di Jean-Luc Nardone
Il 2 maggio a Amboise, all’incontro tra i due Presidenti italiano e francese per commemorare i 500 anni della morte di Leonardo da Vinci in Francia, un giornalista ha chiesto al Presidente Mattarella della pace ritrovata tra Francia e Italia, e il Presidente ha risposto che di pace tra i due paesi «non c’era bisogno»; perché «i legami tra i due paesi sono sempre stati forti ad ancorati nella storia». A questa risposta, il Presidente Macron ha aggiunto che l’amicizia tra i due paesi è «indestructible»: una parola in realtà che, sfortunatamente, si rifà al campo semantico della guerra e porta con sé, nelle quattro sillabe dalla pronuncia ruvida, uno sforzo consonantico che la rende difficoltosa — e al Dante del De vulgari eloquentia, di sicuro, non sarebbe piaciuta. Ma che senso ha dire che l’amicizia tra due paesi è indistruttibile? Il Presidente francese lo avrebbe senz’altro potuto anche dire dell’amicizia tra Francia e Inghilterra nonostante una rivalità continua tra i due paesi dalla guerra dei Cento anni alle battaglie marittime ed economiche dell’epoca degli imperi coloniali; così come lo avrebbe potuto pure dire dell’amicizia tra Francia e Germania, anche se dalle guerre napoleoniche alla seconda guerra mondiale, Francia e Prussia (o Germania) sono state nemicissime. Eppure oggi, tra Francia e Germania, amicizia indistruttibile. A ripensarci bene quindi, la parola è vuota, retorica, insignificante. La cosa che conta di più non è l’impossibile capacità di distruggere l’amicizia tra tutti i nostri paesi ma il modo in cui queste amicizie si costruiscono, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Mi ritrovai… non in una selva oscura ma a Chambord, per il secondo e ultimo atto della rappresentazione dell’amicizia francoitaliana. Mi ci sono ritrovato, devo confessare, un po’ in extremis perché ero stato invitato dopo la pubblicazione di un appello della SIES (Società degli Italianisti dell’Insegnamento Superiore) che presiedo contro il taglio alle cattedre di lingua italiana nelle scuole medie, superiori e inferiori, un vero e proprio dimezzamento, che era stato deciso dal Ministero francese. Quest’appello metteva in risalto il linguaggio politico duplice che da una parte voleva celebrare con tutti i fasti possibili e immaginabili l’anniversario leonardiano, dall’altra metteva brutalmente in pericolo l’insegnamento della stessa lingua del genio italiano: una duplicità insopportabile, un vero atto subdolo di decostruzione.
È diventato ormai troppo raro riuscire a farsi intendere dai nostri politici, soprattutto quando si tratta di cultura o d’insegnamento. Basta vedere come si muove in questi giorni un centinaio d’architetti e di specialisti del patrimonio per provare a convincere il Presidente francese che la cattedrale di Notre-Dame non deve, non può essere riscostruita in cinque anni. Pochi giorni fa, in Parlamento, il partito del Presidente, in maggioranza assoluta nell’emiciclo, ha però votato il progetto di ricostruzione immediata, mirando in realtà alle Olimpiadi del 2024 che porteranno a Parigi milioni di turisti… Perché questo ormai è il ritmo del mondo: cinque anni sono un’eternità. Scarsa era quindi la probabilità che il nostro appello giungesse fino alle cime politiche anche se firmato da personalità famosissime del mondo della letteratura, del teatro, del cinema, da intellettuali brillanti, francesi così come italiani.
Amicizia indistruttibile ma conflitti continui. Il treno Lione-Torino, la questione spinosa dei migranti, il richiamo simbolico dell’ambasciatore francese, l’asse Parigi-Berlino che sembra essere diventato la spina dorsale dell’Unione Europea a cui si oppongono i populismi di quasi tutta l’Europa, altrettante tensioni tra Parigi e Roma incentivate dalle sfide (per non dire a volte le parolacce) che si lanciano i politici. L’indistruttibile amicizia tra Francia e Italia si decostruisce pazientemente tramite un disinteresse patetico del Potere per la cultura altrui, ben visibile nel modo in cui vengono trattati gli insegnamenti delle lingue in entrambi i paesi; vale a dire un disprezzo, una noncuranza, un’assenza totale di volontà politica o, se preferiamo, l’accettazione passiva dell’egemonia di un (apparente) utilitarismo linguistico. Di fronte all’angloamericano, allo spagnolo come opportunità sudamericana, al cinese del paese più aggressivo economicamente, un consigliere dell’ambasciata d’Italia presente a Chambord mi ha detto, allargando le braccia con fatalismo: “Che cosa possiamo fare?”. Che cosa possiamo fare, è vero, se non dire e ripetere che l’Italia è il secondo partner economico della Francia? Che pochissimi studenti in realtà cercheranno lavoro in Sudamerica o in Cina? Che per discutere con un anglofono di un argomento tecnico non è utile studiare l’inglese per dieci anni? Non dico — e ci mancherebbe! — che non si devono studiare l’inglese, lo spagnolo o il cinese. Sono un lettore appassionato di Shakespeare, divoro i gialli di Paco Ignazio Taibo II e sono sempre commosso da Lao She. Ma i nostri politici hanno così tanto aderito al modello neoliberale vincente che non sanno neanche più cosa sia esattamente la cultura quando non è commemorazione pubblicizzata. Che cosa possiamo fare se non continuare la costruzione della nostra comune cultura in particolare tramite l’insegnamento delle nostre lingue? L’insegnamento del francese è stato lasciato in stato di abbandono dalle politiche italiane mentre il nostro appello denunciava un’accelerazione violenta della marginalizzazione dell’insegnamento dell’italiano in Francia. Vero è che il consigliere, a Chambord, mi aveva confessato mormorando “Leonardo è solo un pretesto” mentre gli rimproveravo che l’Italia avesse chiuso tanti consolati e tanti istituti culturali in Francia e soppresso numerosi posti (per non dir tutti) di lettori d’ambasciata.
Nel treno che mi portava a Chambord, una chiamata dal Ministero mi ha annunciato improvvisamente che avremmo sùbito recuperato il numero delle cattedre d’italiano del 2018 e, nel 2020, una cifra vicina a quella del 2017, cioè un raddoppiamento del numero delle cattedre nei licei rispetto a quello previsto nel 2019. Un successo? Una vittoria? Articoli nel Corriere della Sera, L’Humanité, Le Monde, la Repubblica, La Stampa, Il Messaggero, il Manifesto, Il Secolo, interviste su Farenheit, la radio ticinese RSI, Radio Radicale, Radio Capital, ecc. solo per “recuperare” un numero di cattedre che era stato ridotto in modo inaudito in due anni dal governo Macron? In realtà, la vittoria è minima, simbolica, perché la riforma dell’esame di maturità del Ministro Blanquer dà all’apprendimento di una terza lingua vivente il coefficiente più basso (complessivamente l’1% del voto finale) mentre l’italiano viene dispensato come terza lingua vivente al 39% dei liceali: oggi sono quindi 45000 studenti dei licei, più di 1500 classi, di cui si è programmata la fine. Si apre quindi una lunga e difficile battaglia in realtà, anche se ormai ci sembra una vittoria il solo fatto di recuperare quello che ci è stato tolto. Siamo vittoriosi quando blocchiamo le nostre disfatte in un mondo in cui il progresso è stato sostituito dalla novità.
A ripensarci bene (e me lo chiedeva un giornalista) non è in realtà un disprezzo reciproco del governo francese per l’italiano o del governo italiano per il francese. Se almeno fosse così, vi si potrebbe opporre una guerra ideologica, una strategia di risposta, una volontà contraria. Ma non è così. In Italia i miei colleghi in tutte le università italiane hanno visto chiudere tante cattedre d’italianistica, e in Francia la riforma di Blanquer mette seriamente in difficoltà l’insegnamento della letteratura francese nei licei: la scelta dei professori si dovrà fare per forza in una lista ridicola di tre romanzi, tre commedie, tre saggi, tre poeti. In un altro paese, in un’altra epoca, che cosa si sarebbe pensato di un governo che non lascia spazio all’intelligenza, al gusto, alla passione dei suoi insegnanti? Che li costringe a scegliere un unico romanzo in una letteratura che ne conta decine di migliaia? Non si tratta quindi di difendere l’italiano in Francia o il francese in Italia, bensì le nostre culture in entrambi i paesi. Non a caso il nostro appello è stato firmato da numerosi professori di francese in Italia. Ma non solo: se si guarda ai commenti lasciati da alcuni dei 12000 firmatari (americani, tedeschi, spagnoli, belgi, polacchi, olandesi, svizzeri ecc.), si capisce che siamo dappertutto in occidente alle prese con gli stessi demoni. Non credo che ci sia un complotto di tutti i politici europei per uniformare la diversità delle nostre culture ma credo invece che non abbiano nessun progetto europeo per queste stesse culture. In Francia rimangono ormai solo tre Professori ordinari di letteratura medievale italiana. Fra poco saranno più numerose le Tre corone, perché c’è da temere che le cattedre non saranno rinnovate quando i docenti andranno in pensione. E questo è il risultato meccanico dell’autonomia delle università impostaci dai governi precedenti. Niente complotto quindi ma vige senz’altro nei nostri politici l’idea neoliberale che la cultura non debba dipendere dalla sfera pubblica, che si possano fare dei tagli tranquillamente nelle spese dedicate alla cultura, alle culture, siano esse popolari o erudite. A pochi giorni dallo scrutinio europeo, io voterei volentieri invece un candidato che sapesse che la cultura non è solo patrimonio, che può sì sparire in poche ore in un incendio commovente trasmesso sulle onde internazionali ma che può anche essere soffocata nel silenzio complice di decorosi ministeri. Ma questo candidato, io non lo vedo.
[Immagine: Macron e Mattarella presso il castello di Amboise].
Un dolentissimo e importantissimo articolo. Grazie di averlo pubblicato.
Intervento davvero prezioso, da sottoscrivere dalla prima all’ultima parola.