di Guido Mazzoni e Gianluigi Simonetti
[Oggi alle 19 a Roma, presso la libreria Tomo in via degli Etruschi 4, Andrea Cortellessa e Guido Mazzoni presentano Lo stradone (Ponte alle Grazie) di Francesco Pecoraro. Le due recensioni che seguono sono uscire rispettivamente su «Alias – il manifesto» e sul «Sole 24 ore»].
Guido Mazzoni
Francesco Pecoraro è uno scrittore inattuale – lui ricorre spesso, nei suoi libri, all’aggettivo “novecentesco” – per molte ragioni. Una delle principali è che non si comporta come un semplice narratore ma come un intellettuale complessivo. Pecoraro ha una visione del mondo e intende metterla nei suoi libri: non sono molti i romanzieri italiani di cui si possa dire la stessa cosa. Accadeva in La vita in tempo di pace (2013), uno dei romanzi italiani più importanti degli ultimi vent’anni, e accade oggi in Lo stradone – un’opera inclassificabile, centrifuga, magmatica, ma molto bella.
Nella Vita in tempo di pace il romanzo di un destino personale si ibridava di saggismo; nello Stradone l’equilibro romanzesco si sposta verso il saggio. Il personaggio che dice io è uno storico dell’arte nato negli anni quaranta del Novecento, comunista. Negli anni settanta prova a entrare all’università ma non ci riesce; negli anni ottanta, deluso da tutto, trova un impiego al ministero dei lavori pubblici. Il fallimento personale e politico lo corrompe: si iscrive al Psi per convenienza, accetta di prendere tangenti, finisce in galera. Dopo pochi anni torna libero. Negli anni dieci del XXI secolo è un pensionato disilluso che vive al settimo piano di un palazzo postbellico e rimugina.
Rimugina seguendo tre linee narrative e riflessive: la sua storia personale, la storia del luogo in cui vive e l’osservazione del presente. Valle Aurelia (“la Sacca”: Pecoraro nei suoi libri modifica i toponimi per allegorizzare la realtà) è stato uno dei più importanti insediamenti operai della “Città di Dio”, la formula che già Pasolini usava per indicare Roma. A Valle Aurelia sorgevano le fornaci che hanno prodotto i mattoni con i quali, fino al secondo dopoguerra, è stata costruita la città. Fra l’Ottocento e il primo Novecento, la vita del quartiere era modellata dal lavoro durissimo dei fornaciai, dai sindacati, dai partiti di sinistra e dalla fede nella Rivoluzione. Poi, nel secondo dopoguerra, e in particolar modo negli ultimi decenni, la Sacca si trasforma e diventa incomprensibile.
Uomo del Novecento in un mondo mutato, il personaggio dello Stradone osserva un’epoca che ai suoi occhi sembra una lunga stagione di ristagno senza uscita. Ristagno significa due cose. In primo luogo, è il segno che in questa zona del mondo il capitalismo non ce la fa più. “Il Ristagno è il contrario del Miracolo economico”, e la figura di questa regressione sono i pensionati di cui la Sacca è piena. Qui il capitalismo non produce più ricchezza, né propone un mito di progresso o un’idea di civiltà che non sia “il vivere per vivere”, il tirare a campare. Proprio per questo non sa più contenere l’ostilità che sorge automatica quando la ricchezza diminuisce e classi, culture e etnie diverse convivono non avendo nulla in comune se non “la Squadra” – la squadra di calcio che ogni tanto si epifanizza mentre attraversa il quartiere dietro i vetri oscurati di un pullman preceduto dalla scorta. Correlativo oggettivo di questo stato di cose è la mancanza di forma. Corpi, abiti, ambienti e edifici comunicano degrado o false pretese; le persone sono vestite come ci si veste dopo la “fine della cultura del decoro”; la città che per millenni è stata “maestra di sintassi urbana” nel secondo dopoguerra sembra “fatta a cazzo”. Ma per il comunista novecentesco che prende la parola nel libro, il ristagno significa soprattutto la fine dell’utopia politica che aveva dato forma alla storia moderna. “Il civis della Sacca era diversamente disperato dal borgataro successivo” perché il comunismo aggregava, dava dignità e speranza. Ma quel segmento di storia umana non esiste più, e l’unico comunismo possibile, dice il protagonista, è quello interiore. Irrealizzabile come utopia, il comunismo rimane un’idea regolativa, uno “stato interiore di costante dissenso col presente”, qualcosa di trascendentale che permette di leggere la modernità capitalistica osservandola da fuori, con lo sguardo dell’estraniato.
«Noi non siam più (…) plebe all’opra china, senza ideale in cui sperar», dice la prima strofa dell’Internazionale nella versione italiana di Bergeret: siamo il «gran Partito dei lavoratori» e lottiamo per costruire la futura umanità. Oltre un secolo dopo, Lo stradone ci mostra l’epoca in cui la storia rifà il cammino all’inverso e la classe operaia diventa piccola borghesia cinica o torna a essere plebe. Tommaso Labranca, che Pecoraro cita esplicitamente, lo chiamava «neoproletariato», quello che «sogna tre cose che cominciano per F: fitness, fashion, fiction». Per Pecoraro questa non-classe è la fascia bassa del «Grande Ripieno», il corpo sociale indistinto che sta fra i pochissimi ricchi, globali e invisibili, e i disperati che vivono nei cartoni e, come versioni ultramoderne dei cacciatori-raccoglitori paleolitici, rovistano nei cassonetti del quartiere.
Opera che contiene pagine di microstoria e di pura riflessione, il libro deve la propria forza alla capacità di osservare, mimare e decostruire il presente collocandolo in una pluralità di tempi: la cronaca, la storia politico-sociale degli ultimi due secoli, la storia di lunga durata e il tempo lunghissimo dell’evoluzione della specie. Pecoraro è un lettore di Braudel, di Darwin e di etologia, e si vede. Nei suoi libri il contemporaneo si intreccia con l’arcaico – nella descrizione dei nuovi cacciatori-raccoglitori che setacciano i cassonetti, per esempio, o nell’analisi dei riflessi carnivori che si risvegliano nel pensionato alla vista del prosciutto in macelleria, o nel modo in cui vengono narrati i microeventi che accadono nell’unica agorà del quartiere, il Bar Porcacci. Questa capacità di osservazione è innervata da uno stile che lavora sull’ampiezza del lessico, muovendosi tra gli estremi dei registri colti e del parlato neodialettale – tra “brago” o “esodomestico” e “sticazzi” o “gentirmente”. Molti citeranno Gadda, ma la questione è meno semplice di così. È anche grazie a quest’ampiezza che molte pagine dello Stradone fanno ridere. Ma alla fine il comico, così come lo smarrimento e la rabbia, convivono nel libro con una forma di pietà: pietà di sé e degli altri, della loro vita cinica e disperata, ma spersa e in ultima analisi innocente.
È significativo che per la migliore narrativa italiana contemporanea la vera città allegorica del presente sia Roma. Roma è il corrispettivo di quella parte di Europa che non ce la fa più: non ce la fa a creare ricchezza e civiltà, a amministrare la cosa pubblica, a gestire i conflitti, a pensare la città, a proporre un sistema di valori collettivi che non sia la pura sopravvivenza. Lo stradone non parla di Roma: parla di ciò che Roma, oggi, permette di capire.
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Gianluigi Simonetti
«Un libro lineare, ben scritto, con un/una protagonista in cui ci si possa identificare senza indugi, che affronti difficoltà che fanno parte dell’esperienza quotidiana, e che contenga, alla fine, un messaggio di conforto»: nei sogni dell’industria culturale di oggi il romanzo ideale dovrebbe essere fatto più o meno così, almeno secondo la formula messa a punto da Giulio Mozzi, consulente editoriale tra i più esperti in Italia, osservatore lucido dei romanzi altrui e bravo scrittore in proprio.
La formula, che ho trovato nelle pagine di un saggio di Laura Pugno – il recente In territorio selvaggio – mi è tornata in mente leggendo il nuovo, bel romanzo di Francesco Pecoraro, Lo stradone, appena pubblicato da Ponte alle Grazie. Non per analogia, ma per contrasto: Lo stradone contraddice in tutto la formula di Mozzi. Ed è interessante aggiungere che al centro dello Stradone c’è proprio un territorio, che fu, appunto, selvaggio, per diventare poi selvaggiamente sfruttato e urbanizzato; salvo riscoprirsi. in qualche suo brandello, ‘terzo paesaggio’, come dice Gilles Clément: paesaggio indeciso, non più natura e non più artificio, non abbandonato, ma nemmeno pensato a sufficienza – insomma, «uno schifo». Lo stradone, spiega Pecoraro, è «dove la città fa una pausa»; a fare una pausa, su e con lo Stradone, è quel tipo di romanzo, oggi molto diffuso, che mira a offrire sostegno e sollievo; che protegge il lettore dalla cultura (intesa come urto) attraverso la cultura (intesa come rassicurazione). Un romanzo che sempre più spesso si concentra su uno spazio sconosciuto, periferico, esotico, per valorizzarlo o riscattarlo dalla marginalità; un romanzo, impegnato, diligente, perfino ecologico; ma che di fatto inquina, perché arrende all’idea di un lettore bisognoso di valori, di una letteratura edificante e pedagogica.
Lo stradone di Pecoraro, al contrario, non ha nulla di esotico; e Lo stradone, più in generale, non ha nulla di didattico – anzi nasce sulle ceneri delle pedagogia, sociale e politica, del Novecento. «la Storia la fa sempre la tecnologia», assicura il narratore, che per prima cosa rinuncia a uno svolgimento del racconto ordinato e lineare. La traccia narrativa principale viene dal resoconto frammentario della vita di una strada, che si allarga alla ricostruzione, frammentaria anch’essa, del passato del quartiere che attraversa: è il Quadrante delle Argille, facilmente identificabile con Valle Aurelia, detta anche Valle dell’Inferno, quartiere di Roma non lontano dal Vaticano, sede storica di vaste cave di creta e di fornaci per la produzione di mattoni; quindi territorio di lavoro, con dentro un’area ristretta, detta Sacca, «che per lungo tempo fu chiamato borgata, anche se mai veramente lo fu», e la cui comunità, a metà degli anni Settanta, viene trasferita nelle nuove torri di edilizia popolare, socialiste, circondate poi da «palazze» o «palazzine democristiane», piccolo borghesi, e oggi dai nuovi centri commerciali, pensati per il grande «ripieno sociale indistinto», come Pecoraro chiama il ceto medio globale. Non si attestano peripezie memorabili, né grandi difficoltà da superare, si può ancora riflettere e conoscere ma da fare c’è ben poco, perché tutto ristagna. La cronaca della strada si concentra sul presente, costruita non tanto per eventi, quanto per situazioni tipiche, e soprattutto per ambienti (il bar detto «Porcacci», particolarmente memorabile, oppure la palestra, il sottopassaggio, eccetera); la storia del quartiere è invece detta a strati, in parte appoggiata a documenti, in parte ricostruita con slancio visionario: dai pensieri delle mente primitive che abitarono per prime le rive del Fiume di Fango (ovvero il Tevere), alla visita di Lenin, forse vera o forse no, che vuole sia avvenuta nel 1908, in omaggio a una tradizione socialista e anarchica viva in quel luogo fino a non molto tempo fa. Chi racconta, indaga e sogna queste cose è un uomo senza nome, un «comunista interiore» orfano di un PCI che ha amato e odiato; un esperto di disfatte, che all’indagine del quartiere allega sparsi brandelli di autobiografia: gli studi di urbanistica e di architettura, all’ombra di un Maestro bravo e cattivo («un figlio di puttana nell’esercizio delle sue funzioni»), il sogno abortito di scrivere, in pensione, un saggio di storia dell’arte – passando per una carriera in un Ministero in cui la corruzione, che il protagonista sperimenta più per punirsi che per diventare ricco, rappresenta il momento degradante ma vitale di una continua, progressiva resa al mondo com’è.
Le tre linee narrative s’intrecciano e spesso rimano, se il lettore ha orecchio per sentire (alla metà degli anni Ottanta si spengono le fornaci della Valle, i sociologi cominciano a studiarla, il protagonista si avvicina a Craxi). Nello Stradone il racconto è insomma coerente ma non uniforme, come non è uniforme il territorio che lo condensa e lo sussume. Allo stesso modo, variano i registri, che oscillano tra il saggistico della ricostruzione critica (con incursioni nell’urbanistica, nella microstoria, nell’antropologia) e lo schiettamente letterario; con molte sentenze memorabili («L’arte dovrebbe rendere muti, ma non succede quasi mai, nemmeno a me»), e poche ma incisive sospensioni estatiche, quando qualcosa di bello lampeggia nel languore generale. La voce del narratore connette e trae le conclusioni ma non è mai sola: la interrompono a scadenze regolari le parole della Sacca, nelle interviste ai vecchi fornaciari o nelle chiacchiere della gente del Porcacci, «abituata all’andarsene delle cose e ormai aggrappata alla verità dell’unica cosa condivisa, il linguaggio». Così, quando il rancore prende il sopravvento o l’intelligenza rischia di prendersi sul serio c’è sempre qualcuno che ammonisce a non esagerare («Cappuccino freddo macchiato? Me voi mannà in crisi?»). Inserti come questi ci ricordano che Lo stradone è scritto bene, ma non è «ben scritto», per tornare alla formula di Mozzi: nel senso cioè che non si piega alla solita lingua trasparente, senza identità letteraria e senza attriti. Pecoraro non perde mai il contatto con «lo stagno eterno greve arguto della lingua»; sa alternare i linguaggi settoriali con lo stile orale, nel discorso diretto e nell’indiretto libero; dal contrasto fra il tecnico e il vernacolare nascono molti dei passaggi più umoristici di un libro che, pur essendo disperato e ‘nero’, sa vedere di ogni cosa il lato comico (ed è in questo romanissimo, pur essendo violentemente anti-romano). Certo, questo narratore che amministra saggiamente l’amarezza e l’ironia può farci divertire, perché sa essere lucido, tagliente e spiritoso; ma resiste all’identificazione e all’empatia – troppo sincero e troppo reazionario, troppo attaccato alla verità (mentre per tutti conta solo stare bene o stare male). Anni di sconfitte politiche, errori esistenziali e sofferenza percettiva – l’autopunizione che si è inflitto andando a vivere nello Stradone – lo hanno persuaso al meno confortante dei messaggi, che contiene poi il senso finale, e direi il tema ‘profondo’ del libro: la realtà, questo «incubo torrentizio», non può essere cambiata. Questo sostiene espressamente il narratore («Il mondo non era migliorabile per via politica, l’abbiamo capito tardi, ma l’abbiamo capito. Intanto dateci la pensione»); questo dice la forma stessa del romanzo, che insiste sintatticamente sulla figura a somma zero dell’elenco, e strutturalmente sul motivo del contrasto, esacerbato da bruschi cambi di scala: dal molto grande e lontano al piccolissimo e vicino, dal tassello di universo al tassello di città, o di strada; dalla fede militante all’indifferenza più volgare, dall’utopia più fervida alla più scadente delle distopie. Qualcosa tiene insieme l’immagine con cui il libro si apre – migliaia di galassie luminose osservate al telescopio – e le microblatte protagoniste di uno degli ultimi capitoli (minuscole e lucifughe, nascoste negli anfratti della palazzata): le prime non sono raggiungibili, le seconde non si possono sconfiggere.
[Immagine: Foto di Francesco Pecoraro].
Sono uno storico del territorio urbano ovvero del quartiere Trionfale e dell’Aurelio nonchè delle fornaci descritte dal testo di Pecoraro. Ritengo che il libro, sia pure sottoforma di romanzo, descriva bene quelle realtà. Le fornaci con il loro agglomerati urbani sono state palestre di vita, fino ai primi anni ’60.
Bene ha fatto l’autore del libro ad ambientarci un romanzo. Lo Stradone, a mio avviso, altro non è che la via Olimpica (o una delle altre grandi strade ad essa collegate o limitrofe a Valle Aurelia), strada di grande percorrenza, che ha preso il posto delle fornaci, fin dall’inaugurazione delle Olimpiadi, nell’agosto del 1960.