di Daniele Balicco
Ma se il senso della realtà esiste allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità.
(R.Musil, L’uomo senza qualità)
Il continente europeo è un gigante economico e un nano politico. L’insieme della ricchezza lorda prodotta dalle sue 28 economie nazionali, ne fa, conti alla mano, la prima potenza economica del mondo. E nonostante negli ultimi decenni si sia attuata un’aggressiva dismissione delle forme di welfare pubblico, quanto meno nei Paesi fondatori resistono ancora tracce di quel compromesso socialdemocratico fra capitale e lavoro (ospedali pubblici, istruzione gratuita, previdenza e ormai poco altro) del tutto inesistenti altrove. Come sappiamo, è stato il rimbalzo sull’Unione della crisi del capitalismo anglo-americano del 2007 a far esplodere gli squilibri interni latenti del suo modello di sviluppo. E a rendere invece patenti la follia del suo assetto istituzionale e la cecità politica del blocco di potere finanziario-industriale che la governa.
È difficile capire, infatti, per cosa realmente si stia votando oggi. Per molti aspetti, il progetto costituente europeo sembra non avere né capo, né coda. Eleggiamo un parlamento che di fatto non ha alcun potere legislativo. Dei 28 paesi membri, 19 usano una moneta unica che coordina 19 politiche fiscali differenti, in competizione l’una con l’altra. Basti pensare che Olanda, Lussemburgo, Irlanda, Cipro e Malta sono tecnicamente dei paradisi fiscali. Non esiste un bilancio pubblico comune, né una politica estera comune; e, come se non bastasse, abbiamo una banca centrale senza un governo, governi privi di una banca centrale e un sistema bancario senza un effettivo prestatore di ultima istanza. Sembrerebbe quasi uno scherzo, il castello di Kafka; ma l’Unione è stata progettata e costruita così.
Leggere Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea di Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo e Mariana Mortàgua (Rosenberg & Sellier, 2019) aiuta a capire come siamo arrivati fino a questo punto e quali siano le cause strutturali di quella che ormai appare come una vera e propria crisi di legittimazione dell’Unione Europea. Va subito detto che la lettura di questo lavoro non è semplice, né tantomeno rassicurante. L’argomentazione, infatti, è analitica: non offre fianco a scorciatoie teoriche, né tantomeno a soluzioni politiche immediate. Il volume raccoglie quattro articoli e ruota intorno ad una questione di fondo che potremmo riassumere così: o si ricomincia a pensare in grande, a progettare una nuova fase costituente – riaprendo un conflitto radicale sul “come”, “quanto” e “per chi produrre” attraverso un vero e proprio “piano del lavoro” proiettato su scala continentale – o l’Unione Europea imploderà. Per citare, come fanno gli autori nel volume, T. S. Eliot, magari “non già con uno schianto, ma – sicuramente – con un lamento”.
Il saggio è una critica solidamente argomentata alle due ipotesi interpretative oggi dominanti sulle origini della crisi dell’Unione Europea. Per gli autori, quest’ultima non va letta né come una crisi causata da eccessi di spesa pubblica dei paesi del Sud Europa – come vuole la vulgata neoclassica e il 90% della comunicazione mediatica; né tantomeno come effetto delle divergenze del saldo delle partite correnti all’interno dell’Eurozona. In altre parole, come eccesso di esportazione nette da parte del paese economicamente dominante: la Germania – tesi della vulgata eterodossa. Rispetto a quest’ultima ipotesi, nel libro si può leggere anche una critica serrata ad un testo che, qualche anno fa, ha avuto molto successo: Il tramonto dell’Euro dell’economista Alberto Bagnai, oggi senatore leghista e “consigliere del principe” Matteo Salvini.
Per gli autori, invece, non si capisce la natura strutturale della crisi europea se non la si colloca all’interno del sistema capitalistico mondiale. Il punto di partenza sta dunque nel porsi una domanda semplice: quale tipo di capitalismo è entrato realmente in crisi a partire dal 2007? Non certo un generico “neoliberismo” di cui straparlano sociologia e quotidiani. Per gli autori, ad implodere nel 2007 è una forma specifica di capitalismo: un paradossale keynesismo privatizzato o money manager capitalism che ha direttamene sussunto il lavoro nella speculazione finanziaria attraverso l’imposizione di consumo a debito. In altre parole, è entrata in crisi la creazione di domanda effettiva mondiale, organizzata intorno all’indebitamento finanziario delle famiglie anglo-americane, sbocco dei neomercantilismi europei (Germania e Italia in testa) e asiatici (Cina). Per l’Europa si tratta dunque di una crisi da eccesso di offerta in settori chiave.
Se non si presuppone questo orizzonte di fondo, la realtà europea diventa letteralmente incomprensibile. Il volume ricostruisce quindi le dinamiche interne alla ristrutturazione industriale in corso (la struttura economica europea ha sempre più una forma reticolare transnazionale gravitante intorno al cuore tedesco ed è sempre più spostata verso Est, dove per altro si registra una crescita impressionante degli investimenti diretti cinesi su logistica e sistemi industriali) e alla sua integrazione monetaria: e qui l’analisi dei flussi finanziari mostra come siano essi stessi il presupposto, e non l’effetto, degli squilibri interni alle macro-aree europee.
Se vale questa lettura, l’uscita dall’euro si mostra come risposta illusoria a contraddizioni sistemiche che nessuna sovranità nazionale può ormai più governare in modo indipendente, essendo “i livelli minimi di efficacia per una regolazione economica, finanziaria e sociale dei processi, alzatisi su scala sovranazionale” (p.110). Nello stesso tempo, però, se non cambierà politica economica e architettura istituzionale, l’Europa non potrà che implodere. Che fare, dunque?
A chiusura di libro, gli autori citano una famosa pagina dal primo volume dell’Uomo senza qualità di Robert Musil, dove lo scrittore austriaco difende contro lo strapotere del principio di realtà, la potenza del principio di possibilità come “volontà di costruire”, come “consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione”. Come ricordano gli autori, nella storia sociale europea, “le uniche riforme che sono state mai realizzate sono nate dal rifiuto delle compatibilità date”. Da qui si deve partire, da questo rifiuto. Non regredendo verso soffocanti identità nazionali; né tantomeno accettando passivamente il destino autodistruttivo che il blocco di potere finanziario-industriale tedesco ha imposto a tutto il continente. Rompere con le compatibilità date, ricominciando a pensare in grande. Esiste la possibilità per cui l’Europa da nano politico si trasformi in potenza democratica. Serve una visione complessiva, un lavoro culturale capace di imporre un’egemonia e, soprattutto, un’organizzazione sindacale nuova, proiettata su scala continentale, che riesca a difendere, sul terreno della produzione, gli interessi del lavoro europeo come soggetto unico organizzato. Nessun partito politico oggi in Europa è in grado di sostenere un progetto politico simile. Eppure, non è detto, che il principio di possibilità ad un certo punto, in modo del tutto inaspettato, prenda il sopravvento e ci trasformi. Come è già altre volte accaduto.
Il problema è che l’UE non può essere riformata tanto meno senza l’accordo della Germania. L’uscita, dall’euro, non per forza dall’UE, che sarebbe comunque cosa tosta, non appare tanto come una regressione a un’ identità ma piuttosto a una “gestibilità”. Sapendo che poi non torneremo a chissà quale glorioso illo tempore, solo gestiremo con più razionalità la nostra reductio a livello internazionale.
Non si sarebbe dovuto arrivare al punto attuale in cui, per usare un’espressione rozza ma efficace, buona parte del “popolo” ragiona colla pancia, esprimemendo in modo irrazionale il proprio disagio materiale, le proprie difficoltà economiche. A questo ci ha portato, in buona parte, la volontà dell’élite dominante di costruire l’Europa così come ci si presenta oggi, con rigidi vincoli esterni e sostanzialmente irriformabile, il tutto condito con l’ideologia del “non c’è alternativa”, propria del pensiero unico (sorta, a mio avviso, di fascismo 2.0). A questo ci ha portato, secondariamente, la politica delle “”sinistre”” istituzionali europee e nazionali che si sono fatte portavoci e co-esecutrici d’un progetto di costruzione di un super-Stato privo di fondamenti economici e culturali comuni subordinato alle esigenze del capitale industriale e finanziario, limitando le loro prassi alla difesa e all’affermazione dei diritti civili e lasciando i diritti sociali campo d’azione di forze politiche di “destra”.
A questo ci hanno portato quei settori dell’élite intellettuale progressista o d’opposizione nazionale ed europea che, per ignoranza o per opportunismo, non hanno saputo identificare il nemico principale delle classi subalterne e dei ceti sociali impoveriti e si sono attestati sul perseguimento di obiettivi secondari e non dirimenti .
Questo non sarebbe dovuto accadere, ma è successo. Più che piangere sul latte versato, ci vorrebbe una seria autocritica da parte di quelle forze politiche e di quella società civile che, a diverso titolo, hanno reso possibile tutto ciò per incapacità di analisi (escludendo ogni ipotesi di servilismo e malafede), preludio a un cammino politico-sociale non di breve durata, ma che riporti sui binari giusti la locomotiva (o quel che è) della storia.
“Serve una visione complessiva, un lavoro culturale capace di imporre un’egemonia e, soprattutto, un’organizzazione sindacale nuova, proiettata su scala continentale, che riesca a difendere, sul terreno della produzione, gli interessi del lavoro europeo come soggetto unico organizzato. Nessun partito politico oggi in Europa è in grado di sostenere un progetto politico simile. Eppure, non è detto, che il principio di possibilità ad un certo punto, in modo del tutto inaspettato, prenda il sopravvento e ci trasformi. Come è già altre volte accaduto.” (Balicco)
Non è il momento di ironizzare su questo disastro politico o di limitarsi a scaricare la colpa sui vari promotori di appelli al voto, ma come faccio ad interloquire con il “principio di possibilità”? O devo mettermi in attesa che esso “prenda il sopravvento e ci trasformi”?
” Venerdì 27 dicembre 2002 – « L’impiegata della posta ti conosce già dalle tue cortesi, sperdute domande sulla giusta buca delle lettere. Lo noti dai suoi occhi mentre la saluti. Le dai la raccomandata; lei ti fa scrivere dietro nome e indirizzo. Tu senti che ciò non è assolutamente indispensabile. Lei ti porge la sua matita. Osserva quel che hai scritto, si corregge con viso professionale e comincia a fare con la lettera qualche altra cosa. Legge soltanto, quando deve scrivere sulla tua ricevuta. Storpia il tuo nome. Glielo fai notare allegramente. Lei ti guarda con un volto che in basso sta per farsi aguzzo per il riso, ma si trattiene ancora. Poi affondi, proprio paralleli, i tuoi occhi nei suoi neri occhi splendenti, cosa che lei ti concede, saluti cortesemente e te ne vai. [Novembre 1913?] » (Robert Musil, Diari) “.
“La patria moderna dev’essere abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d’interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per patria l’Europa. La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E concludo che senza amor nazionale non si dà virtù più grande”.
Giacomo Leopoardi
MARXISMO CLASSISTA (non di classe).
Prima di tutto, la questione dell’ineluttabilità dello sviluppo di un mercato unico senza il quale non si potrebbe raggiungere un aumento delle ricchezze nei singoli paesi, nel panorama eterodosso macro rimane un discorso piuttosto largo di interpretazioni, sia tra gli stessi economisti marxisti, di cui ricordo ad esempio Vladimiro Giacché e Domenico Moro, ma anche degli autori post-keynesiani:
“Il problema, come ha fatto recentemente notare Ashoka Mody (link nei commenti), ex vicedirettore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale, è che questa narrazione è palesemente smentita dalla realtà dei fatti. Tanto per cominciare, né il mercato unico – né tantomeno la moneta unica – hanno dato un particolare impulso al commercio intraeuropeo”. https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/14261-thomas-fazi-le-ineffabili-catene-globali-del-valore.html?fbclid=IwAR3FGNB0pUh-pzmZJ3744jtwMxyf8Q7_R298jGg8P-imORmsjMhMwGjOE1o
E’ anche discutibile il fatto che l’uscita dal mercato unico comporti, come inevitabile conseguenza, la chiusura delle economie di ciascun paese verso un protezionismo che le emarginerebbro:
«Il punto cruciale da osservare … è che le principali trasformazioni dell’economia mondiale a cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi quattro decenni, tra cui lo sviluppo delle nuove tecnologie, la diffusione delle catene globali del valore, la crescita del commercio e l’ascesa della Cina, non hanno necessitato di condizioni analoghe a quelle del mercato unico europeo. … Semmai è proprio l’ideologia del mercato unico a rappresentare un residuato di un’altra epoca. L’internazionalizzazione della produzione e la diffusione del commercio non richiedono un mercato unico [o una moneta unica]. Allo stesso modo, l’uscita dal mercato unico [e/o dell’euro], o la sua abolizione, non equivalgono assolutamente a una chiusura autarchica dentro i confini nazionali». (Costas Lapavitsas – cit. presa dallo stesso link).
Le economie, difatti, non sono connesse soltanto in Europa ma dappertutto. Basti pensare al ruolo della Cina nei confronti degli USA e verso altre economie asiatiche senza che ciò abbia comportato per questi ultimi paesi la necessità di una confederazione che potesse aumentare il proprio PIL. Né succede che esista una confederazione sud americana; né tanto meno che si sia sentita l’esigenza nel Commonwehalth di far rientrare Australia, Canada, e Sud Africa sotto una stessa unione politica che vada aldilà della valenza simbolica della corona ingelse.
Non si capisce per quale motivo la Svizzera, la Scandinavia, e parte dell’Europa dell’Est, pur incastrati in un puzzle geo-politico composto anche di interconnessioni industriali e finanziarie con l’Europa, i primi, e di manodopera a bassso costo che forniscono ai paesi centrali, i secondi, rimangano tuttavia immuni dalla crisi mondiale, oltre che non aver affatto bisogno di entrare a far parte della UE.
“L’inevitabilità” di Bellofiore è smentita dall’intervento di politiche statali di paesi sovrani che invertono i flussi di capitali; li controllano; aggiungono dogane; intervengono nella programmazione economica; nella manipolazione dei tassi d’interesse che si mantengono negativi; ecc., tutti fattori che, viceversa, ai paesi europei non è concesso fare. L’inevitabilità insomma c’è nel momento in cui a muoverla e ad accompagnarla è il fattore politico e non viceversa.
Ora, se si esclude il medioevo, l’italia ci ha messo 4 secoli per unificarsi facendolo inoltre attraverso 3 guerre d’Indipendenza contro gli Austriaci e, dopo 160 anni dall’unità, ha ancora numerosi problemi interni irrisolti legati all’unificazione. Se pensiamo ad esempio agli USA, agli UK, alla Germania, e all’attuale instabilità anche spagnola legata alla causa basca e della Catalogna, possiamo sostenere che sullo scacchiere mondiale la maggior parte delle unificazioni che hanno condotto alla creazione di nuove nazioni sono avvenute attraverso delle guerre e nel corso di lunghi processi durati talvolta svariati secoli: un miscuglio di processi produttivi e finanziari, alla Arrighi, certamente, combinati tuttavia al volontarismo politico di Chabod. Non uno meno dell’altro, perché se il secondo è troppo politico, razionalista, l’altro è troppo spontaneo, materialista. Perchè, come la si rigira la risigira, la fondazione di un’Europa, anche quella ipotetica di Bellofiore, sarebbe una nazione come le altre, solo più grande.
Tuttavia, contro tutte le evidenze storiche del caso, per gli autori la soluzione più facile rimane evidentemente che i movimenti progressisti contribuiscano a sfasciare gli stati nazionali ancora esistenti per affidarsi ad un’unione nata appena 30 anni fa, la quale, riconosscono loro stessi, perde pezzi da tutte le parti. Insomma, paesi completamente differenti tra loro per tradizioni istituzionali; opposti per economie; opposti per dinamiche storiche; con lingue differenti; avrebbero dunque più facilità ad unirsi.
Le implicazioni di una visione così anti-storica viene contrapposta da numerosi fattori che in questa sede non possono essere analizzati. Ne cito solo una. Il recente Trattato di Acquisgrana sancisce un’alleanza tra Francia e Germania, nella fattispecie sulla questione militare, rivelando le reali intenzioni politiche della Germania, la quale, totalmente all’opposto dell’ineluttabilità dei processi produttivi, sta consapevolmente conducendo la sua terza guerra (economico-finanziaria), per ottenere l’egemonia sul continente e diventare così super potenza regionale al fianco di USA, Cina, ecc.
Dunque, per quale motivo questa rimozione dello Stato? E la visione del fantasma di una classe internazionale fatta di lavoratori che, se anche volessero, non potrebbero nemmeno sognare di comunicare tra loro perché non conoscono gli uni la lingua degli altri? E perché, tanto per cominciare, gli autori non si impegnano, prima di tutto, ad incoraggiare la nascita di una forza popolare, progressita, socialista, sulla base di coordinate locali, istituzionali e valoriali autoctone (es: ereditate dai partiti della Resistenza; dalla nostra Costituzione; dall’avanguardia dell’impresa pubblica italiana)? Che recuperi, prima di tutto, un autentico socialismo democratico da noi, che sarebbe un po’ più facile realizzarlo prima di andare a costruirlo da un’altra parte?
Il fatto è che questa costellazione di autori, (cui ci aggiungo ovviamente anche il professor Joseph Halevi), sebbene da una parte, abbiano contribuito, fin da sempre, a disvelare le contraddizioni del Capitale (e per questo non finiremo mai di ringraziarli), dall’altra, hanno introiettato, invece, il punto di vista dell’aggressore anglo-americano, che ha cercato, fin dal ’45, di punire il paese dell’onta fascista. Notare bene che tale punizione non ci è stata inferta per princpio morale ma per banale ambizione espansionistica, travestita però da questione morale, nella stessa maniera in cui oggi giorno i tedeschi, i belgi e gli olandesi, dicono che gli italiani sono degli spendaccioni. Purtroppo è il destino della loro generazione. Hanno sempre considerato l’Italia una nazione che deve vergognarsi della propria cultura e della propria tradizione politica, fatta eccezione per quella della sinsitra radicale che, non a caso, ha avuto, tra i suoi obiettivi, senza rendersene conto, quello di sabotare la nostra culutra di paese indipendente.
Inoltre, questo non ha comportato in loro nessun corto-circuito rispetto agli ideali della Resistenza di cui gli autori stessi si vantano di appartenere. Difatti, di contro ai valori della lotta partigiana, gli autori disprezzano la Costituzione, la quale viene ridotta come un compromesso al ribasso nel conflitto tra capitale e lavoro, e lo stato italiano un nemico di classe. Amano Antonio Gramsci ma ne rimuovono completamente la questione nazionale, come se le “Note sul Machiavelli e politica dello stato moderno”, raccolte e riordinate da Togliatti, fosse stato un testo apocrifo e “l’Ordine nuovo” una rivista mai scritta. La 3a internazionale? Era stalinista e perciò non è mai esistita. Andatelo a spiegare però a Domenico Losurdo.
Di conseguenza, la dominante anarcoide degli autori (che trova le sue fonti, dapprima nell’operaismo, e poi suvvia fino a comprendere il post-operaismo negriano) conduce ideologicamente a rimuovere tutte le questioni politiche, giuridiche, di tipo istituzionale che hanno attraversato il nostro paese (che per lo più non conoscono), e che vengono rimosse attraverso la loro condanna ad un fascismo anti-storico e irreale; oppure svuotate di senso quando vengono messe a confronto con il tecnicismo economico puro di un marxismo anti-hegeliano che vede subito l’universale avulso da tutte le sue tappe e particolraità concrete.
Che cos’è ad esempio il proporzionale della Prima Repubblica per Bellofiore? Era meglio o peggio del maggioritario della Seconda Repubblica? Cosa significa lottare per impedire l’autonomia delle regioni che si spostano progressivamente dal baricentro economico-politico italiano per abbracciare le filiere produttive tedesco-austriache? Che cosa rappresenta la forma partito del 900, l’unica che sia riuscita a convogliare le sinergie di una massa popolare nell’ambito democratico? Che cosa significa per Bellofiore la lotta della DCI per emanciparsi dal controllo dell’Inghilterra sulla politica del terzo mondo in Medio Oriente per fare dell’Italia un paese indipendente? E così via..
E qui faccio ritorno alla premessa anti-popolare del loro marxismo classista, e non di classe. Gli autori infatti disconoscono il paese italiano e la sua storia democratica disprzzando il popolo che l’ha prodotta.
Infatti, oltre alla Democrazia Cristiana, anche il PCI e il PSI vengono condannati, nonostante siano stati le uniche forme di partito organizzate in grado di aver dato per lo meno storicamente uno spazio democratico al proprio popolo. E se questa soluzione, del partito novecentesco, è in effetti storicamente naufragata, la loro risposta tuttavia diventa quella di rimuovere un popolo italiano concreto con la sua storia partigiana \ fascista\ democristiana \ socialista\ ora leghista \ ora piddina \ ecc. per dare vita ad un corporativismo di classe internazionale totalmente astratto che si trova in un’ Europa dei popoli e dei lavoratori internazionali completamente inventata.
Dunque, disconoscono le forze popolari, prima di tutto autoctone, legate ad un destino che va dal Risorgimento fino alla fine della 1a Repubblica, di questo spazio-paese che è l’Italia, eppure esistente sia pur contraddittorio e violento, per vaneggiare un’inesistente demos europeo. A meno che non si voglia credere che gli universitari dell’erasmus e l’emigrazione di forza lavoro specializzata , che rappresenta una percentuale marginale della classe media, possa diventare davvero un ceto egemone e d’avanguardia dell’Europa. Ecco, chi scrive non ci crede.
Per chi scrive, invece, Bellofiore rimane un autore fondamentale per capire le circostanze economiche in cui ci troviamo oggi, e anche questo libro va letto sia pur con profonda critica. Per fortuna, non saranno gli economisti delle università a tirarci fuori da questa contraddizione storica ma, sono convinto, sarà ancora una volta il tanto vituperato popolo con le sue classi, le sue contraddizioni, e le sue avanguardie, nel momento in cui si tornerà a selezionare e costituire con i partiti di massa vecchia maniera una propria classe dirigente, italiana, degna di questo nome.
All’internazionalismo ci penseremo sicuramente. Ma questa volta solo dopo che un autentico socialismo democratico sarà rifondato , prima di tutto, nel nostro paese, così che alla cooperazione internazionale dei futuri e nuovi paesi socialisti, l’Italia potrà donare le proprie istituzioni d’avanguardia che l’hanno resa grande nel mondo, e non il contrario come si sta facendo ora.