[È uscita in questi giorni per Crocetti la nuova edizione di Poesia e destino di Milo De Angelis, pubblicata nel 1982 e mai più ristampata sino ad ora. Ne riportiamo un saggio estratto dalla prima sezione del libro]

 

APPARIZIONI

 

I.

 

Innumerevoli personaggi incarnano l’apparire e lo scomparire: dal folletto alla ninfa, dalle ragazze ovidiane alla tradizione zingaresca, dalla Christabel di Coleridge alla Margherita di Bulgakov. Ma non tutti entrano nel titolo perché qui «apparizione» e «scomparsa» non vogliono riferirsi alla dimensione del barlume che si dissolve nei barlumi successivi; e tantomeno vogliono riferirsi a quell’altra dimensione patetico-cinematografica del breve incontro, dove l’apparizione assume fin dall’inizio l’addio come possibile, facendone l’equivalente dei fiori «che avrei potuto cogliere», dell’amore come condizionale passato, ossia del melodramma. Il riferimento non è solo a Gozzano. C’è tutta una linea della moderna letteratura italiana — da Aleardi a Giacosa a De Libero a Quasimodo — in cui lo scomparire, defraudato di ogni secchezza, porta con sé quegli aloni del dormiveglia (e tra l’altro non è detto — abituati come siamo a pensare il patetico in Gorki, in Brecht e in tutta un’area filantropica — che questo patetico della scomparsa sia legato soltanto al realismo: se rileggiamo per esempio Machado, Diego, o anche altri spagnoli più recenti con tensioni visionarie…).

 

«Apparizione» e «scomparsa» hanno esempi più alti. Da una parte quella linea fiabesca che collega Basile (il grande Basile de La cerva fatata, de La ragazza schiava, di Rosella) all’Andersen non meno grande de La regina della neve. Dall’altra il mondo apuleiano e ovidiano della metamorfosi, di quel trascolorare primaverile delle forme, dove al rimpianto si sostituisce la nascente, ventilata accettazione animale della muta. Ed è un mondo che ritorna nel Rinascimento italiano e spagnolo, con altre tonalità ma con lo stesso susseguirsi fatato delle rinascite senza stimmate: un anello rende invisibili Ruggero e Bradamante e consente il proseguire dell’avventura, un liquore sottile rinchiuso nelle ampolle stupisce Astolfo e lo sospinge nel 35° canto: lui che aveva visto il senno degli uomini perduto sulla terra con gli occhi di un bambino, lo riporta segretamente a quei bambini. Esiste poi un’apparizione – quasi sempre femminile – legata alla selvatichezza. Selvatichezza artemidea, lontana da ogni intenerimento. Ma anche lontana dalla figura dell’amazzone e dall’eroismo frontale di Polissena o di Antigone. C’è qui una posizione differente, benché anch’essa contrapposta alla donna-matrona, alla donna affascinante e alle varie Madame Bovary. Forse, più che contrapposta, è semplicemente ignara di queste figure muliebri. Si limita a offrire il guizzo delle proprie apparizioni senza adirarsi con chi ha ceduto al fascino: ragazza-maga, ragazza-capra, ragazza-totem, ragazza-canto, queste creature vivono una fede orgogliosamente estranea ai corteggiamenti dei loro esegeti, ma non impugnata come prova di vittoria. Penso in particolare ad alcuni racconti: Il peso falso di Roth, La pietra lunare di Landolfi, La donna che fuggì a cavallo di Lawrence e Echi della Blixen (ritenendoli tra l’altro le cose più belle scritte da questi autori). Nel racconto di Lawrence, avvenuto lo stacco, la ragazza-totem non ha più una sola parola d’accusa contro il marito e si avvia verso la morte senza nessuna vicenda alle spalle, senza la minima possibilità che un ripensamento germogli sul ricordo di un’esistenza già firmata. «Capì che era morta»: ecco la frase che tambureggia la sua immolazione. E proprio perché la morte è già accaduta, tutto viene visto con pupilla finissima, mai offuscata dai vapori dell’apprensione e mai ingigantita dal protagonismo. Così, nella Blixen, Pellegrina Leoni «in certe ore appariva curva, avvizzita, infinitamente saggia come una vecchia nonna, e in altre aveva il volto di una fanciulla di diciassette anni»: la gloria di un tempo è stata troppo immensa perché ora una voce si fermi a ribadirla, nemmeno la voce diciassettenne che rinasce grande come quella di allora: grande fino a diventare puro insegnamento impersonale, essenza di Santa Cecilia. «Non vedi — disse Pellegrina — che questa non è una bambola come le altre? È santa Cecilia, la patrona della musica, con una corona celeste in capo».

 

Come potrà allora Pellegrina Leoni replicare a chi l’accusa di essere una strega? Solo un attimo silenzioso di sdegno; poi il tuffo definitivo nella santità che non smentisce più nessuna calunnia. E come può, ugualmente, umiliarsi a una spiegazione la zingara Eufemia, dai capelli nerissimi? Nella ballata di Roth, Eufemia Nikič, quando incontra una creatura che la immeschinisce, sale nella sua stanza e piange. Piange alcune delle lacrime meno sentimentali che possano esistere, gli stessi secchi rintocchi della ragazza-capra, non appena vede che un destino solitario la allontana dai suoi amanti. Vorrei aggiungere l’apparizione, lungo i confini del suicidio, della Tullia di Bontempelli (Vita e Morte di Adria e suoi figli) e quella di Zossia nell’omonimo racconto di Bogomolov (Carosello di narratori sovietici, Martello ed., 1967, Milano).

 

E infine: qualcosa di Eufemia Nikič ricorda una bella pagina di Lérmontov — una delle poche di un romanzo che non mi ha interessato — quando «l’eroe del nostro tempo» si trova da solo, di notte, in una barca, di fronte a una zingara che vuole ucciderlo e che all’improvviso gli mostra, fisicamente, tutta l’estraneità dei loro mondi (Lérmontov, Un eroe del nostro tempo, U.T.E.T., pag. 99-100).

 

Un terzo risvolto dell’apparizione: quello in cui tra apparizione e scomparsa si inserisce un patto, una solenne promessa, nel senso cavalleresco della parola. Abbiamo qui – narra la leggenda inglese – due cavalieri, il Re Federico e il nobile Onéir, i quali combattono per un’unica causa. Ma giunge il momento in cui Onéir deve recarsi a combattere nelle estreme terre orientali, mentre Federico deve rimanere in Gran Bretagna. Vivono così in due terre diverse, separate da migliaia di chilometri, ma c’è un patto che li unisce: il patto della loro amicizia, il patto di impugnare le armi in vista dello stesso trionfo e dello stesso onore. Ed essi si incontrano a distanza negli alti e bassi di questo onore da difendere: quando l’onore è vittorioso, prende immediatamente agli occhi di Federico il nome di Onéir (assonanza con honour) e si incarna nella sua immagine; quando l’onore viene sconfitto, anche Onéir si dissolve. Ecco dunque l’onore farsi corpo, patto, apparizione: e non ha certo bisogno del corpo «reale» per confermare la fedeltà che lega Onéir a Federico. Scompare ogni contrasto tra sparizione e fedeltà. Non solo. Ma lo stesso riapparire di Onéir — che dopo molti anni ritorna in Gran Bretagna — non aggiunge niente a questa fedeltà sancita fin dall’inizio. Proprio per questo l’abbraccio finale tra i due cavalieri è al di fuori del sentimentalismo con cui un uomo può dire a una donna: «Sono passati tanti anni, eppure nulla è cambiato». Tra Federico e Onéir non c’è nessun «eppure». Il loro stesso patto lo impediva.

 

Così l’apparizione non promette alcuna riapparizione che la verifichi. L’atleta ormai anziano che si trova di fronte agli occhi la scena del suo trionfo, diventa poeta nel momento in cui ne canta l’unicità e non confronta i muscoli infiacchiti di oggi con quelli guizzanti di ieri e con quelli altrettanto guizzanti di un ragazzo che gli sfreccia innanzi. Solo così quel muro, quei nove secondi impiegati per correre ottanta metri, entra nell’epos e diventa tanto più perenne quanto più accaduto un’unica volta.

 

Amare interamente l’unicità di quell’evento significa farlo apparire. Ma basta una sola ipotesi intorno a ciò che avrebbe potuto accadere quel giorno, intorno a una partenza infelice o a un decimo perso, perché l’apparizione si scolori in una qualunque vicenda personale, in quel confronto tra evento e variante che coincide, esso stesso, con l’invecchiamento. E forse, se l’apparizione non può concedere confronti, è perché essa viene ma non vede… forse proprio questo è sfuggito al Pigmalione di Ovidio… (Nella versione originaria del mito, Pigmalione si trova improvvisamente di fronte alla statua di Afrodite e se ne innamora: un’apparizione. Ma il Pigmalione ovidiano la cesella fino a farla diventare sempre più verosimile. Non era stato abbagliato. Spera e prega, e finalmente la statua si fa donna in carne e ossa e lo contraccambia, fino al matrimonio: un matrimonio che diventa la caricatura di quell’altro subitaneo matrimonio con una bellezza a cui non si chiede di essere reciproca). Giungere all’altro in modo che egli possa dire soltanto «per fortuna e per forza» (l’occhio della necessità nella scena del supplizio). Ma se l’altro chiede «perché proprio oggi?» o addirittura «perché tanto ritardo?»… in questa intercapedine l’apparizione non è ancora avvenuta, non ha ancora attanagliato.

II.

Esistono altre apparizioni che, con il loro pareo di obbedienza, sono svincolate sia dalla fugacità surrealista (e a maggior ragione psichedelica1) sia dalla metamorfosi alessandrina-ovidiana e sia, contiguamente, dal fiabesco. In modo diverso, pur estranee anch’esse alle dolcezze prolungabili del dormiveglia, impongono il loro comando avvertito come irreale assoluto (la ragazza del Diario di una schizofrenica, tutti coloro in cui l’emergere di una figura non consente possibilità di ritocco o proroga). Qui l’apparizione va al di là di quell’incarico premonitorio — tipico del Cristianesimo, ma certo presente anche nei greci — dove il legame tra contingenza e telos configura una vicenda rituale. Qui insomma l’apparizione inspiegabile-obbligatoria costringe a esserle simultanei senza interrogarsi sull’avvertimento. «Devi vedermi in ogni particolare, per quanto terribile».

 

 

È chiaro che anche questa apparizione può fissare una data — specie nell’epica più connessa a miti ciclici — e questa data potrebbe essere anche il 6 gennaio, in apparente possibilità preparatoria. Ma non sarà mai il 6 gennaio dell’anno prossimo. È ben altro l’anniversario di un’apparizione. Esso si compie in un anno sconosciuto: e allora anche il Golgota, la montagna più vicina al cielo, la montagna al riparo delle acque, può essere sommersa, se il giorno nativo non abita più l’anno di prima. Come, a questo punto, introdursi nel presagio un sacrificio propiziatorio? Non resta che un sacrificio poetico, come quello che avviene alla fine de L’uomo a cavallo di Drieu la Rochelle, dove il sangue di un animale amato viene versato senza contraccambio, in dono allo splendore del cosmo (e nel libro questo rogo si configura appunto come apparizione). In altre parole: come può esserci apparizione dove c’è rito evocativo (spiritismo) o implorazione di aiuto? Quando Samuele osserva che un popolo si è ridotto a invocare Jahvé soltanto in seguito a qualche catastrofe, coglie l’avvicinamento progressivo tra teofania e ierofania, ovvero uno scadimento ulteriore rispetto all’apparizione presagente, fino al punto in cui il bosco o il tempio diventano veri e propri contenitori intercambiabili: un’eventuale teofania devastante può essere ormai motivata dalla nozione di inadempienza e nullifica l’apparizione poetica infangandola con una psicologia che essa non può ammettere (il «mea culpa» di fronte alla sua terribilità o — parallelamente — il «domine non sum dignus» di fronte alla sua benevolenza: due varianti della miopia a cui si accennava all’inizio, due annebbiamenti della previsione (previsione, letteralmente, meteorologica, in quanto riduzione del provvidenziale a cronaca di occasioni e di scongiuri). Riassumendo: nonostante i limiti relativi al concetto di Disegno di Dio, è innegabile la forza di alcune apparizioni vetero e neo-testamentarie (Mosè che appare con Elia ai tre apostoli, l’Angelo che appare a Zaccaria e ai pastori nel Vangelo di Luca, la straordinaria Teofania vissuta da Elia, al quale Jahvé non appare nei segni tradizionali del terremoto o della tempesta, ma in quello di una brezza appena percettibile; e tante altre apparizioni dell’Apocalisse, dell’Esodo, del Libro dei Re ecc.). Ed è altrettanto innegabile che (attraverso un processo storico legato alla Patristica, al diritto canonico, al Malleus Maleficarum e ad altri elementi concernenti il rapporto giuridico tra dogma, opus operatum ed eresia) l’apparizione si è via via psichiatrizzata nella disputa tra oggetto recepito e oggetto sfigurato. Un’effettiva perizia calligrafica: per accertare la scrittura più o meno patologica di chi ha visto. Ora, poiché esiste un modello legittimante, la storia delle apparizioni religiose diventa la storia dell’approssimazione a questo modello iconografico: la figura dell’Angelo, la localizzazione su una montagna — Tabor — il biancore della colomba — Matteo — la dimensione sepolcrale (sepolcro di Gesù).

 

Note

  1. Senza ovviamente considerare i neo-americani, non parlerei di apparizione nel Michaux mescalinico, bersagliato da immagini a cui non ci si può appoggiare e comunque alla costante ricerca di un appoggio, di una ralentie, di un pendio in cui rassodare lo spazio interiore («occorre essere pietre che scendono lungo un pendio») anche perché questo Michaux non è separabile dal Michaux della simbologia puntillistica — la linea, il momento, l’ombra, la piuma — a cui si contrappone la fermezza dura e irrespingibile dell’apparizione, che non ammette né l’«emportez-moi!» né il soffio che la vuole spingere in volo, per quanto angosciato sia questo soffio in alcune pagine di Miserabile miracolo. Per motivi ancora più ovvii escluderei il rapporto tra apparizione e illuminazione zen, da un lato; e, da quello opposto, il rapporto tra apparizione e intelaiature visionario-speculative di ascendenza blakeana.

 

[Immagine: Foto di Viviana Nicodemo].

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