conto è il giallo astratto, come colore che si costruisce con l’effetto solare o fisicamente; un conto sono le occorrenze del giallo. Allora ce ne sono varie: in quel caso era il giallo del vestito di una donna, di un ricordo – che non c’è più. I gialli che viviamo si perdono nel tempo. Ricordo mia sorella con un vestito giallo nel 1960, ma quell’esperienza è finita. […] È un modo di dire: scusatemi, guardate che l’esperienza finisce, nasce e finisce. È una condanna: qualunque esperienza facciamo, anche la più apparentemente ‘eterna’, finirà. Non c’è una possibilità di salvazione. Tutto rimane qui, tutto è terreno e terrestre…[31]
Svariati poeti e scrittori sono stati importanti per Benedetti: una parte di questa biblioteca mentale è ancora da verificare; tuttavia un’altra parte può essere ricostruita attraverso le dichiarazioni, le interviste, i commenti ai testi, e soprattutto grazie alla lettura di Materiali di un’identità. Dagli scrittori che studia e che cita (Bataille, Celan, Rilke, Michelstaedter) Benedetti trae l’idea dell’irriconoscibilità dell’uomo nel mondo e dell’esperienza nel mondo come limite, annichilimento, eventualmente dépense nei corpi.[32] In una delle sue pagine dedicate a Rilke, si legge che «L’uomo, l’individuo umano, ha coscienza di sé unicamente in un sentire eccesso poiché gli manca il sentimento di una continuità tra se stesso e il mondo»; quindi Benedetti cita da una delle lettere di Rilke: «[stare] di fronte alle parole… e non dentro o dietro», e commenta: «Dire dunque la caducità è disporre di una parola in cui la cosa diviene intima, familiare a noi perché su di essa si è “depositato l’umano, un valore umano e laico”».[33] In un altro intervento, a proposito di Fortini, Benedetti ha parlato di una «scrittura del limite».[34]
La coscienza del limite è il confronto costante con l’idea della morte e con la caducità di ciò che compone la vita («tutto è terreno e terrestre»); il contatto con la morte come fondamento di una vita al di fuori della rettorica è anche il fondamento dell’opera di Michelstaedter. È interessante notare come questo aspetto della poetica di Benedetti penetri e dia forma allo stile: ovvero attraverso la mimesi dello stupore, che diventa la postura centrale dell’io poetico. In un articolo uscito sul terzo numero di «Scarto minimo», intitolato Lo stupore e la lucidità, Benedetti scrive:
Probabilmente questo atteggiamento conferma l’essenza dello stupore: nello stupore è difficile fermarsi, trattenere la cosa vista. Ma se per chi scrive esso costituisce lo shock per la non corrispondenza significato-cosa e lì la lingua dice che noi ‘non ci apparteniamo’, è da considerare il fatto che quel noi è il termine fondamentale della questione. Il ‘fuori’ dell’umano è la vita nel suo darsi a un senso; siamo noi nell’enigma, nominati con la forza, la sicurezza e il dolore della possibile versione chiara e vera.[35]
Si potrebbe dire che lo stupore è una forma di evitamento della rettorica. Benedetti sceglie di imitare «alcune categorie profonde dello sguardo infantile, a cominciare dallo stupore e dall’angoscia originari davanti alla vita e alla morte, quasi che l’io di questa raccolta non conoscesse quel processo di accettazione o di rimozione della finitudine che conferisce, alla vita adulta, la sua caratteristica, miope normalità».[36] Nelle prime opere, lo stupore è reso sia attraverso i punti di sospensione, sia attraverso i numerosi aggettivi e le associazioni alogiche che simulano la percezione infantile, sia attraverso espressioni che indicano una reticenza alla scrittura e, come si è visto, alludono all’insufficienza del linguaggio: «E le parole previste che non bastavano, gli sguardi che facevano male»; «le parole che non so», «e non so dire». Viene in mente un’ultima pagina di Michelstaedter:
La realtà degli uomini è la figura del sogno, che di quella parlano come se narrassero un groviglio di sogni. Difatti gli uomini se si mettono nella posizione come quando vogliono comunicare quelle misteriose sensazioni dei sogni, allora si trovano davanti all’impossibile, «non trovano parole» per «esprimere quello che sentono». [In nota: «Non ti so dire», «non puoi immaginare», «non puoi credere», «Dio solo sa», «se tu sapessi», «ineffabile», «indicibile», «restar senza parole» quando una cosa straordinaria rompe il giro consueto delle cose ecc…][37]
Da qui deriva una consapevolezza teorica e poetologica che non è stata ancora attribuita con giustizia a Benedetti, da tempo relegato al ruolo del poeta ingenuo e replicabile, facile da imitare, oppure celebrato in quanto poeta dello stile semplice, in grado di riproporre una descrizione umana ed elegiaca della vita naturale.
Nel suo ultimo libro, Tersa morte, lo stupore dello sguardo e la visione elegiaca che questo veicola vengono messi in discussione, in particolar modo nella sezione intitolata Idiot boy: l’Idiot boy è il bambino malato, protagonista di un omonimo poemetto di William Wordsworth, ed è scelto da Benedetti come metafora di un «animo semplice e inconsapevole, il povero di spirito, secondo la parentela tradizionale di follia e santità. E idiota è colui che è capace di stupirsi, di essere tutto in quell’esclamazione».[38] Alla fine di questa sezione, protagonista della quale è un altro sosia dell’autore, Marco, vi è una prosa intitolata Fiaba. Uno dei poeti più vicini a Benedetti, Tommaso Di Dio, la definisce «un’evocazione di rara bellezza e dolcezza, del tutto fuori chiave nel tono scabro e severo del libro».[39] Tuttavia la sezione successiva si intitola Non distrarti, e la prima poesia che la compone, come nota Di Dio, «cambia bruscamente tono, riportando il lettore al nocciolo tematico, con un effetto di shock che è uno dei punti più alti di strutturazione del libro: “Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere/ la pura inconcepibile assenza, non distrarti”. Queste parole suonano come se il poeta le dicesse innanzitutto a se stesso e, retrospettivamente, incolpasse la scrittura che ha praticato nella sezione precedente».[40]
L’ultima parte della scrittura poetica di Benedetti sembra andare in una direzione di sfiducia nella letteratura e nel tipo di sguardo che la sua poesia ha costruito in tre decenni. Le sue prime opere, tuttavia, rimangono a testimoniare una ricerca già definita nei suoi nuclei centrali, ma in continua evoluzione.
Note
[1] Cfr. Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia, a cura di Isabella Vincentini, Milano, La Vita Felice, 2008, p. 49.
[2] Mario Benedetti, Moriremo guardati, Forlì, Forum-Quinta generazione, 1982.
[3] Mario Benedetti, La casa, Milano, Polena, 1985; Id., Il cielo per sempre, Milano, Schema poesia, 1989.
[4] Più recentemente, Umana gloria (Milano, Mondadori, 2004) è stata ristampata in Mario Benedetti, Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi, Gian Mario Villalta, Milano, Garzanti, 2017.
[5] «Nella poesia di Mario Benedetti […] il terremoto, il crollo, sembrano costituire il germe del danno che preclude una “visione intera”»: Raffaella Scarpa, Mario Benedetti, in Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, a cura di Giancarlo Alfano [et alii], Roma, Sossella, 2005, pp. 419-421: 420.
[6] Cfr. Andrea Afribo, Mario Benedetti, in Id., Poesia contemporanea dal 1980 a oggi. Storia linguistica italiana, Roma, Carocci, 2007, pp. 205-221: 210.
[7] Cfr. Benedetti, Moriremo guardati, cit., p. 12. Un’analisi di Quanto s’incatina il cielo si trova in Afribo, Mario Benedetti, cit., p. 210.
[8] Guido Mazzoni, Mario Benedetti, «Umana gloria», in «Almanacco dello Specchio», a cura di M. Cucchi e A. Riccardi, Milano, Mondadori, 2005, pp. 169-171: 170.
[9] Ibidem.
[10] Qualcosa di simile accade in un testo di Umana gloria dedicato al funerale del padre (È stato un grande sogno vivere, in Id., Umana gloria, cit., p. 35).
[11] Mario Benedetti, Dinanzi al nulla, in «Scarto minimo», 0, novembre 1986, pp. 25-26: 25.
[12] Id.,, “Quel verso in cui la vita è dilaniata in un sogno e in un giorno chiaro e silenzioso”, in «Scarto minimo», 1, marzo 1987, pp. 28-29.
[13] La non aderenza fra realtà e linguaggio, come argomento filosofico, ha senz’altro origini ancora più antiche. Rimanendo nel Novecento, è un tema tipico di scrittori e filosofi di inizio secolo: fra questi, per Benedetti è fondamentale Carlo Michelstaedter.
[14] La sintassi dei primi libri di Benedetti guarda a quella di De Angelis per l’uso limitato della punteggiatura e per la frequenza dei puntini di sospensione, nonché per gli anacoluti e per l’indiretto libero: cfr. ad esempio uno dei testi più enigmatici di Somiglianze, All’incrocio di Ed…: «la pazzia / di una chiarezza, vedere di persona, mettere in comune/ queste cose… non sono il luogo di una storia generale, non /si incontreranno mai e non non» (Milo De Angelis, Poesie, Milano, Mondadori, 2008, p. 11). Benedetti si distanzia da subito, invece, per l’uso dell’enjambement, che fin dall’inizio è molto limitato, mentre è più marcato e fondamentale per il ritmo di Somiglianze.
[15] Cfr., al riguardo, Vittorio Coletti, Dalla lingua al testo: note linguistiche sui «Canti Orfici», in Dino Campana alla fine del secolo, a cura di Anna Rosa Gentilini, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 63-79: 71; e Claudia Crocco, Ritmo e figure di ripetizione. «Canti Orfici», in Ead., Poesia senza verso. La poesia in prosa in Italia, tesi di dottorato, Università degli studi di Trento, 22 maggio 2017 (in corso di stampa). Per le fonti delle ripetizioni (Pascoli, e Campana, per il tramite di De Angelis) cfr. Afribo, Mario Benedetti, cit., pp. 214-215, dove si segnala anche una probabile citazione da Georg Trakl, uno dei poeti più letti da Benedetti (ivi, p. 106). Cfr. anche Maria Borio, Stupore, lucidità, in Ead., Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000, Venezia, Marsilio, 2018, p. 319.
[16] Somiglianze è un archetipo importante anche per il riferimento topografico: «da via Facciolati/ da via Facciolati» (via Facciolati è una strada di Padova) riprende «via Pacini. Piove, sempre di più» (De Angelis, Poesie, cit., p. 18), «Fuori c’è Milano. Novembre» (ivi, p. 19) e «c’è freddo su via Garigliano c’è freddo c’è pioggia c’è / freddo» (ivi, p. 68).
[17] Benedetti, La casa, cit., I e II. Non essendo numerate le pagine, indico i numeri dei paragrafi che compongono ciascuna sezione. Gli stessi testi erano già in Id., Moriremo guardati, cit., pp. 20 e 34-35.
[18] I nomi citati sono quasi sicuramente inventati, tuttavia è probabile che si riferiscano a personaggi realmente esistiti nella vita dell’autore. Un probabile riferimento per questa prosa, inoltre, è nella scrittura di Cesare Pavese. Si rimanda al futuro, per assenza di spazio, uno studio più approfondito sui modelli di Benedetti (in particolare Pavese e De Angelis).
[19] Benedetti, La casa, cit., IV.
[20] Ivi, XXIV.
[21] Benedetti, Moriremo guardati, cit., p. 21.
[22] Id., La casa, cit., XXII.
[23] Qui si trova, per la prima volta, un riferimento alla malattia dell’autore: «È vera la parola che hanno usato, neoplasia» (Benedetti, Il cielo per sempre, cit., p. 14).
[24] Ivi, p. 13. Dato che anche in questo libro le pagine non sono numerate, userò una numerazione di servizio, che parte dalla pagina della prima poesia.
[25] La voce di Tersa morte è multipla, fin dalle prime pagine. Chi dice ‘io’ nella terza sezione è la madre morta («Le madri sono così sole con i loro bambini. / I figli hanno solamente le nostre ossa. / Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia, / Io nella mia vita non ho letto nessuna poesia. / E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta»); nella settima sono personaggi immaginari ispirati all’infanzia in Friuli (come in Moriremo guardati e La casa), che danno anche i titoli alle poesie: Carmen, Maurizio, Marta («E seduta contro la parete… / Morto il padre, morto io… / Un aborto, diciott’anni…»); è Marco nella sezione intitolata Idiot boy (dove si allude ad un poemetto omonimo di William Wordsworth). Talvolta c’è qualcuno, identificato come un sosia dell’autore che dialoga con loro: «Dai del tu ai morti, stai al posto di te, anche» (p. 82). Si sovrappongono i punti di vista, le voci e i piani temporali, «si diventa altri occhi per morire dovunque»: è il 1977, è il 1960, è il 2010. La rappresentazione del mondo è un mosaico di frammenti in cui il soggetto corrispondente all’autore si dissolve («Ma tu, io, ti togli da me» si leggeva già in Materiali di un’identità, nella poesia L’azzurro). Cfr. anche Claudia Crocco, Scrittura del limite. Su Tersa morte di Mario Benedetti, in «Semicerchio», 50, 2014, pp. 80-81.
[26] Benedetti, Tarda estate a Medulin, in Id., Tersa morte, cit., p. 16.
[27] Mario Benedetti, Maggio 2009 (intervista con Claudia Crocco), in Id., Materiali di un’identità, Massa, Transeuropa, 2010, pp. 56-61: 57.
[28] Ancora una volta, il modello di questo secondo uso della ripetizione si trova in Somiglianze e nelle opere successive di De Angelis. Cfr. al riguardo Andrea Afribo, Deangelisiana, in Poesia ’70-’80: le nuove generazioni, a cura di B. Manetti, S. Stroppa, D. Dalmas, S. Giovannuzzi, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2016, ora in Id., Poesia italiana postrema. Dal 1970 a oggi, Roma, Carocci, 2018, pp. 107-126, in part. pp. 118-122. Cfr. anche Marco Villa, La sintassi di Somiglianze di Milo De Angelis, tesi di Laurea Magistrale in Lettere, Università di Siena, a.a. 2014-1015 (rel. Stefano Dal Bianco), pp. 150-184, in part. pp. 156-164.
[29] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Milano, Adelphi, 1981, pp. 121 e 123-124.
[30] Mario Benedetti, Log, Ambleteuse, in Id., Umana gloria, cit., p. 40; e inoltre Colori 11, in Id., Pitture nere su carta, Milano, Mondadori, 2008.
[31] Claudia Crocco, Intervista a Mario Benedetti, maggio 2009, materiale inedito. La poesia in questione ora si legge in Benedetti, Materiali di un’identità, cit., p. 70.
[32] Cfr. al riguardo anche Alberto Comparini, Mario Benedetti, «Materiali di un’identità», in «Italian Poetry Review», VIII, 2013, pp. 330-332; Matilde Manara, Il vertice lacerato. Su Materiali di un’identità di Mario Benedetti, in «L’Ulisse», XXI, 2018, pp. 251-258.
[33] Benedetti, Capitolo IV, in Id., Materiali di un’identità, cit., pp. 25-27.
[34] Mario Benedetti, Note su “Composita solvantur”, in Dieci inverni senza Fortini (1994-2004). Atti delle Giornate di studi nel decennale della scomparsa (Siena, 14-16 ottobre 2004; Catania, 9-10 dicembre 2004), a cura di Luca Lenzini, Elisabetta Nencini e Felice Rappazzo, Macerata, Quodlibet-Archivio Fortini, 2006, pp. 117-118.
[35] Mario Benedetti, Lo stupore, la lucidità, in «Scarto minimo», 3, aprile 1988, p. 14.
[36] Mazzoni, Mario Benedetti, «Umana gloria», cit., p. 170.
[37] Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 154.
[38] Stefano Dal Bianco, L’idiota che ci rappresenta, in Benedetti, Tutte le poesie, cit., pp. 11-19: 18.
[39] Tommaso Di Dio, La realtà della poesia. Su “Questo inizio di noi” di Mario Benedetti, in «Officina poesia. Nuovi Argomenti», 24 novembre 2015, http://www.nuoviargomenti.net/poesie/la-realta-della-poesia-su-questo-inizio-di-noi-di-mario-benedetti/. Secondo Di Dio, la sfiducia nella parola poetica è, a sua volta, una conseguenza dell’influenza di Michelstaedter: «Sia via la via del ricordo elegiaco, sia l’opzione di una parola poetica non consapevole del dramma fra vita e segno sono qui rifiutate, in quanto conducono sempre alle “parole in posa”, ad una reiterazione meccanica della retorica linguistica, ovvero della continuità illusoria di cui dicevamo sopra. Le parole sono nella retorica meri “ornamenti dell’oscuro”, nel senso che Carlo Michelstaedter attribuiva a questa espressione: apparenza assoluta, il cui contenuto non è altro che promulgare il deterministico istinto alla vita, tutt’altro da svelarlo».
[40] Ibidem.
[Immagine: Foto di Dino Ignani].