di Bartolo Cattafi

 

[Esce oggi, per le edizioni Le Lettere, Tutte le poesie di Bartolo Cattafi, a cura di Diego Bertelli. Pubblichiamo in anteprima un estratto dell’introduzione di Raoul Bruni (il passo relativo a L’Osso, l’anima del 1964) e alcune poesie di Bartolo Cattafi. Il volume sarà distribuito in libreria dal 6 giugno, ma può essere acquistato sin da oggi nel sito della casa editrice].

Per la poesia di Bartolo Cattafi

di Raoul Bruni

 

La raccolta L’Osso, l’anima, pubblicata nel 1964 – un anno prima di un altro libro decisivo per la storia della poesia italiana del dopoguerra, come Gli strumenti umani di Vittorio Sereni –, segna una svolta irreversibile nel percorso di Cattafi. Con questa svolta (già annunciata dalla plaquette del 1961 Qualcosa di preciso, poi accolta come prima sezione del libro) il poeta si emancipa nettamente sia dalla poetica della linea lombarda, sia dalle giovanili suggestioni novecentiste, tanto che, da quel momento in poi, sarà sempre più difficile interpretarlo alla luce della tradizione del Novecento italiano. Non intendo dire che nella produzione precedente non si possano trovare sintomi che prefigurino il mondo poetico dell’Osso: penso a una poesia poco citata già inclusa in Nel centro della mano (Se vuoi ascoltare), nella quale il poeta evoca la «carcassa spolpata delle cose» e «le secche bucce di feste favolose» o ai versi di Cabotaggio, in cui affiora l’immagine dell’«osso perenne della morte»; tuttavia è indubbio, come ha scritto l’interprete più acuto di Cattafi, Giovanni Raboni, che ci troviamo di fronte a una «rotazione […] di centottanta gradi» [1]. Si tratta – scrive ancora Raboni – di un «passaggio, non brusco, ma netto, da una prevalente figuralità, da un registro sostanzialmente descrittivo e narrativo a un registro sostanzialmente astratto-speculativo» [2]. I viaggi in versi di Cattafi assumono un forte accento metafisico, e i paesaggi lirici si riducono all’essenziale, in linea con una poetica tutta mirata allo scopo di far emergere la nuda essenza delle cose: «Avanti, sputa l’osso: / pulito, lucente, levigato, / senza frange di polpa, / l’immagine del vero» (L’osso). Per portare alla luce l’osso della realtà occorre trasferire gli oggetti sulla pagina con la massima precisione, assumere uno sguardo quasi scientifico (Cattafi è stato più volte accostato al poeta-matematico Sinisgalli, di cui possedeva diverse raccolte), depurato dalle superstizioni umanistiche. Rileggiamo la poesia più emblematica della raccolta, Qualcosa di preciso:

 

Con un forte profilo,
secco, bello, scattante,
qualcosa di preciso
fatto d’acciaio o d’altro
che abbia fredde luci.
E là, sul filo della macchina, l’oltraggio
d’una minima stella rugginosa
che più corrode e corrompe più s’oscura.
Un punto da chiarire, sangue
d’uomo, briciola
vile oppure grumo perenne,
blocco di coraggio.

 

La volontà di precisione è enunciata chiaramente, eppure la natura dell’oggetto (degli oggetti) rimane enigmatica, sfumata e sfugge all’ansia definitoria. L’aporia è stata rilevata da Silvio Ramat in un saggio che ha lo stesso titolo della poesia e dell’omonima sezione con la significativa aggiunta di un punto di domanda: Qualcosa di preciso? [3] Tutta la poesia di Cattafi, da L’osso in poi, è animata dal contrasto tra polarità opposte: precisione e vaghezza; ansia di definizione e indeterminatezza; luce e oscurità. Illustrando questo gioco di opposizioni in riferimento all’Allodola ottobrina (ma l’osservazione ha una portata più generale), Vincenzo Leotta ha fatto opportunamente riferimento a Leopardi: «Il senso del limite schiude al visionario poeta la dimensione vertiginosa dell’illimitatezza, come la “siepe” de L’infinito leopardiano spalanca alla mente “interminati spazi” e “sovrumani silenzi”» [4]. Come la poesia di Leopardi, anche la lirica di Cattafi è alimentata da una serie di contrasti irriducibili, da un dualismo tragico (una poesia dell’Aria secca del fuoco s’intitola esattamente Dualismo) senza sintesi concilianti. Il leopardismo di Cattafi, tempestivamente messo in luce da Baldacci e Raboni, è un leopardismo sui generis. Non si tratta di un influsso documentabile con riscontri testuali precisi, quanto di una profonda consonanza spirituale. Il mondo poetico di Cattafi sembra riallacciarsi a Leopardi soprattutto per lo sguardo disincantato sul male dell’esistenza e per una tenace sfiducia nelle magnifiche sorti della storia.

 

Nella Milano degli anni immediatamente precedenti l’uscita dell’Osso, l’anima le magnifiche sorti erano innanzitutto quelle del miracolo economico, che la stampa di allora non si stancava di celebrare. Per misurare la distanza di Cattafi da quel clima di ottimismo diffuso conviene citare una poesia poco nota, come Al mercato, che sottende anche una critica implacabile e precoce della mentalità consumistica che andava prendendo piede in quel periodo:

 

C’è un calmiere che regola i rapporti
col prossimo tuo e con te stesso.
Sei solo e vinto,
debole, deforme,
devi andare al mercato.
Stordirti e scegliere
le voci nel brusio.
Stipulare contratti,
vendere, comprare
i beni che consumano la vita

 

Certo, in Cattafi non c’è spazio per la polemica sociale o politica contingente, ma questo non significa che egli non sappia osservare con rara profondità di sguardo il mondo circostante. Nell’Aria secca del fuoco, in cui sono presenti diversi riferimenti alla storia contemporanea, si può leggere una lirica, Ribollono le acque, che preconizza, con straordinaria lungimiranza, il conflitto serbo-croato che si sarebbe scatenato vent’anni dopo [5]; mentre nell’Allodola ottobrina – anche qui in sintonia ideale con Leopardi («sceso il sapiente / e salita è la turba a un sol confine / che il mondo agguaglia», recitano i versi dell’Angelo Mai) – Cattafi coglie la tendenza della società contemporanea a un livellamento sempre più pervasivo: «Qui nessuno eccelle / alla base all’origine una massa / omogenea compatta / variamente tagliata e ritagliata» (Una massa). Un altro aspetto che pone Cattafi nel solco ideale di Leopardi è l’intima compenetrazione tra poesia e filosofia. I riferimenti e i risvolti filosofici nell’opera di Cattafi sono spesso nascosti e impliciti, e è forse anche per questo che la critica tende ancora a omettere o a negare lo spessore speculativo della poesia cattafiana [6]. Leotta ha ravvisato l’influsso di Schopenhauer nella raccolta Segni [7]; da non trascurare è anche la sotterranea influenza di Nietzsche (le cui opere sono presenti nella biblioteca dell’autore): l’ossessione per la figura del cerchio e per il tempo circolare che percorre tutta l’opera di Cattafi si nutre anche della suggestione filosofica dell’eterno ritorno. «Tutte le cose dritte mentono […]. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo» recita un famoso frammento dello Zarathustra [8]; così sembra fargli eco Cattafi in due liriche dell’Allodola ottobrina: «Le linee luccicanti / rigide dritte / messe quasi a scacchiera / splendenti anche a sera nella mente / qua e là rese più pure / da pozzi di decantazione / sono strutture posticce» (Statua); «ho fede nei cerchi concentrici» (Nei cerchi). Più difficile è invece documentare il grado di conoscenza che Cattafi aveva di Heidegger; resta il fatto che certe affinità sono innegabili, non solo per il tema esistenziale dell’essere-per-la-morte [9], ma anche, soprattutto, per una certa modalità di sguardo sulla civiltà della tecnica. Nell’Osso, l’anima l’attenzione di Cattafi si appunta su una serie di oggetti meccanizzati, asettici, che sembrano eludere ogni forma umana di controllo. E che, come la macchina su cui è incentrata una lirica dell’Allodola ottobrina, nascondono spesso un’allarmante minaccia:

 

Montando i lucidi
pezzi del congegno
t’impasti d’olio le mani
ghiottamente pregusti
l’odore riscaldato dell’acciaio
la macchina in funzione
che ti colma la vita
ti acceca ti assorda
ti morde le dita sussultando
ti stritola ti sega…
(La macchina)

 

In questi versi appare una parola che torna assai spesso nell’opera di Cattafi: «congegno» (in Marzo e le sue idi è compresa anche una poesia con questo titolo). Si tratta di un vocabolo abbastanza prossimo semanticamente al sostantivo tedesco Gestell, termine fondamentale del pensiero heideggeriano tradotto di solito con «impianto». Nella biblioteca di Cattafi è presente uno studio su L’esistenzialismo di Heidegger (1944) di Luigi Stefanini, filosofo e studioso trevigiano che aveva insegnato filosofia teoretica all’Università di Messina alla fine degli anni Trenta; inoltre il poeta poteva aver avuto accesso alle idee heideggeriane anche attraverso le opere di Julius Evola, che Vanni Scheiwiller (amico e editore di Bartolo) aveva accolto nel suo catalogo a partire dai primi anni Sessanta, suscitando qualche malumore (vista la fama controversa di Evola). Tra le opere possedute da Cattafi c’è il noto saggio di Evola Cavalcare la tigre, edito da Scheiwiller nel 1961, proprio negli anni della gestazione dell’Osso, l’anima. Nel libro di Evola, incentrato sulla critica della civiltà della tecnica, sono presentate e discusse anche le tesi di Nietzsche e di Heidegger: la tigre che bisogna cercare di cavalcare è, per l’appunto, la tecnica moderna. Non era stato notato che in L’osso, l’anima (nella sezione Sagoma 1) è contenuta una poesia, intitolata La tigre, che nel finale sembra citare quasi alla lettera il titolo del saggio di Evola, e anche in questi versi torna la parola-chiave «congegno»:

 

In molti modi e maniere,
anche mettendo da canto
i muscoli inferiori,
devi camminare
andare avanti o indietro
ma marciare,
con la frusta col pungolo a pedate,
passo trotto galoppo,
e non è vero
il tuo non ce la faccio.
L’esse esse la vita l’opportuna
puttana ti tengono in funzione.
Poi sulla tua funzione cala il sipario,
velario di mistero sullo straccio
umano che non vuole
essere atleta, eroe,
acciaio di ardue prestazioni.
In qualche luogo qualcuno
impartisce impulsi,
pesa, coordina, misura,
non ci è dato vedere in quale cielo
agisca la macchina armoniosa.
Ai nostri deboli lumi
appare la ferocia del congegno,
la calda tigre
che cavalchiamo a pelo.

 

* * *

 

Lavorando a questa introduzione, pensavo a quanto sarebbe utile e, nello stesso tempo, difficoltoso preparare un commento alle poesie di Cattafi. Pochissimi sono gli echi facilmente riconoscibili di altri scrittori: Stefano Prandi, in riferimento a L’osso, l’anima, ha parlato giustamente di «rarefazione assoluta dei riferimenti intertestuali» [10]. Tanto che gli accostamenti più ricorrenti che sono stati proposti per la poesia di Cattafi sono quelli con pittori (da Wols a Burri), piuttosto che con scrittori: d’altronde in questa irriducibilità a altri modelli della tradizione letteraria italiana risiede una delle ragioni della grandezza e dell’originalità di Cattafi. Tra i pochi nomi di scrittori che gli si possono avvicinare, ci sono grandi nomi della letteratura europea, come Beckett, Michaux, Kafka. Quali altri poeti italiani contemporanei hanno scritto (o avrebbero potuto scrivere) una poesia avvicinabile alla strepitosa Favola?

 

Era una zona franca, senza reti
d’ascisse d’ordinate.
L’insetto impazzì. Visse
da solo, ronzando nella bianca
libertà, rimpiangendo iridati
pericoli di morte.

(L’osso, l’anima)

 

Questa lirica rappresenta uno dei rarissimi casi in cui il nome di Kafka e l’aggettivo (abusatissimo) «kafkiano» si possono utilizzare con pertinenza. A Kafka (specialmente al Kafka dei racconti) fanno pensare anche le molte poesie dell’Osso in cui si allude a una minaccia imprecisata ma incombente, a una condanna senza remissione, a un messaggio inviato da un’entità sconosciuta.

 

Cattafi non ha veri antecedenti nella tradizione poetica del Novecento, né veri eredi o continuatori. D’altra parte L’osso, l’anima avrà notevole incidenza sulla poesia successiva. Il caso più significativo è quello di Caproni, che aveva recensito le prime raccolte di Cattafi, compreso L’osso, l’anima; come ha mostrato Luigi Baldacci [11], l’ultimo Caproni presenta notevoli affinità con Cattafi, a cominciare dalla fenomenologia della figura della Bestia, al centro della raccolta Il Conte di Kevenhüller (1986). La bestia è, infatti, il titolo di un componimento dell’Osso, l’anima, che anticipa molti tratti della Bestia caproniana:

E come fai a sapere a prevedere
che se affondi il braccio
in un’acqua di pretto celeste
scatta su dal nulla
con tumulto di bolle l’immonda
bestia che ti azzanna
e per sempre ti avvince il braccio.
Dolcemente golosa del tuo sangue
dovrai nutrirla nasconderla coprirla
con la manica della giacca.

 

Note

1 G. Raboni, Introduzione, in B. Cattafi, Poesie scelte (1946-1973), a cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 1978, p. 18.

2 G. Raboni, Introduzione, in B. Cattafi, Poesie 1943-1979, a cura di V. Leotta e G. Raboni, Milano, Mondadori, 2001, p. vii.

3 Cfr. S. Ramat, Qualcosa di preciso?, «Antologia Vieusseux», V, 14, maggio-agosto 1999, pp. 55-60.

4 V. Leotta, Il cerchio e la linea: lo spazio e il tempo ne «L’allodola ottobrina», in Id., L’inverno di Bartolo Cattafi e altri studi, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1999, p. 16.

5 Cfr. G. Miligi, Ribollono le acque / tra Serbia e Croazia, «Gazzetta del Sud», 13 marzo 1992.

6 Fa eccezione Stefano Prandi, che ha affermato di considerare L’osso, l’anima «uno degli esempi più impressionanti di compattezza e penetrazione speculativa della tradizione poetica del secondo Novecento, ottenuta peraltro con una assoluta, splendida economia di mezzi espressivi» (Prandi, Da un intervallo del buio, cit., p. 64).

7 Cfr. V. Leotta, I segni e il senso, in Id., L’inverno di Bartolo Cattafi e altri studi, cit., p. 55.

8 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, versione e appendici di M. Montinari, nota introduttiva di G. Colli, Milano, Adelphi, 2002, p.184.

9 Perfino Baldacci che non riconobbe mai a Cattafi un valore propriamente filosofico parla di una evidente analogia con Heidegger per il motivo dell’essere-per-la-morte (cfr. L. Baldacci, Premessa, in Cattafi, Ultime, cit., p. 15).

10 Prandi, Da un intervallo del buio, cit., pp. 73-74

11 Cfr. L. Baldacci, Cattafi e Caproni, «Antologia Vieusseux», V, 14, maggio-agosto 1999, pp. 49-54.

* * *

Poesie

di Bartolo Cattafi

 

 

da Nel centro della mano (1951)

 

FESTA

 

L’aria calda il fumo il dolce tanfo
escono dai locali di divertimento
vengono incontro a voi, assiepati
come avidi passeri in attesa.
Andate a celebrare questa festa
sotto i lividi lampi dei tranvai
seguendo l’acqua della vostra clessidra
nelle latrine smaltate di gelo,
andate innanzi alle imposte incatenate
dove il sangue abbaia nelle stanze
e finge lunghe baldorie, domandate
se stasera vi lasciano scolare
i bicchieri dagli orli ancora caldi
che hanno stampe di triste rossetto.

 

 

L’AGAVE

 

Abbandona la sabbia siciliana, la musica ed il miele
degli Arabi e dei Greci,
rompi i dolci legami, questo torpido
latte delle radiche,
discendi in mare regina sonnolenta
verde bestia con braccia di dolore
come chi è pronto al varco; nelle grandi
città, nelle nevi, nel bosco, nel deserto
carovane camminano in eterno;
viaggia assieme all’anima
fredda dei gabbiani
assieme al cuore fecondo al pesce pregno
che arricchisce la rete più lontana
e la mano lentissima di Dio
venuta in volo da un nido di nebbia.

*

 

da Le mosche del meriggio (1958)

 

BRUGHIERA

 

La stagione finisce in questo suono
di eriche e di vento. Va’ amore,
o macchia della mente, rosa triste
desisti dal dominio.
Là in esilio riluce il vagabondo
frammento d’una stella, l’altra sorte
travolta in altri cieli.
(Danza ancora allo specchio
col piede smuovi la cipria
d’un raggio invernale, e piega il collo
piega il collo al solletico
d’un topo impaziente.)
La stagione è finita; ancora vivono
il dente infisso nel centro della mano,
ciò che la spina lentissima ci scrisse.
Una lampada gracile, l’allodola
rientra incerta, s’addentra sull’immoto
colore di brughiera.

 

 

PARTENZA DA GREENWICH

 

Si parte sempre da Greenwich
dallo zero segnato in ogni carta e in questo
grigio sereno colore d’Inghilterra.
Armi e bagagli, belle
speranze a prua,
sprezzando le tavole dei numeri
i calcoli che scattano scorrevoli
come toppe addolcite
da un olio armonioso, in un’esatta
prigione.
Troppe prede s’aggirano tra i fuochi
delle Isole, e navi al largo,
piene, panciute, buone
per essere abbordate dalla ciurma
sciamata ai Tropici
votata alla cattura
di sogni difficili, feroci.
Ed alghe, spume,
il fondo azzurro in cui
pesca il gabbiano del ricordo
posati accanto al grigio
disteso colore
degli occhi, del cuore, della mente,
guano australe ai semi
superstiti del mondo.
(1953)

*

 

 

da L’osso, l’anima (1964)

 

ANDIAMO

 

Aspettami. Un istante.
Appena il tempo di correre all’emporio
prima che chiuda
all’angolo di fronte.
Fuma leggi bevi
nel frattempo.
Una corda fiammiferi coltello
molti cibi in conserva
pistola con cartucce relative
coperte per i climi inospitali
cloro compresse
da sciogliere nell’acque perigliose
pillole per il cuore
una pila una bussola una mappa
bianca da colmare.
E talismani. Auguri per il cuore
per la noce del collo
l’anima la vita.
Sull’alto sgabello appollaiata
chiuse il giornale
strinse un po’ i ginocchi
che aveva divaricati
sorrise con la bocca
non con gli occhi
Ti ho aspettato disse
Andiamo.

 

 

TIMONIERE

 

Quindi andai da lui e gli dissi
Ti prego accosta a dritta
è quello l’arcipelago del cuore.
Mi guardò e sorrise,
mi diede un colpo sulla spalla,
invertì come un fulmine la rotta
e fuggimmo agli antipodi dell’isole
mettendo nelle vele molto vento.
Aveva al timone mani salde,
occhi acuti per tutto,
isole, scogli, cuori.
Comunque ero caduto in tentazione.
Era questo lo scopo delle isole.

 

*

 

da L’aria secca del fuoco (1972)

 

L’AGUGLIA

 

Nelle grandi giornate di caldo
chi ripete i colori del mare è l’aguglia
con polpa e squame congegnate
intorno ad un fuscello di smeraldo.

 

 

LA PESCA DELLE AGUGLIE

 

Protesi sugli abissi
di nottetempo mettono a soqquadro
con clamore e lampare
le acque chete
con forcine fiocine forchette
bucano il banco d’aguglie
i mille rivoli d’argento filante.
Ed i colpi più forti
dove più fitte sono le fibre notturne
a proteggere la vita
che comunque offre il fianco baluginante.

 

 

LA MIA BESTIA

 

Lerwick rovine
di crudele castello
pesci torba gabbiani pescatori
e in fondo al fiordo
di bassissima specie
rotta la ragnatela a strascico
sfuggito ad una ditta che congela
la mia bestia celeste
il gambero il granchio il cancro
mi sorride
smuove l’acqua
agitando le pinze.

 

FREDDO, PAURA

 

Sotto coperte
cataste di cuscini
testa e tutto
ho freddo
paura
dal di dentro gratto
l’ombelico a mia madre
e lei intende
sa a cosa miro
voglio dirle abbi cura
di me
non togliamo le tende
non farmi uscire.

*

 

da La discesa al trono (1975)

 

A CENTIMETRI CINQUE

 

Con uno schiocco imprevisto
imperativo
a centimetri cinque dalla testa
scrostò l’intonaco
scheggiò un mattone
schiacciato cadde
piombo impolverato
calmatosi un rombo
di sangue nella testa
restai immobile
girai lo sguardo
con la mano feci
un pallido gesto di saluto
c’erano morte e vita su quel muro
la vite americana arrancava in salita
senza aiuto
a centimetri cinque dal traguardo.

 

IL BUIO

 

In un’ora di grande luce
in una grande piazza lastricata
di pietra biancastra
il buio nasce come una fonte
una bestia un volatile una pianta
sparnazzante in silenzio
cessa allora ogni alito di vento
e puoi cadere in quei fili tesi
là in mezzo impigliarti
crollando in avanti
ad occhi spalancati verso il buio
sbattere la fronte.

*

da Marzo e le sue idi (1977)

 

LUCE

 

Come avanza la luce
a onde
a segmenti
a spezzoni
fluttuazioni
a shrapnel
a trance rotolanti
a gorghi alla van gogh
a trucioli che si srotolano
a sberle in faccia
a ditate negli occhi
colpi bassi
tutto colpito
ci vuole stomaco
fegato per la luce.

 

 

SUL PALMO DELLA MANO

 

Come un nodulo cocciuto
un girino che si dibatte
sul palmo della mano
un punto che si rifiuta
di diventare albino
mimetico nel bianco della mano
di sciogliersi nel nulla
in un bicchiere d’acqua
di vino.

 

 

MARZO E LE SUE IDI

 

Di tutto diffido
del pugnale di bruto
della tenera carne di cesare
dello stesso destino
che passi presto il tempo
vengano alfine marzo e le sue idi.

 

*

 

da L’allodola ottobrina (1979)

 

L’ALLODOLA OTTOBRINA

 

S’alzò in volo e cantò invece
l’allodola ottobrina
prima che giungesse concentrato
il piombo dodici undici dieci.

 

METAMORFOSI

 

Qui lasciata
priva di buccia
polpa al sole abbrunita
aggrinzita
essiccata
lieve essenza imprecisa
lieta polvere pronta
a un’umida vita
all’impasto al compatto
al disastro più vasto
d’una prossima forma.

 

NEL VUOTO

 

Qualcuno si perde prende il volo
qualche amante del vuoto
la catena s’allunga
oltre l’orlo d’abisso srotolata
estremità
dondola al vento e sbatte
ferro contro roccia
con un suono-richiamo a chi s’è perso
nell’aria nella nebbia nell’avido risucchio
del nome libertà.

 

*

 

da Chiromanzia d’inverno (1983)

 

MESSAGGERI

 

Inceppàti i congegni delle gambe
interrotta la corsa
non scorrono più le ossa
nei loro lùbrichi incastri
butti via il messaggio
– putrido fin dal nascere
ti corrompe le mani –
lieto libero lieve
seduto sul ciglio della strada
vedrai domani correre
strumenti d’abominio
la tua ombra che torna
chi porta ciò che deve
restare arrotolato nel viaggio.

1973

 

 

CHIROMANZIA D’INVERNO

 

L’inverno scacciò le zingare chiromanti
dal cancello dell’istituto dei tumori
chi entrava invece andava
al caldo
si spogliava
s’infilava a letto
si teneva ben stretto nell’ascella
il termometro
ingerita la pillola fidata
togliendole ridandole fiducia
mandava lontano i suo pensieri
(strade d’autunni estati primavere
d’altre ancora stagioni immaginate)
si guardava da sé
il palmo della mano.

1978

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