di Lorenzo Mecozzi

 

[Il 22 maggio 2018 moriva Philip Roth].

 

Ricordo perfettamente il primo romanzo di Philip Roth che comprai. Era il giugno del 2009, avevo appena finito gli esami del primo anno di Lettere, e stavo vagando per le strade di Siena in attesa che arrivassero in auto i miei genitori per aiutarmi nel primo delle decine di traslochi che da allora in poi avrei dovuto affrontare. Mi ero iscritto a Lettere più per un equivoco, un fraintendimento, che per una vocazione reale, ed ero arrivato a Siena senza avere un’idea precisa di cosa fosse la letteratura, figuriamoci di cosa fosse la letteratura contemporanea. Un amico, qualche settimana prima, parlando di un famoso scrittore che aveva da poco pubblicato il suo ultimo romanzo, lo aveva definito, non senza ironia, una pallida versione italiana di Philip Roth, forse riferendosi alla presenza di una certa aria da erotomane in pensione. Così, entrando alla Feltrinelli, mi diressi verso la sezione narrativa, alla lettera R. Diedi una sbirciata veloce ai titoli che avevo davanti e decisi di prendere Everyman. Poi, in uno di quei raptus d’acquisto che negli anni seguenti avrebbero contribuito a riempire interi scaffali di libri non letti, presi anche Confessioni di un assassino: “il romanzo russo di Roth. Solo arrivato in piazza del Campo, qualche minuto dopo, mi sarei reso conto che quel romanzo russo era stato scritto da un Roth vissuto molto prima e dall’altra parte del mondo: Joseph. Poco male, avrei scoperto due grandi autori, invece di uno.

 

Philip Roth se ne è andato da un anno. A pensarci fa uno strano effetto: già da parecchio tempo aveva annunciato il suo addio alla scrittura ed aveva deciso di ritirarsi a vita privata nella sua casa in Connecticut, concedendo poche interviste e nessun nuovo romanzo ai suoi lettori. In qualche modo, per il resto del mondo, Roth era già morto. Ma dodici mesi fa lo scrittore è uscito di scena davvero, questa volta per sempre, e l’effetto è quello di una vertigine inaspettata.

 

Il giorno in cui è morto, è bastato un sms con il suo nome ed una faccina triste a farmi capire cosa fosse successo: uno dei più grandi scrittori americani del Novecento alla fine se ne era andato, e semplicemente non sarebbe stato più. Nessuna sorpresa: l’addio prematuro alla scrittura lo aveva avvolto di quell’alone di morte che gravita attorno alle persone malate. Quando se ne vanno, lo fanno senza clamore, come qualcosa che alla fine sarebbe dovuto accadere.

 

Fu un giorno triste, questo sì. Ricevuta la notizia mi collegai subito ad internet, quasi volessi scoprire coi miei occhi la verità, come se uno status su facebook, o uno dei tanti articoli commemorativi pubblicati da giornali che per il resto del tempo non si erano particolarmente occupati di lui, o l’ennesimo encomio di un autore che non aveva più bisogno del riconoscimento di nessuno per sapere quanto era stato grande potesse in qualche modo rendere la sua scomparsa – avvenuta a migliaia di chilometri di distanza, in un universo geografico e mentale che per certi versi non mi appartiene – più reale.

 

Il lutto è stato unanime: nessuno, neppure quelli che negli ultimi anni – giustamente – avevano iniziato a metterne in discussione gli aspetti più controversi, voleva sottrarsi alla celebrazione di uno degli scrittori più raffinati che ci sia capitato di leggere negli ultimi anni. Allo sconforto della notizia, nel mio caso si aggiungeva anche l’imbarazzo di non trovare il modo appropriato per rendere giustizia alla mia gratitudine nei suoi confronti. Nonostante all’università avessi dedicato un capitolo della mia tesi ai suoi romanzi – una tesi pensata quasi esclusivamente per poter scrivere di lui e di altri come lui – non avevo nulla da dire. Ovunque vedevo citati brani delle sue opere, chiunque sembrava aver pronto sul comodino uno stralcio di Portnoy, di Pastorale americana, di Operazione Shylock pronto all’uso. Da parte mia, niente. Eppure, se c’è un autore di cui ho saputo apprezzare l’indiscutibile necessità, quello era Philip Roth. Nonostante non mi venisse in mente nessuna frase adeguata da nessuno dei suoi romanzi, avrei potuto benissimo dire il momento preciso in cui avevo letto ognuno dei suoi capolavori. La mattina in Piazza del Campo in cui avevo iniziato Everyman, il pomeriggio di fine agosto in cui avevo finito di leggere La macchia umana, il viaggio in autobus leggendo Pastorale americana, Portnoy letto in erasmus a Parigi, le settimane concitate in cui lessi il ciclo di Zuckerman, e Patrimonio e I fatti, e il ciclo di Kepesh. Lo sconforto era totale. Narcisistico, ma totale.

 

Leggendo le frasi che vedevo citate da amici e scrittori, poi, al senso di inadeguatezza si sommava anche la strana impressione che quelle frasi non mi convincessero più. Non solo non avevo niente da dire su uno dei miei scrittori preferiti, tra i due o tre più letti; non mi piacevano neanche i brani che avevo davanti. Pensandoci bene, però, era giusto così.

 

Roth non è mai stato uno di quegli scrittori che si prestano davvero ad essere citati, non fuori contesto. Non perché ogni frase che ha scritto non sia all’altezza della citazione, tutt’altro. Più semplicemente, le sue sono frasi complesse, che spesso abbondano di subordinate, scritte in un inglese ricercato, in cui il senso è corteggiato ed inseguito per tutto il tempo necessario ad irretirlo. Sono frasi raramente cariche di quell’energia che esplode col punto finale trasmettendo il senso di un mistero racchiuso in poche parole. Roth non è mai stato un velocista della scrittura, se non in rarissimi casi. Era chiaro senza cedere alla sciatteria; al fondo della sua opera c’era la ricerca di comunicazione, il bisogno di trasmettere quel desiderio di comprensione che dava vita alle sue storie, senza che questo significasse un appiattimento dell’intelligenza. Roth era un romanziere che nella scrittura intesseva e intrecciava legami, riuscendo nel compito quasi impossibile di racchiudere il mondo intero in poco più di un paragrafo. Per questo spesso poteva risultare pesante, ingombrante, carico. È il contrappasso della solidità del suo sguardo, che con un colpo d’occhio – ed una frase lunga, complessa – riusciva a mostrare le forze nascoste che modellano la realtà. Quelle forze invisibili che rendono la nostra vita ciò che è, che le fanno assumere la forma che ha, invece di permetterle di essere qualcos’altro. Tutto questo avveniva nello spazio di una piccola immagine. Pastorale americana, ad esempio, comincia così:

 

Lo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark, anche per gli adulti della generazione successiva a quella del vecchio ghetto cittadino di Prince Street che non erano ancora così perfettamente americanizzati da restare a bocca aperta davanti alla bravura di un atleta del liceo.

 

 

In una frase Roth offre una visione precisa di almeno tre o quattro generazioni di ebrei americani. E lo fa narrando! Senza spiegare, senza sociologismi, senza saggismo inopportuno. Semplicemente, Roth era in grado, come i grandi scrittori dell’Ottocento, di comprendere come la Storia con la s maiuscola, lungi dall’essere soltanto lo sfondo dell’esistenza buono per diventare materia d’esame o essere studiato da uomini noiosi vestiti di tweed e privi d’immaginazione, si materializzi nel quotidiano, prendendo forma in passioni, abitudini, desideri e contraddizioni individuali. (I suoi personaggi diventano quasi dei tipi lukacsiani, come ha scritto una volta Romano Luperini.) Ci sono gli adulti, che impazziscono per il baseball; i loro padri, troppo ancorati alle tradizioni europee per apprezzare lo sport americano per eccellenza; le generazioni dei figli (quella di Zuckerman e quella dello Svedese), che sono americani per nascita e per costituzione: quattro generazioni che, a seconda del grado di americanizzazione raggiunto, restano diversamente ammaliate da quel miracolo di forza fisica ed intelligenza motoria che rispondeva al nome di Seymour Irving Levov. Lo Svedese.

 

Alla contrapposizione fra showing e tell, Roth ha sempre risposto mostrando: mostrando gli effetti, le forme, i segni di ciò che gente più accademicamente pronta di lui avrebbe spiegato in decine di pagine di minuziosissime analisi. Roth riusciva a mostrare in poche righe, invece, quanto padri e figli possano vivere vite differenti semplicemente per via del diverso grado di sorpresa, d’amore, di attesa che si provano di fronte alle imprese sportive di un liceale nell’america degli anni Quaranta. Pochi scrittori hanno saputo convertire l’energia che ha attraversato il Novecento, le sue tumultuose trasformazioni, la sua carica allo stesso tempo vitale e mortifera, in frasi tanto forbite e aggraziate, ma forti e robuste allo stesso tempo. In questo, Roth è stato un maestro insuperabile. La sua, come quella di Coleman Silk e di suo padre, era “la lingua di Chaucer, Shakespeare e Dickens”, “quella lingua inglese che nessuno avrebbe mai potuto togliergli” e che Roth “usava rotondamente, sempre con grande pienezza, chiarezza e vigore, come se anche nelle conversazioni più banali recitasse l’orazione di Marco Antonio sul corpo di Cesare” (La macchia umana).

 

Era uno scrittore intriso di tradizione, capace di credere ancora che la letteratura fosse lo strumento migliore – perché più completo, più articolato e complesso – per comprendere il mondo. Uno scrittore in grado di inserire anche nei romanzi più tradizionali piccoli bagliori di sperimentalismo, come quando in Pastorale americana o nella Macchia umana Zuckerman finge di raccontare una storia di cui conosce tutti i particolari, finché il lettore non è messo di fronte alla scoperta che si tratta soltanto di un’invenzione. Come ha scritto Francesco Pacifico, “dietro gli ironici tocchi metanarrativi di Roth trovo un tatto particolare e una fiducia assoluta nella fiction: marcare la finzione del romanzo con una finzione interna al romanzo ci aiuta a rispettare la vera biografia” dei personaggi di cui leggiamo. La letteratura come momento empatico, unico strumento possibile per conoscere noi stessi, ma soprattutto ciò che non siamo.

 

Roth non è stato soltanto uno scrittore di cui era impossibile non ammirare lo stile, ma anche un autore di un’intelligenza talmente evidente da risultare quasi ingombrante. Roth era uno di quegli scrittori che, molto semplicemente, comprendono il mondo ad un livello più profondo di quanto non facciano gli altri, in grado di mostrare a chi lo leggeva un fondo di verità che i lettori potevano aver afferrato solo marginalmente, o non erano stati in grado di verbalizzare con la profondità e la penetrazione che gli erano propri, cogliendone a malapena le tinte principali, lontani da quei chiaroscuri che erano davvero il segno inconfondibile della scrittura di Roth.

 

Si dice spesso che fosse uno scrittore egocentrico: un egomaniaco. David Foster Wallace in Considera l’aragosta lo annovera tra “i grandi narcisisti che hanno dominato la narrativa americana del dopoguerra”. E lo si dice a ragione. Ma Roth è stato anche uno scrittore estremamente generoso, che non si è mai risparmiato.

 

In pochissimi hanno corso il rischio, come ha fatto lui, di attraversare tutte le correnti e gli stili del loro tempo, rischiando di perdersi, di smarrirsi tra gli sperimentalismi ed i ritorni al reale. Lui si è fatto strada tra la logorrea di Portnoy, l’autobiografismo del ciclo di Zuckerman (Lo scrittore fantasma, Zuckerman scatenato, etc.), gli estremismi autofinzionali degli anni ‘80 della Controvita, I fatti, Operazione Shylock – quando in molti nemmeno sapevano cosa fosse, un’autofiction –, fino al ritorno alle grandi campiture realistiche degli anni Novanta (Pastorale americana, La macchia umana), che non gli hanno impedito di intrufolarsi nei territori dell’ucronia (Il complotto contro l’America), e agli ultimi romanzi più asciutti ed essenziali (Indignazione, Nemesi, o il ciclo di Kepesch).

 

Roth ha letteralmente attraversato mezzo secolo di Storia e di letteratura, cercando sempre con la forma della seconda di rendere ragione degli stravolgimenti della prima, creando ogni volta personaggi a misura delle vicende da raccontare.

 

E se è vero che al fondo della sua scrittura c’erano la forza e l’energia di un uomo che desiderava più di ogni altra cosa esplorare il mondo in lungo e in largo senza che nulla e nessuno potesse impedirglielo, ciò non toglie che fosse anche uno scrittore in grado di dar voce all’altro da sé. Se quello di Portnoy è un monologo inconcludente di un narcisista incallito, con il passare degli anni Roth è stato sempre più in grado di farsi da parte, e nei suoi romanzi più tradizionali, quelli scritti dagli anni Novanta in poi, è riuscito a costruire polifonie magistrali in cui al più canonico affresco del mondo facevano da contraltare pagine e pagine di discorsi indiretti liberi che permettevano, a chiunque avesse qualcosa da dire, di far sentire la propria voce, fosse anche per lo spazio di poche righe. Anche quando Zuckerman narra – ed inventa – le vicende che ci presenta come realmente accadute, i singoli personaggi mantengono la propria singolarità, la propria irriducibilità alla voce e al potere del narratore. La macchia umana, ad esempio, deve il titolo alla visione del mondo di Faunia, l’amante apparentemente analfabeta di Coleman Silk, la cui convinzione profonda dell’irrimediabile corruzione del mondo rappresenta la più lucida analisi della sua storia, così come di quella del protagonista.

 

A proposito dei suoi personaggi, anche di loro si dice che siano (fossero?) dei narcisisti, ossessionati da sé, come l’autore che li aveva inventati. Ed è vero. Enrico Testa in Eroi e figuranti dice di Coleman Silk che è un personaggio ‘assoluto’, la cui “intera vita è innervata dalla relazione antagonistica tra l’io e il noi” dal momento che “ciò a cui aspira è l’affermazione dela ‘singolarità’ e ogni suo gesto si configura come una ‘lotta appassionata’ per raggiungerla”. Lo stesso si può dire di tutti gli altri personaggi di Roth, sempre alla ricerca di un posto del mondo che sia solo il loro, sempre in guerra con l’ambiente che li circonda, che li comprime e che vorrebbe scolpirli ad immagine e somiglianza dell’uomo qualunque. Loro, invece, con l’eroismo dell’epica, cercano sempre di liberarsi delle catene della famiglia, del senso comune, dell’opinione corrente. Portnoy, Zuckerman, Kepesh, Silk, lo stesso Roth-personaggio: sono uomini (sempre uomini, è vero, ma lo stesso vale per certi personaggi femminili) il cui desiderio di autonomia e libertà spesso condanna alla solitudine o all’isolamento. Eppure, nessuno meglio di Roth ha saputo tracciare le geometrie di quei fili che i suoi personaggi avrebbero voluto recidere. Accanto ad ognuno di loro, personaggi assoluti, si aggirano comprimari non meno importanti: padri, madri, fratelli; amici, mogli, amanti; confessori, avversari, nemesi. Nessuno dei personaggi assoluti di Roth sarebbe potuto diventare ciò che è diventato senza l’amicizia o l’amore, senza l’invidia o il rancore, senza l’incontro o lo scontro con i personaggi che lo circondano.

 

Tra questi, sicuramente un ruolo fondamentale ce l’hanno i padri. C’è una bellissima scena, in Portnoy, una di quelle scene che spiegano meglio di tante parole le ragioni per cui in Roth, più che la singola frase, siano il contesto, l’ambiente, la pagina, ad essere fondamentali.

 

Siamo nel grande campo sterrato sul retro della mia scuola. Lui poggia il registro in terra, e s’avvicina al piatto di base con indosso il suo cappotto e il suo cappello floscio. Porta gli occhiali squadrati con la montatura d’acciaio, e i suoi capelli (che adesso porto io) sono come un cespuglio selvatico, del colore e della consistenza della lana d’alluminio; e quei denti, che per tutta la notte se ne rimangono in un bicchiere nella stanza da bagno a sorridere alla tazza del gabinetto, ora sorridono a me, il suo adorato, la sua carne e il suo sangue, il bambinetto sulla cui testa non scenderà mai la pioggia. “Okay, Signor Campione di Baseball,” mi dice, e afferra la mia nuova mazza regolamentare più o meno verso il centro – e con mia grande sorpresa, al posto in cui dovrebbe esserci la mano destra c’è la mano sinistra. E tutto a un tratto vengo invaso da una tale tristezza! glielo vorrei dire. Ehi, hai sbagliato mano, ma non ci riesco, per paura di mettermi a piangere – o che lo faccia lui! “Su coraggio, Campionissimo, tira la palla,” mi grida, e così io la tiro – e naturalmente scopro che oltre a tutte le altre cose che sto appena cominciando a sospettare in mio padre, non è nemmeno Charlie Keller “King Kong”.

 

È una scena di una malinconia lancinante, ed è quasi impossibile leggerla senza sentire il dolore che il giovane Alex deve aver provato davanti all’inadeguatezza del padre. Non sono tanto il cappotto e il cappello floscio, né i denti sorridenti che durante la notte “se ne rimangono in un bicchiere nella stanza da bagno”, quanto quelle mani che impugnano la mazza da baseball nel modo sbagliato a segnare una separazione che neanche la comunione genetica – “i suoi capelli (che adesso porto io)” – potrà mai colmare, e a rendere straziante una scena tanto banale.

 

Se c’è una cosa che ha reso unico Roth, è stata la capacità con la quale ha saputo descrivere un’esperienza fondamentale che tantissimi – uomini e donne, ma, ancora, soprattutto uomini – hanno fatto negli ultimi cinquant’anni. Si tratta dell’esperienza di essere, al confronto coi genitori e per il semplice fatto di essere nati, dei privilegiati; di poter fare di più e meglio di quanto non abbiano fatto i padri e le madri; di aver avuto accesso ad un mondo di infinite possibilità inaccessibili alla generazione che c’era prima, possibilità che invece di essere state sudate e guadagnate sono state rese concrete da altri.

 

Lo Svedese, Coleman Silk, Alexander Portnoy non sono soltanto figli dei propri padri, ne sono spesso anche i carnefici, loro malgrado, semplicemente perché nati in un mondo che ha offerto loro dieci volte tanto quello che i padri avevano dovuto guadagnare lavorando una vita. È un’esperienza che acquisisce i contorni della vertigine metafisica: uomini e donne nati e cresciuti in un mondo che apparentemente non vuole far altro che ammansirli, normarli, e renderli innocui, scalpitano, combattono, e diventano gli eroi letterari che devono essere per sopravvivere, per poi scoprire, alla fine, che tutta la loro lotta terminerà in una farsa. O in una tragedia.

 

Uno dei temi che lega tutto quello che Roth ha scritto è la ricerca e la formazione di un’identità individuale. La lotta continua tra contesto ed aspirazione all’assolutezza dei personaggi di Roth altro non è che la contrattazione tra la tradizione dei padri, e l’identità nuova dei figli: “la ricerca dell’autodeterminazione assoluta – prosegue Enrico Testa – transita per la cancellazione del ‘culto degli antenati’” nella convinzione di “non avere limiti con cui misurarsi”, di poter controllare fino al più piccolo dettaglio la propria esistenza.

 

Ebreo e americano, Roth per tutta la sua vita ha cercato di misurare la distanza che separa le due identità, senza per questo dimenticarsi mai di quella copula che le lega, quasi la lotta per l’identità fosse la sublimazione di un rapporto sessuale. Nato e cresciuto negli anni in cui l’Occidente cambiava volto radicalmente, Roth ha sempre dovuto negoziare il proprio posto nel mondo, e con il suo quello dei suoi personaggi. Per quanto possa sembrare assurdo parlare in questi termini di in un maschio bianco nell’America degli anni ‘50, basta leggere uno qualsiasi dei suoi romanzi per comprendere quanta fatica per vivere si nasconda dietro a quegli agglomerati di esperienze contraddittorie che sono i suoi personaggi.

 

Innanzitutto perché negli anni ‘50, Roth, figlio di immigrati ebrei di seconda generazione, bianco non lo era davvero. Ha vissuto, come gli altri figli di immigrati della sua generazione, il processo di americanizzazione sulla propria pelle, soprattutto attraverso lo sport: il baseball, sport americano per antonomasia, sport del tempo dilatato e delle infinite giornate d’estate, si scontrava drammaticamente con lo stoicismo e con l’etica del lavoro dei padri, con quell’eroismo minore di chi doveva conquistarsi il proprio posto nel mondo lavorando il doppio degli altri ed aspettandosi di guadagnare meno della metà. Viveva sulla sua pelle, come tutti gli ebrei della sua generazione ma anche di quelle a seguire, una separazione dal resto dell’America WASP. Allo stesso tempo, però, Roth ebreo non lo è mai stato abbastanza, e si guadagnò molto presto, sin dai primi racconti, la condanna di “self-hatred”, di ebreo che rinnegava le proprie origini.

 

Come lui, anche i suoi personaggi sentivano le proprie origini come un destino che non avevano scelto, e non riuscivano a sentirsi davvero accolti nella realtà degli altri, i goym che segretamente li disprezzavano. In tutti i romanzi, c’è sempre un quanto di dolore inestinguibile, nel tentativo dei personaggi di farsi spazio nel mondo: un dolore dovuto alla scoperta e alla consapevolezza che la propria libertà sarebbe dovuta essere conquistata al prezzo di quella degli altri.

 

In Roth, la questione dell’identità oscilla sempre tra due poli: da una parte la convinzione profonda, la fede, che l’identità non sia una condizione immutabile ma anzi una missione, un progetto di sé, un disegno personalissimo che deve emergere dallo sfondo ad ogni costo; dall’altra, la consapevolezza, realista, dell’impossibilità di agire nel mondo senza produrre dolore, senza lasciare una traccia sulla vita degli altri, senza segnare irreparabilmente l’esistenza altrui o senza esserne segnati. Per questo motivo, spesso, i romanzi di Roth assumono le forme, se non i toni, della tragedia: al tentativo dei personaggi di essere, solo e semplicemente, ciò che vogliono essere, si contrappongono l’eredità familiare, le costrizioni ambientali, il desiderio degli altri uomini e donne che li circondano.

 

– E’ quello che succede quando crescono in cattività, – disse Faunia. – Ha passato tutta la vita con gente come noi, e questo è il risultato. La macchia umana, – disse, ma senza ripugnanza, né disprezzo, né disapprovazione. E senza tristezza. È così. Questo è tutto ciò che Faunia, nel suo tono freddo e distaccato, stava dicendo alla ragazza che nutriva il serpente: noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui. Nulla a che fare con la disobbedienza. Nulla a che fare con la grazia o la salvezza o la redenzione. E’ in ognuno di noi. Insita. Inerente. Qualificante. La macchia che esiste prima del suo segno. Che esiste senza il segno. La macchia così intrinseca che non richiede un segno. La macchia che precede la disobbedienza, che comprende la disobbedienza e frustra ogni spiegazione e ogni comprensione. Ecco perché ogni purificazione è uno scherzo. Uno scherzo crudele, se è per questo. La fantasia della purezza è terrificante. E’ folle. Cos’è questa brama di purificazione, se non l’aggiunta di nuove impurità? Della macchia Faunia diceva soltanto che era inevitabile. Questo, ovviamente, era il suo punto di vista: siamo creature irrimediabilmente macchiate. Rassegnata all’orribile, elementare imperfezione. Faunia è come i greci, i greci di Coleman. Come i loro dèi. Sono meschini. Litigano. Attaccano briga. Odiano. Assassinano. Fottono. […] Il greco Zeus, invece: immerso nelle avventure, vividamente espressivo, capriccioso, sensuale, attaccato con esuberanza alla propria sontuosa esistenza, tutt’altro che solo e tutt’altro che nascosto. Invece, la macchia divina. […] Un dio debosciato. Un dio corrotto. Un dio della vita se mai ce ne fu uno. Dio fatto a immagine dell’uomo.

 

I personaggi di Roth sono spesso animali cresciuti in cattività, ma animali che ben presto si rendono conto che non c’è nessuna gabbia ad intrappolarli, e allora prendono la strada del mondo per liberare definitivamente il desiderio che li muove.

 

È il desiderio, oltre l’identità, il vero motore della narrativa di Roth. Pochi scrittori, al pari di Roth, sono riusciti attraverso dello stupido inchiostro su carta – la più virtuale di tutte le forme artistiche – ad essere altrettanto sensuali, a riuscire a trasmettere il senso, e la sensazione, di una carezza, della pelle che si restringe al contatto con il corpo dell’altro, del desiderio che monta e che sale alla vista di un uomo o una donna così fortemente voluti, del senso di comunione e di libertà tipici dell’amplesso, della forsennata ricerca dell’orgasmo e del climax, dell’aura magica di passione ed erotismo che circonda l’oggetto del desiderio.

 

I personaggi di Roth sono vere e proprie macchine desideranti, apparentemente prive di freni. A muoverli è una forza vitale inarrestabile, priva di forma, che non conosce limiti e barriere.

 

L’identità, di conseguenza, diviene una delle possibilità attraverso cui dare a questa energia un obiettivo, una destinazione, un senso. Ed è tra queste due forze, quella acefala del desiderio, e quella più razionale, composita, civilizzata del tentativo di non disperdere tutta l’energia in una corsa senza fine, che prendono forma le storie. Le traiettorie individuali subiscono la torsione delle forze del mondo, i campi magnetici dei personaggi attraggono e respingono i destini dei singoli, li modificano, li deformano, li trasformano irreparabilmente; i personaggi di Roth domandano vita e regalano vita con cui fare i conti. La macchia umana, la traccia che ogni individuo lascia dietro di sé, altro non è che l’inevitabile lascito della vita, della sua imperfezione, del suo essere un flusso inarrestabile che non può trovare pace in una forma cristallizzata. Ad attendere tutti i personaggi rothiani, quando il finale non arriva a troncare di netto la storia, c’è spesso la morte, o il silenzio, perché nient’altro potrebbe esaurire la carica erotica di cui sono investiti sin dall’inizio. Ma se alla fine c’è la morte, prima, espressiva, capricciosa, sensuale, esuberante, arrogante, sontuosa, divina, generosa, c’è la vita.

4 thoughts on “Lo scrittore è uscito di scena

  1. ” Ricordo perfettamente il primo romanzo di Philip Roth che comprai. Era il giugno del 2009, avevo appena finito gli esami del primo anno di Lettere, e stavo vagando per le strade di Siena in attesa che arrivassero in auto i miei genitori per aiutarmi nel primo delle decine di traslochi che da allora in poi avrei dovuto affrontare. Mi ero iscritto a Lettere più per un equivoco, un fraintendimento, che per una vocazione reale, ed ero arrivato a Siena senza avere un’idea precisa di cosa fosse la letteratura, figuriamoci di cosa fosse la letteratura contemporanea. “, dice, su LPLC, Lorenzo Mecozzi. Confesso che quando l’ho letto mi è venuto il sospetto che del reddito di cittadinanza faccia parte anche il diritto a risiedere a Siena. Perché a Siena ci stanno, o ci sono stati tutti, tutti meno io. È buffo, ma più che buffo è spaventoso. Perché delle due l’una: o sono matti tutti o sono matto io – naturalmente io propendo per la seconda ipotesi, anche se continuo a pensare che l’essere andati tutti a stare a Siena è come minimo un po’ strano. (” Un amico, qualche settimana prima, parlando di un famoso scrittore che aveva da poco pubblicato il suo ultimo romanzo, lo aveva definito, non senza ironia, una pallida versione italiana di Philip Roth, forse riferendosi alla presenza di una certa aria da erotomane in pensione. Così, entrando alla Feltrinelli, mi diressi verso la sezione narrativa, alla lettera R. Diedi una sbirciata veloce ai titoli che avevo davanti e decisi di prendere Everyman. Poi, in uno di quei raptus d’acquisto che negli anni seguenti avrebbero contribuito a riempire interi scaffali di libri non letti, presi anche Confessioni di un assassino: « il romanzo russo di Roth ». Solo arrivato in piazza del Campo, qualche minuto dopo, mi sarei reso conto che quel romanzo russo era stato scritto da un Roth vissuto molto prima e dall’altra parte del mondo: Joseph. Poco male, avrei scoperto due grandi autori, invece di uno. ” (Ibid.) Il dottor Mecozzi scrive anche delle cose divertenti… E comunque lo strano, più che Siena, è l’università di Siena. Per non parlare della libreria Feltrinelli… ) (Intendiamoci, il raptus d’acquisto può capitare a tutti: “ Mercoledì 30 settembre 1998 – […] [H]o letto questa frase, che mi ha stupito: « Ma certo – come scrisse Georges Perros – “ un journal intime gai est inimmaginable. Quand l’homme se penche sur lui même, il n’attrape que des poissons de désastres “. », e lo stupore veniva dal fatto che questo Perros lo conosco, e esattamente dal giorno in cui, saranno quindici anni, entrai ancora una volta nella Librairie La Procure, a San Luigi dei Francesi – allora compravo ancora libri e qualche volta anche nuovi – in cerca di qualcosa di Perec (Georges) e, poiché ero un poco confuso, comprai un libro di Perros (Georges), che comunque non ho mai letto. Comunque, nell’occasione, scopro che Perros ha dato dello scrivere una definizione che mi diverte parecchio: « Écrire, c’est renoncer au monde en implorant le monde de ne pas renoncer à nous ») “) (Molto saporite, va detto, anche le cose che l’autore scrive poi su Roth. Ma Roth è morto, e anche io non mi sento tanto bene… )

  2. “- E come sai che io soffro di desiderio?
    – Mi permetto di indovinarlo.
    – E di cosa ho desiderio?
    – Questa è una cosa – disse l’eunuco – su cui dovrei riflettere alquanto – e si atteggiò come se riflettesse, poi disse:
    – Signore, il vostro desiderio è rivolto a paesi esotici: i paesi d’Europa, per esempio.
    – Un lungo viaggio?
    – Un breve viaggio, Signore! I viaggi brevi sono più piacevoli di quelli lunghi. I viaggi lunghi fanno male.
    – E in quale direzione?
    – Signore – disse l’eunuco – ci sono in Europa paesi di ogni genere. Tutto dipende da cosa si cerca in questi paesi.
    – E cosa pensi che dovrei cercarvi, Patominos?
    – Signore – disse l’eunuco – un miserabile quale io sono non sa che cosa potrebbe cercare un grande sovrano.
    – Pantominos – disse lo Scià – tu sai che da settimane non ho più toccato una donna.
    – Lo so, Signore – rispose Patominos.
    – E tu pensi, Patominos, che questo sia sano?
    – Signore – disse l’eunuco, drizzandosi un poco dalla sua posizione di inchino – devo dire che gli uomini della mia particolare condizione non s’intendono molto di queste cose.”

    Joseph Roth, La milleduesima notte, Adelphi, Milano, 1977, p 10.

  3. “- Cosa hai fatto là? in quel… in quel… Ach! non riesco a dirlo… Con la polizia?
    – Mi hanno fatto sedere. Per prima, per prima cosa mi hanno fatto andare al gabinetto. Dopo il poliziotto grosso mi ha dato una mela. E dopo un dolce.
    – Che bello il dolce! – La mamma gli sorrideva – Un dolce americano. Potrei prepararli io. Adesso sai dirmi dove ci troviamo?
    Si guardò attorno, nella strada al crepuscolo.
    -Abbiamo passato tante case – azzardò.
    – Va bene, ma la strada? La prossima?
    Scosse la testa. Nella spessa oscurità la strada davanti gli sembrava del tutto ignota, come nessuno vi fosse mai passato.
    – Questa è Boddeh Street – lo informò la mamma – da quella parte c’è la tua scuola, non lontano. Ma è troppo buio per vederla. Ancora due, tre case da questa parte – indicando a sinistra – è lì che abitiamo.
    – Da questa parte, mamma? – era incredulo – Da questa parte – e faceva segno a destra – Da questa parte c’è la mia scuola!
    – È perché ti eri perso. Dall’altra parte.
    – Ooooh!- restò interdetto da un altro meraviglioso accadimento – È messa al contrario.
    – Cosa? – il tono era divertito – La strada?
    – Adesso, si! La scuola! La scuola adesso è dall’altra parte!
    – Proprio così. Sono messe al contrario le strade. Ma tu, tu no”.

    Henry Roth, Call it Sleep, Farrar Straus & Giroux, New York, 1991. p. 106

  4. ” Giovedì 11 luglio 2002 – « Scusate, non so se a voi è capitato, ma ho comprato oggi il libro di Fitzgerald e quando sono arrivato in ufficio e l’ho aperto ho trovato la sorpresa… La copertina del libro è quella giusta, ma il libro non è il Grande Gatsby ma La Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth. Chiaramente un errore… torno in edicola e tutti i libri che aveva l’edicolante presentavano lo stesso errore, cioè copertina del Grande Gatsby e libro di Roth. È un errore che è successo ad altri oppure sono alcuni casi isolati? La Repubblica cambierà i libri errati con quelli giusti? Mi sembra di essere nel racconto del libro di Italo Calvino che era uscito qualche mese fa… » (Dal forum su Il grande Gatsby) “.

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