di Andrea Cortellessa
Ci sono due immagini, all’alfa e all’omega della breve, troppo breve traiettoria di Gastone Novelli (morto ad appena 43 anni, alla fine del ’68, per le conseguenze di un intervento). Nessuna delle due, propriamente, è una sua opera; ma, a specchio l’una dell’altra, di lui ci dicono molto – forse tutto. La prima che viene in mente, in ordine di tempo, è l’ultima. Il 18 giugno 1968 è in programma l’inaugurazione della XXXIV Biennale di Venezia ma, dopo le contestazioni alla Triennale di Milano e alla mostra del Cinema nuovo di Pesaro, il vento del Sessantotto soffia forte pure in Laguna (lo IUAV, occupato da un anno, è l’unica Università italiana che si sia rifiutata di chiedere l’intervento delle forze dell’ordine); sicché, preventivamente, si pensa bene di mandare i celerini. Che il giorno della vernice pestano un po’ tutto quello che si muove: studenti, operai e, non fa mai male, pure qualche capellone che si spaccia per artista ma è sceso in piazza, anzi in campo, insieme a quegli altri giovinastri esagitati. Le istantanee fosche ed elettriche degli scontri, riprese fra gli altri da Ugo Mulas e Gianni Berengo Gardin, sono le immagini più memorabili di quella Biennale. Per protesta, diversi padiglioni vengono boicottati dagli artisti e Favaretto Fisca, sindaco nonché presidente della Biennale, passa in rassegna le pareti vuote. Novelli, insieme al dioscuro Achille Perilli, dà una torsione concettuale alla protesta: le sue tele non le porta via; le rovescia e scrive al verso, a grossi caratteri, LA BIENNALE È FASCISTA. Di lì a poco si replica alla mostra del Cinema. Pasolini si unisce alla rivolta capeggiata da Zavattini: per lui gli artisti vogliono una «forma di democrazia diretta assolutamente nuova per l’Italia e forse per l’Europa». È evidente a tutti, in ogni caso, che non si possa più tirare avanti come in passato. Sintetizza Argan: «La Biennale è morta […]. Non serviva all’arte, ma al turismo veneziano». (Non farà in tempo a vedere, Novelli, il nuovo statuto «democratico e antifascista» della Biennale: che nel ’73 prenderà il posto di quello del ’38, istituendo fra l’altro un ordinamento tematico in luogo della mera rassegna del “nuovo”, nazionalisticamente connotata, ereditata dal 1895. Ma il bel gioco durerà poco: all’indomani del ’78, dopo un paio di edizioni memorabili, la Biennale “militante” di Carlo Ripa di Meana verrà “tornata all’ordine”, come Tutto Il Resto; il resto, appunto, è storia.)
Se la Biennale ’68 è la fine della storia, all’inizio ci sono un altro muro, altre scritte. Il 24 ottobre 1943, all’indomani della strage di Pietralata (quando dieci partigiani vengono massacrati dopo l’attacco al Forte Tiburtino), Novelli diciottenne è fra i rastrellati della SS; tenta di dirottare la loro auto, che finisce contro un albero; loro prima pensano di passargli sopra con un’altra macchina, poi si accontentano di bastonarlo e lo portano a Regina Cœli, dove è condannato a morte, viene torturato alle piante dei piedi, e resta sino alla Liberazione di Roma (a salvargli la vita è la madre austriaca, amica d’infanzia di Hermann Göring). Le lettere dal carcere sono i primi degli Scritti ’43-’68 (raccolti da NERO per le cure discrete ma impeccabili di Paola Bonani, pp. 306, € 25: ad ampiamente integrare una prima loro raccolta, allestita nel 1976 da Perilli in un raro numero monografico della rivista «Grammatica», dai due artisti animata insieme all’amico Giorgio Manganelli); gli ultimi sono quelli sulla Biennale contestata.
Come prima di lui era successo a Dostoevskij (e a Maurice Blanchot), l’attesa dell’esecuzione segna la sua esistenza a venire: «Mi staccai un poco dal mio corpo e mi convinsi che non sarei morto con lui. […] Quella notte mi convinsi di essere immortale. Dal giorno in poi, durante la lunga attesa mi perfezionai sempre più nell’arte del morire» (e «capii ancora una volta quanto sia meglio morire che veder morire»). Questo distacco da sé segnerà in effetti il complesso sistema di cifrature, e parziali decodifiche, cui corrisponde la sua arte matura – come quella di Beckett (per parte sua, in Francia, addetto alla codifica dei messaggi della Resistenza; con lui Novelli nel ’61 avrebbe dovuto collaborare a un libro d’artista, poi mai realizzato, sui testi di Comment c’est). Chi la ricondusse all’etimo delle notti di Regina Cœli fu un altro grande scrittore suo amico, a sua volta reduce di guerra, Claude Simon: che nel ’62 lesse il suo linguaggio, «irriducibile compromesso fra l’innominabile e il nominato, l’informe e il formulato», come sempre scritto su un muro: «in cui graffiti, geroglifici elementari, iscrizioni, scarabocchi, si confondono in un ordine anarchico, si sovrappongono, si cancellano»; l’arte di Novelli è sempre un «ripartire da zero»: «dopo l’inferno, il nulla, la morte di Dio e dell’uomo» (su una serie di virtuosistiche ekphrasis delle opere dell’amico Novelli, Simon ha costruito nel ’97 uno dei suoi ultimi libri – l’unico che ancora attenda una traduzione italiana –, Le jardin des plantes).
Come ha ricostruito un formidabile saggio di Romy Golan (Muralnomad. The Paradox of Wall Painting, Europe 1927-1957, Yale University Press 2009; in francese tradotto da Macula l’anno scorso) la pittura murale era stata, trasversale agli schieramenti politici, la maggior voga degli anni Trenta: dall’allestimento dell’Orangérie con le Ninfee di Monet, nel 1927, sino al trionfo all’Expo di Parigi del ’37 (dove viene presentato, fra l’altro, il mosaico di Sironi Il lavoro fascista; ma dello stesso anno è pure Guernica di Picasso, pure a dimensione-muro), passando per gli exploits di Diego Rivera e compagni. Ma l’“internazionale murale”, sopravvissuta alla catastrofe della guerra, spopola nelle decorazioni architettoniche sino a tutti gli anni Cinquanta: allorché si produce, secondo Golan, un’«inversione dei segni», e in nome di istanze anti-propagandistiche e anti-monumentali pittori e architetti riconvertono il medium (o il meta-medium) “murale” in forme impermanenti, talora volatili, senz’altro più sottili e allusive. Chissà allora che non si possano leggere come una chissà quanto conscia inversione di segni, nei confronti delle retoriche dei totalitarismi, pure le “poetiche del muro” di artisti informali e post- segnati, come Novelli, dall’antifascismo e dall’esistenzialismo (un nome per tutti, quello di Fautrier; Il muro, dopo il racconto omonimo di Sartre ambientato nella Guerra di Spagna, è dell’esistenzialismo un’immagine-chiave).
Non è un caso se fra gli interpreti di Novelli si ricordano soprattutto grandi firme della letteratura: dato il rilievo che la scrittura (o sarà meglio dire, con Barthes su Twombly, la scrizione) riveste nella sua figurazione. Lui stesso paragona la sua opera, nel ’60, a un «lungo diario»; ma «per fortuna non esclusivamente suo»: «un “diario-elastico” […], un filo a piombo senza però il piombo in fondo». Pensando alla pietà oggettiva di un altro suo grande amico, Elio Pagliarani, quella di Novelli è un’autobiografia “oggettiva” (o «inesemplare»: come il Paglia chiamerà il suo Pro-memoria a Liarosa), staccata da sé e sottratta, così, al determinismo finalistico delle autobiografie che danno conto, implacabili, di come si diventa ciò che si è. Novelli sente invece sempre, scrive nel ’59, «una nebbia fitta che lo divide da se stesso»; nel ’64 paragona la sua vita a «un imprevedibile segno di matita senza un inizio né una fine». Se sui suoi “muri” scrive delle parole, insomma, è per tentare di decifrarle lui stesso. Dipingere è «come toccare un muro al buio», tastare quelle pareti oscure come in cerca di un messaggio scritto in Braille: è scoprire «l’imprevedibile, come espressione dei moti più intimi e sconosciuti dell’io», è «come volere scrivere con un alfabeto ancora da inventare». Nel 1958 Novelli pubblica, per le edizioni de «L’esperienza moderna» (la rivista che precede «Grammatica»), un libro d’artista intitolato proprio Scritto sul muro, dove la scrittura è «nel segno dell’anti-nozione»: non designazione oggettiva bensì scandaglio nell’ignoto, che «cerca di raggiungere l’origine delle cose». (Analoga la funzione che Novelli attribuisce al viaggio iniziatico in Grecia, nel ’61-62, i cui riflessi sono in un libro d’artista pubblicato nel ’66 dall’Arco d’Alibert – e già riproposto da Baldini & Castoldi nel ’99 nonché, in traduzione francese, dalla casa editrice di Lione Trente-trois morceaux nel 2015).
C’è naturalmente Twombly – la cui epifania romana, nel ’57, segna una generazione di artisti come forse nessun’altra di quegli anni –, e dietro di lui Klee (fra le novità più interessanti dell’edizione NERO sono le dispense verbovisive approntate da Novelli per il corso di composizione cui venne invitato alla Facoltà di Architettura alla «Sapienza», nel ’66: dove Klee è anche citato ma, più in generale, è immanente alla struttura stessa dell’argomentazione), alle radici della Pittura procedente da segni teorizzata da Novelli nel ’64; ma c’è una torsione auto-analitica, nella sua «grammatica arbitraria» votata a «un valore di ipotesi», che fa pensare pure a un altro reduce della Resistenza che quei traumi ha voluto allontanare da sé, l’hyper-ipotetico Manganelli (quando finalmente vede la luce Hilarotragœdia, giusto nel ’64, Novelli è folgorato da un’anima gemella: e allestisce, per il testo dell’amico, un formidabile set di illustrazioni). Quando Novelli dice di essere «partito per l’Egeo cercando di dimenticare ogni pre-nozione», nell’intenzione di «scoprire un paese come fosse l’Africa», ci si ricorda del Manga che davanti alla «superbia geometrica» del Partenone rimpiange proprio «gli spazi planetari, il fango organico dell’Africa», traumaticamente incontrata nel ’70: la sua «riluttanza alla forma, l’ignoranza di qualsivoglia geometria». La Grecia di Novelli esclude ogni euritmia classica: come quella del suo mentore dei tempi del Brasile, Emilio Villa (dove lo aveva seguito, nei primi anni Cinquanta, al MASP di Pier Maria Bardi), è semmai un’Atena Nera, tenebrosamente pre-classica: l’etimo oscuro inelaborato dietro ogni possibile razionalizzazione Occidentale. Proprio in quanto irreparabilmente «civilizzati», scrive Novelli in una curiosa presentazione abbozzata sempre nel ’66 per le Guides Blues, occorre operare una regressione controllata: «ritornare ai sensi» e «viaggiare» sforzandosi di «assorbire un paese attraverso i pori, GUARDANDO, ANNUSANDO E TOCCANDO».
In fondo Novelli, per tutta la vita, non ha fatto altro che rovesciarsi, alla ricerca di un’ipotesi di sé al di là del muro di se stesso. Su quella superficie scabra e sfuggente che era la sua esistenza, ha scritto tutta la sua opera: a parole e con figure. Nel ’59 riuscì a superare un momento di estremo disagio psichico ricoverandosi in una clinica per la cura dei disturbi del sonno (se ne ricorderà forse, di lì a poco, l’amico Pagliarani nel concepire La ballata di Rudi). All’inizio di quel percorso, come un viatico, compose un piccolo libro d’artista intitolato Dedica e destinato a un solo lettore, se stesso. È qui che si legge: «Scrivere sul dietro di una cosa che si ama è un gesto come tutti gli altri[,] vive perché lo si è fatto e non se può più andare. Anche la gente non se ne può più andare da quello che fa».
Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» il 19 maggio
[Immagine: Gastone Novelli, L’uomo che annega nel proprio sangue (1967), particolare].