di Vladimiro Giacchè
È almeno dal maggio del 2010 – allorché la crisi greca, pessimamente gestita dall’establishment europeo, esplose con virulenza – che lo Stato, e in particolare i suoi servizi sociali e le sue prestazioni assistenziali e previdenziali, hanno preso il posto di banche e speculatori sul banco degli accusati per l’attuale crisi. Grazie ad un vero e proprio coro dei principali mezzi d’informazione.
Il Washington Post espresse già allora con ammirevole chiarezza il concetto fondamentale: “Quanto stiamo vedendo in Grecia è la spirale della morte del welfare state. … Ogni nazione avanzata, inclusi gli Stati Uniti, deve affrontare la stessa prospettiva… I problemi sorgono da tutte le prestazioni assistenziali (indennità di disoccupazione, assistenza agli anziani, assicurazioni sanitarie) oggi garantite dagli Stati”. Ma il necrologio dello stato sociale letterariamente più ispirato uscì il 15 maggio sul Sole 24 Ore, a firma di Alberto Orioli. La sua premessa: “il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”. La sua conclusione: va messo in gioco “il costoso sistema di protezione sociale pubblica (che ormai aveva incluso anche la gestione dei posti di lavoro statali) che ha incarnato per quasi due secoli l’anima stessa del modello economico continentale. Pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi da antichi referenti di un’Europa politica costruita tra un perenne compromesso tra stato e mercato e tra individuo e società si sfarinano di fronte ai colpi della crisi finanziaria che rischia di diventare crisi di moneta e poi crisi di nazioni”. Ovviamente i “pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi” che “si sfarinano” sono una licenza poetica e grammaticale, ma l’espressione rende comunque abbastanza bene l’idea di quanto sta accadendo un po’ ovunque a causa dei “pacchetti anti-crisi” varati da praticamente da tutti i governi europei.
Questi inviti a smantellare il welfare “per mettere sotto controllo il debito pubblico” sono piuttosto singolari. E non soltanto perché chi li formula si era ben guardato dal lanciare analoghi allarmi quando – non molti mesi prima – gli stati sborsavano migliaia di miliardi per salvare banche e società finanziarie. Ma anche per un altro motivo: se scorporiamo il debito complessivo di ciascun Paese nelle sue varie componenti (debito pubblico e debito privato), ci accorgiamo che la componente di gran lunga preponderante è tuttora rappresentata dal debito privato (famiglie e imprese). Secondo recenti elaborazioni di Morgan Stanley, nei paesi del G10 il debito privato è sempre un multiplo del debito pubblico: in particolare, nel Regno Unito è superiore di 8 volte, in Europa di 4, in Giappone di 3, negli Usa di 2,5 volte. E allora, perché puntare proprio sul debito pubblico?
Una prima risposta è rappresentata dall’idea che la riduzione del ruolo dello Stato nell’economia sia sempre e comunque qualcosa di positivo. A questo presupposto di carattere ideologico si affiancano però alcuni obiettivi molto concreti. Il primo è quello di scaricare il costo della crisi su salari indiretti e differiti, riportando i costi della riproduzione sociale in capo agli individui. I servizi sociali garantiti dallo Stato sono parte del salario indiretto, mentre le prestazioni pensionistiche sono salario differito: il salario sociale comprende anche questi elementi e non soltanto la cifra direttamente percepita in busta paga. Questa in fondo è l’essenza del welfare State: lo Stato che interviene come mediatore tra capitale e lavoro, garantendo quella parte del salario riferita all’utilizzo dei servizi pubblici fornendoli a un prezzo inferiore a quello di mercato, e ponendoli quindi almeno in parte a carico della fiscalità generale anziché a carico dei lavoratori. Nel momento in cui si privatizzano le società che forniscono servizi di pubblica utilità, il risultato non è soltanto il passaggio dalla mano pubblica a quella privata, ma anche l’abbandono della logica per cui il diritto alla fruizione a un prezzo accessibile dei servizi pubblici fa parte dei diritti del cittadino/lavoratore a favore della logica puramente mercantile, che vede da un lato un venditore di servizi che deve massimizzare il proprio profitto e dall’altro il cliente che li compra. Spinta alle sue estreme conseguenze, questa logica conduce alla sostituzione della sanità privata a quella pubblica, delle pensioni private a quelle pubbliche, e così via. In questo modo i costi che lo Stato risparmia vengono portati a carico dell’individuo: sarà il lavoratore con la sua assicurazione privata a doversi pagare l’intervento ospedaliero, la pensione e così via.
Il secondo risultato, connesso ovviamente al primo, è l’apertura al privato del mercato dei servizi pubblici, e la vendita ai privati delle stesse società pubbliche. In questo modo vengono dischiusi nuovi ambiti di valorizzazione per il capitale, e si amplia il perimetro delle attività ricomprese nell’ambito del mercato. Questo in Italia è avvenuto in modo massiccio negli anni Novanta, durante i quali sono state privatizzate società manifatturiere e di servizi per un valore complessivo di 110 miliardi di euro. Non di rado le privatizzazioni hanno consentito ad imprese private che si trovavano in difficoltà nei settori in cui operavano di riconvertirsi a fornitori di servizi pubblici, magari in regime di monopolio (emblematico il caso delle autostrade privatizzate). Questo non ha affatto giovato alla competitività di sistema del nostro Paese – e infatti i dieci anni successivi sono stati gli anni di minore crescita e di peggiori prestazioni in termini di export dal dopoguerra in poi –, ma ha consentito a molti capitalisti nostrani di continuare a conseguire profitti cospicui pur perdendo colpi nei settori originari di attività.
Ove poi queste privatizzazioni siano forzate dall’emergenza, può aversi anche un terzo risultato, ossia l’acquisto di attività sottocosto da parte di società con sede in altri Paesi, che potranno così vantaggiosamente concentrare e centralizzare capitali, magari anche al solo fine di chiudere società concorrenti e acquisire maggiore potere di mercato: in questo modo la distruzione di capacità produttiva in eccesso, necessaria per superare la crisi, viene localizzata in alcuni Paesi e non in altri. Questo genere di situazioni è così descritto da David Harvey nel suo ultimo libro, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza: “le crisi possono essere orchestrate, gestite e controllate… Spesso questa è la finalità dei programmi di austerity amministrati dallo Stato… Forze esterne possono provocare una crisi circoscritta a un settore o a un territorio; in questo il Fondo Monetario Internazionale ha una grande esperienza. Il risultato è che periodicamente, in qualche parte del mondo, si crea uno stock di attività svalutate e in molti casi sottovalutate, che può essere rimesso all’opera con profitto da chi possiede un’eccedenza di capitale ma non trova opportunità per impiegarla altrove. Questo è ciò che è accaduto in Asia orientale e sud-orientale nel 1997-1998, in Russia nel 1998 e in Argentina nel 2001-2002”. All’elenco di Harvey possiamo ora tranquillamente aggiungere l’acquisto sottocosto di attività nei Paesi attualmente investiti dalla crisi nell’Europa meridionale da parte di Paesi del Centro e Nord Europa.
I programmi di riduzione del debito e di austerity in Europa delineano perciò una strategia ben precisa di uscita dalla crisi, che attraverso lo smantellamento del welfare coglie numerosi obiettivi: far sgonfiare la bolla del debito dal lato del debito pubblico (e non da quello delle imprese private), far pagare la crisi ai redditi da lavoro – e a beneficio di alcune categorie di imprese private –, ampliare i mercati estendendoli a settori sinora sottratti ad essi, redistribuire i rapporti di forza non soltanto tra lavoro e capitale, ma anche tra capitali localizzati in diversi Paesi.
[L’intervento è apparso su «Alfabeta2». Una versione più ampia e argomentata di queste tesi si trova nel libro di Vladimiro Giacché intitolato Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato (Aliberti, 2012)]
[Immagine:Banksy, Falling Shopper (2011) (gm)].
Trovo questo articolo un contributo molto utile anche per l’esemplare chiarezza argomentativa.
L’unico mio dubbio riguarda il fatto che oggi sia davvero in atto una strategia di uscita dalla crisi.
A me pare che la dimensione quantitativa dei titoli che si trovano sul mercato rendono impossibile lo sgonfiamento della bolla, e che ormai costoro si muovano in un’ottica disperata che tenta ormai soltanto di rinviare il momento della resa dei conti. Chi insomma può pagare i seicentomila miliardi di dollari di titoli che stanno sul mercato, chi mai ha risorse sufficienti per evitare l’inesigibilità generalizzata?
Io però non sono un economista e sarebbe per me interesse conoscere l’opinione dei veri economisti in proposito.
Articolo molto lucido, così lucido che pure la cronaca di oggi conferma questa analisi:
http://www.repubblica.it/economia/2012/02/23/news/draghi_modello_sociale_europeo-30403432/