di Nicoletta Vallorani

 

Pensare obliquo, rubrica a cura di Nicoletta Vallorani

 

Si chiama Abigail.

A 10 anni, ha barattato il suo corpo per un sacchetto di dolci, giurando il silenzio per paura che la parola le costasse la vita. “Ti ucciderò se lo racconti a qualcuno”.

 

Si chiama Abigail, e ha un nome che non è suo, perché apparteneva a sua madre, che è morta mettendola al mondo, e lasciandole in eredità un ricordo bugiardo, un padre ubriacone, uno zio violento e una terra sterile. Abigail viene portata in Inghilterra, costretta a prostituirsi, affidata ai servizi sociali, punita perché si innamora del suo tutore. Nel cuore di tenebra dell’occidente, a Londra, Abigail scrive sul suo corpo le parole che non riesce a dire, se le incide sulla pelle, come Kathy Acker (bianca e adulta, ma ugualmente muta), trasformandosi così nella mappa di un tesoro che non sarà mai trovato.

 

È incapace di arrendersi.

Perciò elabora una strategia di visibilità che purtroppo funziona poco e male, e che alla fine non risulta sufficiente a riscattare il suo desiderio di esistenza. Abigail è chiusa dentro, imprigionata, costretta al silenzio, dimenticata, negata, cancellata, rimossa dalla comunità. È una bambina e poi una donna di cui nessuno si ricorda: immaginaria, ma così simile a tante donne reali. Chissà se ne era consapevole Chris Abani, nel 2006, quando ha pubblicato il suo Becoming Abigail (in italiano, con qualche forzatura, Abigail. Una storia vera). Chissà se sapeva, cioè, quante volte la medesima storia si era ripetuta, sotto spoglie diverse, e in geografie differenti, con un’unica, triste ricorrenza: la vittima è un corpo fragile, culturalmente, socialmente e politicamente ritenuto ininfluente, dimenticato con facilità, celebrato a intermittenza e strumentalmente alla funzione riproduttiva, mai ricordato e più spesso rimosso.

 

«Una donna è fertile o è inutile» ha detto poco tempo fa e senza vergogna un assessore di Castiglione dello Stiviere, la stessa cittadina che ospita un asilo psichiatrico per madri omicide. C’è una contraddizione in questo? Siamo capaci di vederla? Scrive Joanna Russ, nel più famoso dei suoi romanzi: «Non sono colpevole perché ho ucciso. Ho ucciso perché ero colpevole fin dal principio, molto prima di uccidere». Mi domando se la stessa regola valga anche in questo caso. Si uccide per mille ragioni, ma sempre perché non si è trovato un altro modo di comunicare il proprio disagio. Si uccidono gli altri, o se stessi.

 

Si lascia una traccia.

Le tracce sono necessarie. Cappuccetto rosso – non quello che conosciamo, ma l’intraprendente ragazzina reinventata da Angela Carter nei racconti del suo La camera di sangue – non si avventura nel bosco senza il coltello di suo padre. Conosce la strada da percorrere ed è consapevole dei rischi che essa comporta. Arriva, probabilmente, da una storia difficile, perché il suo è «un paese del nord: clima rigido, cuori freddi. Freddo; tormenta; animali feroci nella foresta. È una vita dura (…) Un letto, uno sgabello, un tavolo. Vite grame, brevi, povere». Perciò non è pronta ad arrendersi. Lei sopravvivrà, a dispetto del lupo e del cacciatore, perché ha imparato a non permettere a nessun uomo di sopraffarla.

 

Questo la rende indimenticabile? Non saprei. Dagli interstizi non arrivano mai voci destinate a essere ascoltate. Anche per me, che ho raccontato alle mie figlie le favole di Perrault nella versione femminista di Carter, è poi arrivata la nemesi sotto forma di una scuola materna nella quale quelle versioni coraggiose e inedite sono state bollate come “la favola sbagliata”. Eppure sono colme di speranza, intessute intorno all’immagine di una ragazzina che «è un sistema chiuso e non sa neppure che cosa voglia dire tremare. Ha il suo coltello e non teme nulla».

 

Non so se anche questa storia, la possibilità ipotizzata da alcune scritture femminili e femministe di difendersi da sole, sia una bugia, come i ricordi di Abigail. Però io credo che almeno il ricordo di questa possibilità, di questa forma di coraggio femminile sia necessario. Può darsi che sia una bugia, ma è una traccia, e non deve essere persa. Una possibilità importante, che incute una forma di rispetto per la “creatura sbagliata” che per tanto tempo è stata considerata la donna. Mia nonna, ridendo, diceva che Dio aveva creato prima l’uomo e poi la donna perché sbagliando si impara. Aveva sbagliato tempo e appartenenza, la mia nonna pugliese.

 

Anni fa, insieme a qualche amica e all’associazione culturale Tessere Trame, capitanata da Barbara Garlaschelli, abbiamo realizzato uno smilzo volumetto che si chiamava Mappe sulla pelle (per EditPress, ora ripubblicato sul blog di Sdiario). Nelle nostre voci di scrittrici più o meno note, abbiamo ridato corpo a Anna Kuliscioff, Joyce Carroll Oates, Artemisia Gentileschi, Eleonora Duse, Ella Fitzgerald, Alice Munro, Coco Chanel, Angerla Carter, Alda Merini e la magnifica Virna.

 

È stato utile, poetico, importante: una traccia, appunto, una forma di resilienza all’interstizialità delle donne. Non siamo fragili, in realtà. Ci vogliono far credere tali, ma non lo siamo. Giustificano in questo modo – con la nostra presunta fragilità – la loro smemoratezza, l’invincibile tendenza a sottovalutare la nostra forza, la sopraffazione arrogante che non vince mai davvero.

 

Perciò è importante mantenere le tracce. Non ci dimentichiamo di Silvia Romano. Conserviamo il ricordo di Rachel Corrie. Facciamo tornare a vivere Ilaria Alpi. Cambiamo la storia. Che è fatta di piccoli segni sul corpo, dei quali noi donne sappiamo bene.

 

[Immagine: Silvia Romano].

 

Pensare obliquo, rubrica a cura di Nicoletta Vallorani

 

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1. Indossare le parole, 25.2.2019

2. Suoli senza diritto, 27.3.2019

1 thought on “Negli interstizi della storia. Per Silvia Romano

  1. Certo che di piccoli e grandi segni, e di continue messe in scena, sul/col corpo, le donne sono maestre. Un continuo che scorre parallelo alla scena principale, ma anche un linguaggio autoriferito che poco la scalfisce, anzi la conferma.

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