di Moira Egan

 

Le metamorfosi, rubrica a cura di Damiano Abeni e Andrea Tomasini

INVESTITURA DA CECCONI (di James Merrill, trad. di Damiano Abeni e Moira Egan)

 

per David Kalstone

Caro, quel sogno (dopo la diagnosi)

mi trovò che avevo perso la pazienza davanti alla porta

del “nostro” sarto veneziano. Volevo un abito

da sera per il capodanno.

 

Poi un lume si accese. La vecchia che cuce

dall’alba al tramonto nel retrobottega, aprì

d’un guardingo centimetro, protestando vivace

per l’ora tarda –

 

Tessuti? Modelli? Quelli li mostra, non ora,

di giorno il proprietario – finché un lampo

non le apre la mente: Ma! il Signore è venuto a

provare la nuova veste da camera!

 

Vestaglia? Mi fa cenno di entrare. Il trittico

dello specchio evoca tre curve megere in cui

si è diffratta in spazio ignoto. Riconvergono per magia,

braccia colme di luna.

 

Sulle mie braccia infila maniche luccicanti. Fredda

seta dalle solenni, candide pliche – lutto orientale –

mi inguaina dalla gola alle caviglie. Mi rivolgo a lei,

senza capire.

 

Ringrazi il suo amico, ridacchia, il Professore!

Sbigottito oscillo come un albero di lacrime. Tu –

così lontano, malato, impaurito – hai saputo orchestrare

questo regalo che mi manda il cuore in gola.

 

*

 

INVESTITURE AT CECCONI’S

 

for David Kalstone

Caro, that dream (after the diagnosis)

found me losing patience outside the door of

“our” Venetian tailor. I wanted evening

clothes for the new year.

 

Then a bulb went on. The old woman, she who

stitches dawn to dusk in his back room, opened

one suspicious inch, all the while exclaiming

over the late hour–

 

Fabrics? patterns? those the proprietor must

show by day, not now — till a lightning insight

cracks her face wide: Ma! the Signore’s here to

try on his new robe!

 

Robe? She nods me onward. The mirror tryptich

summons three bent crones she diffracted into

back from no known space. They converge by magic,

arms full of moonlight.

 

Up my own arms glistening sleeves are drawn. Cool

silk in grave, white folds–Oriental mourning–

sheathes me, throat to ankles. I turn to face her,

uncomprehending.

 

Thank your friend, she cackles, the Professore!

Wonderstruck I sway, like a tree of tears. You–

miles away, sick, fearful– have yet arranged this

heartstopping present.

*

 

Nella “Investitura da Cecconi” James Merrill tesse una splendida tela di strofe saffiche il cui ordito e trama intrecciano filamenti di fato, epifania, bellezza e morte, come espressione dell’iniziazione a vivere con l’AIDS e a morirne.

 

La poesia si apre, su una nota intima, alla porta del “loro” sarto veneziano: “caro”, in italiano nell’originale – spontanea e naturale, l’apostrofe a Kalstone [David Kalstone (1933-1986), finissimo critico, autore tra l’altro di Five Temperaments: Elizabeth Bishop, Robert Lowell, James Merrill, Adrienne Rich, John Ashbery (1977) e Becoming a Poet: Elizabeth Bishop with Marianne Moore and Robert Lowell (uscito postumo nel1989). La sua malattia era nota da tempo, al momento della scrittura di questa poesia]. Ma in modo pre-liminale, prima ancora di varcare la soglia, l’autore ha già “perso la pazienza” davanti a quella porta. Qui il gioco di parole tra pazien“za” e pazien“te” è fin troppo ovvio per me – moglie di un medico ricercatore che non cura singoli pazienti, ma ha grandi riserve di pazienza per starmi accanto. A metà degli anni ’80 i medici che negli Stati Uniti curavano maschi omosessuali perdevano pazienti ogni giorno, letteralmente.

 

Il sogno viene innescato da “la diagnosi”. Ancora più pesante della “gnosi” è l’impersonale, assoluto “la”: la sua condizione ormai è certa; adesso sa inequivocabilmente ciò che per qualche tempo poteva aver percepito come inevitabile. In questo sogno, ben conscio della situazione temporale, l’autore “voleva” un abito da sera per il capodanno. Questo verbo svolge diverse funzioni: la scelta di volere ci colloca fermamente sull’infido e contagioso territorio del volere come desiderio, nel momento stesso in cui rivela la mancanza/assenza di questo nuovo abito da sera. Anche dal punto di vista temporale, quindi, ci troviamo in una situazione liminale: stiamo per superare, ma non ancora, la soglia dell’anno nuovo.

 

Poi si accende una luce, e così viene preparato il terreno per l’illuminazione epifanica. In armonia con la struttura delle strofe saffiche, all’interno di una chiara tradizione greca, è una donna anziana che, come una Moira, “cuce dall’alba al tramonto” nel retrobottega. “Un guardingo centimetro” è tutto ciò che concede a questo punto – con la poesia che non perde assolutamente mai di vista la biga alata del tempo – non di più, data “l’ora tarda”.

 

“Tessuti? Modelli?” – ci troviamo in una sartoria di Venezia e così il lessico legato ai tessuti diviene carico di accenti profetici. Nell’originale il termine “fabric” viene dal francese fabrique, che a sua volta deriva dal latino fabrica, da faber, il facitore, il poeta. Mentre a “modello” corrisponde “qualsiasi cosa fatta, o proposta, o assunta per servire come esemplare da riprodurre, da imitare, da tener presente per conformare ad esso altre cose”.

 

Il dubbio permane finché “un lampo non le apre la mente”, quasi l’immagine di una figura di Lichtenberg che si disegna sulla fronte della donna, a descrivere (nell’originale con assonanza e onomatopea) l’improvvisa rivelazione: “Ma! il Signore è venuto a / provare la nuova veste da camera!

 

“Veste”, davvero. Solo in questo momento della poesia la voce narrante attraversa la soglia ed entra nell’atelier: proprio in questo momento, sullo sfondo sagacemente disegnato di un trittico a specchio, la vecchia si diffrange in tre figure. Cloto, Lachesi e Atropo, le tre Moire: pronte a servirla, signore. E si sente subito che queste donne maneggiano esperte gli strumenti dell’arte sartoriale.

 

Dallo “spazio ignoto” l’anziana riconverge a tornare una, “per magia, / braccia colme di luna”. Luce nell’oscurità, magnifico preludio alla descrizione vera e propria della veste. Inoltre, c’è qualcosa di quasi medico nella fisicità della descrizione della veste che viene messa sul corpo dell’autore: l’intimità con le braccia ci ricorda che è in quelle vene che si “infila” l’agocannula per prelevare il sangue. “Fredda” è senz’altro un aggettivo appropriato a descrivere la sensazione della seta sulla pelle, certo, ma comincia a portare alla mente anche il freddo della morte. E per quanto sia poetico dire “luccicanti”, l’aggettivo può essere usato per descrivere patine di sudore, in particolare dei sudori notturni tipici dell’AIDS.

 

Il verso si chiude su quel “fredda” e gli occhi poi scendono a “silk in grave,” – dove “grave”, quando usato come sostantivo e non aggettivo, significa “tomba”. La virgola che chiude quella parte del discorso, e il contemporaneo inserimento di uno spondeo dove lo schema metrico avrebbe richiesto un trocheo, creano una breve pausa, ma decisa, che appunto porta il lettore (e il traduttore) a pensare a “tomba” prima che all’aggettivo “solenne”. Ovviamente poi la frase continua sintatticamente a completare la descrizione della veste/sudario, del “lutto orientale” che “inguaina” l’autore dalla gola alle caviglie. Ancora una volta, le diverse parti del corpo vengono descritte con intimità. Quante diverse guaine fasciano il nostro corpo?

 

Anche se ci sono già stati un paio di lampi epifanici nel buio della sartoria, finora l’autore – già giunto alla chiusa della quinta strofa – è ancora interdetto, se ne sta lì “senza capire”. Ma nella strofa finale, la vecchia “ridacchia” la risposta all’enigma posto dal sogno: “Ringrazi il suo amico, […] il Professore!” che, anche se “così lontano, malato, impaurito” e così avanti nelle devastazioni impostegli dalla sua stessa malattia, ha “saputo orchestrare / questo regalo che mi manda il cuore in gola”. Alla maniera tipica di Merrill, l’espressione conclusiva fa “lavoro doppio”: la natura del regalo, che “manda il cuore in gola” per la bellezza, ma anche per l’angoscia. Il dono, in questo momento, appena al di là della soglia, di questo istante di illuminazione.

 

Un’immagine dolcissima precede la chiusa della poesia: “Sbigottito oscillo come un albero di lacrime”. Oscilla, non si spezza, come un salice piangente, non un albero della vita ma un albero di lacrime. E le lacrime sono l’ovvio significante di estrema emozione, ma oggettivamente anche uno dei fluidi corporei che, alla metà degli anni ’80 si credeva potessero trasmettere HIV.

 

Difficile ricordare ai nostri giorni “così illuminati”, com’erano le cose in quel decennio: il puro terrore che circondava il virus e il mistero della sua trasmissione. Non si poteva salire su un autobus oppure scendere in metropolitana a New York senza vedere segni della peste che ti circondava; regnavano le paure più irrazionali, nei vicoli malfamati come nelle feste più eleganti. Il virus sembrava essere ovunque e nella comunità gay si contavano decine di morti ogni giorno. Cuore in gola, davvero.

 

Immaginatevi di essere parte di una popolazione ad alto rischio per una malattia che, a quell’epoca, era equivalente a una condanna a morte. Immaginatevi il cerchio degli eletti che si rimpicciolisce di continuo, si stringe come un cappio: l’amico di un amico, un conoscente, un amico, un amante. David Kalstone.

 

Anche la parola investitura, collocata nel titolo, fa un “doppio lavoro” in questa poesia. Non solo porta il significato letterale dell’indossare un indumento, ma fa chiaro riferimento a un’induzione, a una cerimonia in cui riconoscimenti o onorificenze vengono formalmente conferiti a qualcuno.

 

Colui che parla, superando quella soglia si è trovato tra le braccia del Fato, che gli porge un sudario. Con la diagnosi di HIV Merrill entra in un territorio tremendo ma allo stesso tempo avvolto da un’aura di “destinato”: viene indotto nel club di coloro che morranno per la Bellezza e il Desiderio. A metà degli anni ’80 si trattava ancora di un club relativamente circoscritto costituito in massima parte, anche se non esclusivamente, da maschi gay.

 

Questa poesia, con un’altra a cui è legata, “Farewell Performance”, ci porta ineludibilmente nel regno della possibilità della Morte causata dal Desiderio; dell’idea che l’Estetica sia vicina a una filosofia di vita, una Weltanschauung. Immaginate il paradossale sollievo del sapere, della certezza della diagnosi, dopo un periodo liminale di negazione o di puro e semplice non-sapere. Immaginate, nelle parole di Mark Doty:

 

E c’è chi ha detto che se l’è cercata,

se l’è cercata –

mentre non ha fatto altro che immergersi

nella marea salata

di volere ciò che voleva,

concedendosi così ubriaco

o fatto che quasi non importava a chi,

anche se erano stupendi…”

 

[da “Tiara”]

 

Le strofe saffiche ci collocano direttamente all’interno della tradizione greca, schiudono la porta (apertura, penetrazione, trasmissione) alla possibilità di credere a un Fato del genere. Quando ti chiami Moira e hai vissuto in Grecia per qualche anno, capisci come i greci accettino, per quanto temano, l’oscuro e inevitabile ruolo del destino. Fessure, porte socchiuse, aperture impercettibili nella guaina protettiva del corpo, lasciano entrare ciò che capita, virus o epifania. Questa “Investitura” ci porta ad accettare le possibili – e, al tempo in cui questa poesia è stata scritta, sicuramente fatali – conseguenze del vivere secondo Bellezza e Desiderio.

 

[Immagine: James Merrill, Stonington, Connecticut, June 1973; photograph by Jill Krementz].

 

Le metamorfosi, rubrica a cura di Damiano Abeni e Andrea Tomasini

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