di Mario Minarda

                                                                                                    

C’è però una cosa, nel calcio, che non cambia mai: la passione. Una passione che accomuna tutti, uomini e donne.

Darwin Pastorin, Lettera a mio figlio sul calcio

 

Che cos’è l’Italia? Chi sono veramente gli italiani? Potrebbe sembrare distante, o addirittura ardito pensare a queste due domande di carattere identitario a proposito del libro di Dario De Marco, Non siamo mai abbastanza, (Roma, 66thand2nd, 2011). Sennonché alcuni dati interni ed esterni all’opera del giovane autore napoletano lo consentono. Cominciando da quelli esterni: il romanzo, come indica in calce lo stesso De Marco prima della dedica, è il frutto di una  commissione quasi  ad hoc, essendo risultato vincitore del concorso «In attesa dell’Unità d’Italia» indetto dalla casa editrice romana nel 2011. Il più importante elemento interno che avvalora l’ipotesi è invece di tipo tematico: il testo è la storia dei primi trentasei anni della vita di Marco De Carlo, raccontata attraverso la rassegna storica della partecipazione ai campionati mondiali di calcio della nazionale italiana. Ecco dunque un primo punto: lo sport nazionale, il calcio, scelto come simbolica cartina di tornasole per saggiare il tasso di italianità presente in ciascuno di noi, non senza una buona dose di provocazione ironica da parte dell’autore. Laddove per italianità si intende evidentemente un sentire comune, duraturo, di fronte a qualcosa: in questo caso il tifo appassionato e incontrastato per il mondo del pallone. A centocinquanta anni dalla fondazione istituzionale dello stato italiano ciò che veramente ci unifica è una passione per un gioco, nel suo duplice senso di sofferenza e partecipazione emotiva? L’autore grazie al suo personaggio sembra giocare volutamente con questa anfibologia comunitaria scoprendo le varie maschere del potere, le tronfie retoriche mediatiche con le quali costruiamo spesso i nostri miti, ingigantendoli forse più del necessario. Attraverso immagini e figure del mondo del pallone, il protagonista tenta di capire il difficile patriottismo di un’intera nazione che oscilla tra facili sovrapposizioni e costanti scivolamenti semantici:

Ecco il Salvatore della Patria! Papà lo chiama così a Scirea, che è il libero dell’Italia. La patria significa la squadra dell’Italia. Libero significa che può fare tutto quello che vuole, tipo un po’ l’attaccante un po’ il difensore e un po’ il centrocampista (p.62)

A slanci divertiti e ingenui si accostano tuttavia riflessioni e amarezze, frutto a volte di brutali sfiducie o epifaniche rivelazioni, che se non altro contribuiscono alla progressiva atmosfera di disincanto restituita in definitiva dal testo:

La stessa impotenza l’hai vista oggi pomeriggio in tv, guardando l’Italia contro la Francia di Platini, sotto due a zero e non ci provava nemmeno, l’inarrestabile Nando De Napoli quasi fermo a centrocampo,evidentemente non sta scritto da nessuna parte che l’Italia è come il buono dei film, che a un certo punto è quasi spacciato, ma alla fine vince sempre (p.86).

Ma nel libro non è solo il calcio, in quanto passione e vettore identitario, a disegnare modernamente il nuovo prototipo di genus italicum, per dirla con un celebre saggio di Asor Rosa. Si rilevano anche i problemi di natura varia che stanno intorno ad un carattere italiano tipo: la politica, l’istruzione, il mondo del lavoro, la giustizia, le avventure d’amore. Insomma un ritratto dell’Italia dalla metà degli anni ’70 fino ai giorni d’oggi, colto fra gli interstizi delle vicende personali del protagonista.

Nato nel 1974 da una famiglia medio borghese napoletana (il padre è insegnante di matematica, la madre maestra elementare), Marco, figlio unico, si ritrova a crescere in un’Italia dilaniata dal terrorismo prima (i postumi dell’omicidio Moro), e pervasa dal boom economico targato anni ottanta dopo (la televisione a colori che comincia a comparire casa per casa). Con in mezzo i vari governi avvicendatisi  tra prima e seconda repubblica, nonché i grandi referendum popolari.

Il lento percorso di formazione del ragazzetto De Carlo è costellato di costrizioni e perbenismi, assieme individuale e collettivo, in cui tutto ciò che matura a livello generale è filtrato dalla sua percezione. Il protagonista capta con vivo disagio tutte le sollecitazioni esterne, e stenta a riconoscersi come normale in un’Italia le cui mode giovanili o certi costumi appaiono omologanti. In un costante confronto antitetico “io-gli altri”, anzi “tu-gli altri” (l’ottica adottata dal narratore è focalizzata spesso sulla seconda persona singolare),  Marco azzarda una disperata sortita che avanza a passi incerti:

Gli altri sono ingrippati per le macchine e le moto e per i vestiti di marca, tu non ne sai niente  di macchine, non sai portare il mezzo perché da quando avevi tre anni i tuoi dicevano Mica vuoi il motorino, e i vestiti te li compra la mamma perché girare per negozi è noioso. Non ce la fai, sei rimasto indietro, e allora meglio distinguersi, rifiutare tutto in blocco, non andare in discoteca, o se sei costretto perché è una festa, restare seduto tutto il tempo, non guardare Fantozzi che non ti ha mai fatto ridere, non guardare DeeJay Television.

La musica, ecco che fanno i normali. Ti sei messo come un bravo studente  a farti registare le cassette da chiunque e a sentirtele sul mangianastri di casa, ti sei anche iscritto a chitarra, ma hai scoperto che sei completamente negato, non sai manco battere le mani a tempo e sei stonato come a che, altro che cantare Albachiara sulla spiaggia per far innamorare le ragazze. Non ce la fai a essere normale, dopo i primi Luca Carboni e Zucchero e Vasco e Phil Collins, ti sei messo subito in testa di trovare quelli bravi, e sono arrivati i Police e i Dire Straits, Paolo Conte e Pino Daniele, risultato ora sei fissato con il rock progressivo anni settanta….(pp.104-105)

A metà strada tra un perfetto disobbediente e un ossequioso studente modello, Marco De Carlo prosegue il cammino della sua formazione con gli esami per la facoltà di Legge, le scorribande in motorino con gli amici, gli amori immaginati, le avventure-lezioni di vita propinate dal cugino più grande Raffaele, i non-dialoghi con il padre, le «canne» fumate in compagnia, i primi voti e discorsi politici, le gare di scherma fuori porta. Stralci vitali che si susseguono in una penisola sempre più simile ad un Paese dei balocchi allegro e malsano, pronta a coprire angherie e illegalità di ogni tipo (i giri di droga di certe borgate napoletane, il clima clientelare e per nulla meritocratico di alcuni dipartimenti universitari, l’affarismo subdolo di certe realtà) con l’ipnosi generale prodotta delle partite del campionato del mondo giocate dalla nazionale di calcio: specchio di identità perdute e ritrovate, reticolo di speranze di massa ora euforiche, ora frustrate («Non hai mai visto tanti tricolori e bandiere azzurre tutte insieme, mica l’avevi capito che l’Italia era una cosa così importante» p.73; «Ma quando mai, è il calcio che è cambiato, non io […] mi sembra un mondo dove più del gioco in campo conta la politica, gli intrighi, o al limite i miliardi spesi» p. 116).

Le partite giocate sul campo fungono inoltre da cornice temporale: ogni breve capitolo reca nel titolo il luogo e l’anno in cui hanno avuto luogo i campionati del mondo disputatisi dal 1974 al 2010 («Usa 94»); seguono poi una serie di sotto paragrafi brevi che riportano il punteggio delle gare italiane («Irlanda-Italia 1-0, Italia-Messico 1-1»). Ma le stesse singole competizioni agonistiche possono anche essere considerate lo sfondo morale, gli spazi metaforici in cui si srotola la matassa vitale di Marco, come quando si ritrova gioioso e spensierato assieme al padre durante un’uscita in giro per i negozi della città, consapevoli della vittoria certa della squadra. Il verdetto di alcune finali, o  i risultati altalenanti dell’Italia nel corso dei vari tornei quadriennali, decisi a volte dai calci di rigore, somigliano infatti ai rigori plurimi della fortuna cui è sottoposta la vicenda del protagonista narratore.

Marco rappresenta a sua volta una intera generazione costretta alla precarietà e alla mutevolezza casuale del destino, alla mancanza di un vero progetto di vita. Esistono da questo punto di vista i luoghi reali, le tappe geografiche che scandiscono la storia del ragazzo partenopeo costretto per necessità ad emigrare: Napoli, Bologna, Torino visti come ambienti-emblema di passioni, delusioni, aspettative, amarezze e desideri, come quello di iniziare una storia duratura e sincera con una donna, o come quello di potere fare finalmente il giornalista. Mestiere quest’ultimo pieno di idealità e sogni, che ben presto si scontra con una  realtà dura e  più mediocre di quanto si poteva pensare all’inizio:

Eppure al giornale a volte ti viene lo sconforto, non tanto per le vendite che non decollano ma un anno è poco per disperarsi, quanto per il dilettantismo elevato a sistema: tipo mo’, che siete in riunione e Ettore dice Uè, ma oggi ci sta la prima partita dell’Italia, sicuramente ci saranno le solite polemiche sull’inno, perché non ci facciamo un pezzo (p.176).

L’autore De Marco racconta le stazioni della sua vita in progress, rappresentate visivamente dai capitoli-partite, corti e incisivi, che somigliano quasi a figurine di un album da riempire, cui manca sempre però qualche pezzo («perché tanto l’album non lo finisci,  non lo finisce mai nessuno» p. 69) o c’è qualche doppione di troppo. Le facili sezioni in cui è articolato il testo  a volte denotano solamente l’impressione del protagonista di fronte agli eventi; altre volte invece raccontano gli eventi stessi in modulazioni narrative che oscillano dalla prima persona (soprattutto nei capitoli iniziali) alla terza, passando per la seconda. Sintagma emblematico che ricorre spesso è infatti «cosa ti piace» che il narratore riferisce interrogativamente al personaggio medesimo, quasi a volere sottolineare la sua speciale taratura sulle cose precarie del mondo.

Valutazioni qualitative e bilanci  posteriori i quali non bastano a definire il peso della verità o degli effetti sentimentali, emotivi che tale presunta verità, generale e massificata, investe sull’esperienza concreta delle persone. E il risultato finale è la triste presa di coscienza di «non essere mai abbastanza», come recita il titolo del romanzo,  ovvero non sentirsi adeguati, non essere davvero sufficienti a comprendere: proprio nel senso latino di comprehendĕre, cioè di ‘stringersi’ realmente insieme, avvicinarsi reciprocamente l’un l’altro, aiutarsi nel degrado, immaginare e dare al contempo consistenza ad una «social catena» dalle finestre critiche, dagli orizzonti plurali e aperti in cui è ancora possibile il dubbio, il diritto all’insolvenza, a qualsiasi semplicistica determinazione o facile etichettatura. Sempre, da bravi italiani, ciechi appassionati di sovrasensi e schieramenti, e forse chissà, anche di illusioni capziosamente costruite:

l’importante è essere mossi. E non è manco una questione di opposizione, ci sta chi dissente e anche forte, ma pure quelli hanno la loro corte e si tengono tutti stretti lì, perché qui a essere vietato non è il dissenso, ma il dubbio, e io ho un dubbio che mi tormenta, non capisco, non capisco perché non posso dire che lo Stato fa schifo senza per forza tifare Br, perché non posso tifare Italia senza essere berlusconiano, perché non posso dire Povera Patria senza essere fascista, perché non posso dire che siamo un popolo di fessi farabutti senza essere etichettato come anti-italiano. Sono solo uno che vuole tifare, o non tifare, senza stare in un gregge, senza stringersi a corte. E che miseria (p.212).

3 thoughts on “Le passioni di un italiano, la passione degli italiani

  1. Il disastro calcistico dell’Italia di Prandelli è o non è una metafora del disastro politico, sociale e morale dell’Italia di questi ultimi anni? E come sarà commentato l’esito della partita con l’Uruguay, che ha determinato con la vittoria della squadra latino-americana l’esclusione dell’Italia da questo campionato del mondo? Azzardo qualche ipotesi sui commenti che appariranno nelle varie testate giornalistiche.
    «Il genio italiano sembrava scomparso dal campo…e non bisogna tacere che una Nazionale è tale se ha dietro una nazione»: ecco un commento che meriterebbe di trovare spazio su una testata attenta al rapporto tra onore nazionale e onore calcistico. Un quotidiano di orientamento giustizialista, a questo proposito, rincarerebbe la dose formulando un titolo come il seguente: «Azzurri specchio del paese», evocando un Paese che i suoi mondiali li sta perdendo quotidianamente. Del resto, la sconfitta calcistica in Brasile e la corruzione onnipervasiva che imperversa nel nostro Paese si confondono a tal punto che un titolo altamente probabile potrebbe essere questo: «Un Paese senza futuro».
    «Ma la Nazionale non è la Nazione», sentenzierà perentoriamente un editorialista preoccupato dalle analogie che molti tenderanno ad istituire tra esiti calcistici ed esiti politico-sociali. Parimenti, in polemica con chi ha scritto che «la Nazionale è lo specchio della Nazione» qualche altro editorialista sarà tentato di enunciare il seguente dilemma: «Ha davvero senso usare la Nazionale come metafora del paese? La risposta è senz’altro no», e proseguirà attingendo smentite dalla storia: «A sconsigliarlo dovrebbero essere innanzitutto i precedenti. Abbiamo vinto due titoli mondiali consecutivi, nel 1934 e nel 1938. Dobbiamo concluderne che la seconda metà del Ventennio è stato il più sfolgorante momento di storia patria?».

    Orbene, sembra davvero che non manchino ragioni sia contro che a favore della tesi della non corrispondenza tra disastro calcistico e disastro politico-sociale, tesi che potrebbe imporsi al centro dei commenti sulla sciagurata ‘performance’ della nazionale di Prandelli. Osservo, però, che l’avventura brasiliana è stata davvero disastrosa e che, politicamente e socialmente (per tacere sugli altri aspetti), non mi pare che l’Italia attraversi uno dei suoi momenti migliori. Forse, ammesso e non concesso che il fallimento calcistico non sia una metafora della crisi italiana, potrebbe essere considerato almeno una sineddoche. Forse è solo una coincidenza. Una cosa è certa: un buon numero di quei ragazzotti, pagati a peso d’oro e vezzeggiati dalla stampa e dalla tifoseria, tutto sembrano, con i loro debordanti e ripugnanti tatuaggi, tranne che dei professionisti degni di stima e di rispetto. Ma vi è di più: mai come in questi ultimi decenni, a partire dal calcio per giungere alla politica, l’Italia è riuscita a battere sulla scena mondiale, per la totale mancanza di stile e di correttezza che ha contraddistinto i suoi più famosi esponenti, ogni possibile primato di sciatteria, se non di antipatia. Occorre farsene una ragione ed impegnarsi ad invertire una tendenza che è, da tutti i punti di vista, semplicemente rovinosa.

  2. @ Orbilius

    1-Ci avevi abituati ad almeno un termine di oscuro significato a commento, che succede? Corso renziano? :)

    2-Il momento politico e sociale italiano può essere metafora del mondiale calcistico dell’Italia? E il tiro a piattello?

    3-In una partita di calcio considerata la tensione agonistica e il fatto che i giocatori hanno molte possibilità di contatto parlare di stile e correttezza è piuttosto arduo, e la nazionale italiana non si è certa distinta in peggio.

    4-Balotelli non è per nulla vezzeggiato dalla stampa e dalla tifoseria.

    5-I tatuaggi perché?

    6-Un sito sul calcio molto bello e ricco di analisi tecniche
    http://www.ultimouomo.com/

  3. A consolazione di chi fosse in lutto per la sconfitta della nazionale di calcio, ricordo che l’Italia è campione del mondo di pallanuoto.
    Nella pallanuoto si fa cento volte più fatica che nel calcio, si guadagna mille volte meno, e si resta ignoti ai più. Tatuaggi rari, piercing assenti, bestemmie e altre escandescenze verbali in partita limitatissime dalla necessità di non sprecare fiato.

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