di Mario Pezzella

 

[E’ da poco uscito per Rosenberg & Sellier, nella collana La critica sociale diretta da Rino Genovese, l’ultimo libro di Mario Pezzella, intitolato Altrenapoli. Il libro si interroga sul modo in cui alcuni scrittori e registi cinematografici hanno descritto il rapporto tra intellettuali e plebe a Napoli dal secondo dopoguerra a oggi e come esso si sia articolato in alcuni momenti decisivi della storia della città. 

Proponiamo il primo capitolo del libro, intitolato La città senza grazia].

 

1. In una prefazione scritta nel 1994 per una nuova edizione del libro[1], Anna Maria Ortese sembra quasi turbata dalla violenza della sua scrittura di quarant’anni prima, rivolta contro Napoli e gli scrittori suoi amici, che costituivano allora l’élite intellettuale della città: una personale «nevrosi» l’avrebbe spinta a tanto, «un che di esaltato» ella avrebbe proiettato sulle persone e le cose. In effetti – dice la scrittrice – è la realtà in quanto tale, tutta e nel suo insieme, che ella detestava, patologicamente. Dopo aver scritto quel libro, non solo Ortese abbandonò Napoli, ma cambiò anche radicalmente modi di scrittura, affinando lo stile favolistico e le delicate trame per cui è più conosciuta, quasi arretrando di fronte all’orrore una volta intravisto[2]. Tuttavia, la violenza della scrittura di Ortese non nasceva solo da una «personale nevrosi». Forse nessun libro come Il mare non bagna Napoli (a parte il Diario d’Algeria di Vittorio Sereni) rende conto in modo tanto inflessibile dell’umiliazione e della disgregazione seguite alla disfatta della guerra, che il mito della «conciliazione nazionale» ha edulcorato e attenuato, se non addirittura cancellato dalla memoria. Come comprendere il disgusto e l’angoscia del capitolo del libro dedicato ai Granili, La città involontaria, se non come il riflesso nella realtà e nell’anima di chi scrive di un trauma storico collettivo, che pietrifica ogni forma di reazione e di umanità? È vero che il degrado e la miseria della plebe di Napoli hanno radici e storia più antiche: ma in quella forma e con quella radicalità sono indissociabili dalla decomposizione delle forme di vita più elementari, seguita al periodo dell’occupazione e della sconfitta. Non è simile la Napoli del dopoguerra descritta da Ortese alla Berlino distrutta di Germania anno zero di Rossellini? In effetti alcuni dei personaggi caduti nell’inferno dei Granili evocano una vita perduta, come il maestro Cutolo: «Lo guardavo, e mi pareva che quel viso me ne ricordasse un altro. Improvvisamente, ritrovai l’uomo ch’era stato vent’anni prima, quando chi scrive abitava in un edificio sito nella zona portuale della Napoli d’allora, piena di traffici, di bandiere, di vele, di carichi, e dell’allegria del denaro» (84). Ma la sua casa è stata distrutta dalla guerra ed è finito ai Granili. È vero però che in altre parti del libro questa rovina storica assume piuttosto una dimensione metafisica di destino e di fato naturale.

 

Nota. In che misura la cultura italiana dopo il secondo conflitto mondiale ha dato testimonianza del trauma storico della disfatta e della guerra civile? Come ha notato Claudio Pavone[3], essa ha preferito in molti casi la rimozione e l’oblio, privilegiando la grande immagine di riscatto offerta dalla Resistenza e trascurando la differenza esistente tra il Nord e il resto del paese. Se i partigiani del Nord, nella realtà, avevano ben presente lo stato di umiliazione e di oppressione contro cui combattevano, nella conciliante ricostruzione togliattiana e democristiana degli anni Cinquanta la Resistenza perde il suo carattere di rivolta politica e diviene l’atto di fondazione di una Unità del popolo italiano, superiore a ogni scissione e divisione di classe. L’immagine mitica occupa il posto della dialettica reale. In quel contesto storico, una naturalis oboedientia, una servitù volontaria, permette la rimozione dei traumi storici del fascismo e della guerra perduta: la cultura italiana viene ricodificata in termini di conciliazione e unità nazionale[4] e il cinema svolge in questo una funzione importante.

 

Giustificandosi con una personale nevrosi e generalizzando il suo rifiuto fino a farne una metafisica negativa, Ortese vorrebbe mitigare la ripugnanza idiosincratica e viscerale che percorre potente, scandalosa, le pagine del Mare. Un tale sentimento nasce da un vero e proprio «orrore della plebe». L’amorfa, inespressiva, cupa gente napoletana si oppone come polo antagonista al «mare» di cui dice il titolo, già nella serie di racconti che fanno da corona al testo principale[5]: «Che facevano, dove andavano? Uscivano e rientravano nei buchi…Tanti buchi, tante formiche. E intorno, nella gran luce, il mondo fatto da Dio, col vento, il sole, e laggiù il mare pulito, grande…» (30).

 

Questa avversione si articola in volute sempre più profonde fino a toccare il vertice nel Silenzio della ragione e il suo oggetto non è la realtà in generale, come afferma Ortese nella Prefazione, ma proprio la miserabile plebe napoletana, quasi un aborto di natura. I disastri della guerra e i misfatti della classe dirigente della città si trasfigurano nel mito di una catastrofica storia naturale. Come ha notato Raffaele La Capria, assumendo il tono del reportage e della denuncia sociale, la narratrice sembrerebbe presentarsi nelle vesti di chi compatisce e si accora per le sofferenze della plebe; ma dietro la maschera della pietà è palese l’avvilimento del suo oggetto, sotto il livello dell’umano: «…Si può paragonare un bambino che gioca a un topo? E dei bambini a dei vermi? Perché no? È stato già fatto, l’abbiamo già letto. E si può dire che i loro sorrisetti erano «vecchi e cinici»? Questo è già più insolito»[6].

 

Con un tono simile a quello di Celine, quando descrive gli uomini in rovina della fine della seconda guerra mondiale, Ortese parla dei poveri di Napoli, e la guida un furore, uno sdegno, un’idiosincrasia quasi metafisica, sì che il tono apparente del reportage giornalistico si rovescia e si esalta in un allucinato e barocco espressionismo: «…Una razza svuotata di ogni logica e raziocinio s’era aggrappata a questo tumulto informe di sentimenti, e l’uomo era adesso ombra, debolezza, nevrastenia, rassegnata paura e impudente allegrezza…Qui il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del soprannaturale» (67). La sessualità non è qui in alcun modo una forza vitale: è una potenza ottusa, descritta da Ortese poco meno che come un’entità demoniaca.

 

2. La contrapposizione fra gli uomini (se così possono ancora chiamarsi) e il mare è intensificata da quella col cielo, «di un azzurro cupo, così liscio e splendente da sembrare falso. C’era una bellezza enorme nell’aria, quella mattina, e al confronto le case e la vita degli uomini si rivelavano stranamente misere, logore» (44). Tale opposizione fa parte di quella, più vasta e generale, tra la natura e la storia o la ragione: queste ultime entrambe assenti da Napoli. La città sembra infatti dominata da una Grande Madre mitica, onniavvolgente e dissolutiva, che – con la sua stessa fascinazione – impedisce il differenziarsi degli individui e degli eventi, ostacola la realizzazione di qualsiasi forma effettiva di modernità. D’altra parte, l’archetipo trova una sua profana incarnazione anche nelle famiglie reali e nelle loro relazioni di malnascosta violenza.

 

In Interno familiare la madre di Anastasia ha tutta l’apparente bonomia e cordialità che caratterizza lo stereotipo della «brava donna» napoletana. Dietro questa maschera cova un risentimento feroce verso la sua stessa figlia. «Osservando la perfetta, inalterabile bruttezza di Anastasia» ella prova «un senso oscuro di compassione e di festa, di rimorso e allegria» (48). Quando pare che la figlia mostri amore per un uomo, questo suscita in lei profonda avversione: «Aveva finito presto d’essere giovane, lei, e non perdonava facilmente chi voleva sottrarsi alla legge che lei aveva subito» (49); e così si impone ad Anastasia come la voce di un destino impersonale. La morte di una sua amica «commoveva e insieme rallegrava la Finizio che nella sua grama esistenza traeva dall’avvilimento degli altri un’oscura consolazione» (51). Infine, ella distrugge con sapiente crudeltà le speranze della figlia: «Mortificarla, doveva, ecco tutto, mortificarla e indirettamente, con delicatezza, richiamarla ai suoi doveri» (52), reprimendo il «torrente di collera», che invece quasi la soffoca, nel vedere il tentativo di Anastasia di sfuggire al suo destino di servitù familiare. Ed è sempre la madre a enunciare la legge segreta di questo mondo chiuso e senza speranza: «Servire, servire fino alla morte, ecco quanto ci rimane. E tutto quanto facciamo è per gli altri», riaffermando il masochistico vittimismo che le permette in realtà di ridestare il senso di colpa della figlia e mantenere il suo dominio. Forse l’avversione per la natura, accusata leopardianamente da Ortese, dilata a dimensioni cosmiche questa immagine di madre soffocante e terribile, che ha una verità mitica ma anche un indice storico, e segna il patologico passaggio dalla famiglia tradizionale del Sud al suo disfacimento nella modernità.

 

La natura splendida, che fa parte del mito consolidato e della retorica di Napoli, è dunque maledetta: questo rovesciamento di accento è operato non solo da Ortese, ma dai migliori scrittori napoletani del secondo dopoguerra che, poi, avrebbero a suo parere tradito la propria missione demistificatrice. Essi parlano, per esempio, di «sifilide in luogo di sentimento», e – invece dell’oleografica allegria – di una «convulsa desolazione, il lamento perduto nell’incanto e l’incoscienza della natura, dominato e succhiato continuamente da questa madre gelosa» (112).

 

La critica dell’immagine favolosa della natura felice, così avversata da Ortese, procede però essa stessa da un mito, a cui tenacemente ella crede: quello archetipico di una Madre dissolutrice, causa di ogni male, nemica della ragione, la quale sarebbe invece fonte di salvezza: «Esiste, nelle estreme e più lucenti terre del Sud, un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione; un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni» (117). Prende forma in tal modo una retorica dell’abisso e della deformazione irrimediabile, come se i mali della storia potessero ridursi all’influsso di costellazioni astrali o profondità telluriche: «Qui, il pensiero non può che essere servo della natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell’arte». La negatività è sottratta alla storia e ai suoi contraddittori poteri, per essere riversata miticamente sulla Madre, matrice di morte e autodistruttività: «È la natura che regola la vita e organizza i dolori di queste regioni. Il disastro economico non ha altra causa. Il moltiplicarsi dei re, dei viceré, la muraglia interminabile dei preti, l’infittirsi delle chiese come dei parchi di divertimento, e poi degli squallidi ospedali, delle inerti prigioni, non ha un diverso motivo» (118). È per questo che negli occhi del giovane Compagnone c’è «come un tremito di cieli infranti» e la città è «una meraviglia senza coscienza» (172). Parole che ricordano quelle del principe di Salina al cavaliere Chevalley, nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa[7].

 

3. L’ottundimento inespressivo della plebe, priva di linguaggio e coscienza, sembra contaminare gli intellettuali, «amici» di Ortese, che li accusa di essersi fatti riassorbire dalle oscure viscere della città. Più che figure di uomini reali, essi diventano «tipi» e maschere della cupa tragedia che la scrittrice vede svolgersi nelle strade e nelle case. Domenico Rea, per esempio, pare un Pulcinella orroroso e ripugnante: «Aveva una di quelle faccette terribili, sforacchiate da vaiuolo, come s’incontrano nella plebe dov’è più forte, con due occhi neri, solo pupilla dietro le lenti, acutissimi» (140). È la faccia di un lazzaro o di un sanfedista, come ci viene tramandata dalle stampe di fine Settecento. Il volto di Compagnone rivela una lotta destinata a essere persa tra «nobiltà e gentilezza» e «disperazione e perfidia». Essi non sanno staccarsi dal fondo primitivo e barbarico della città, per accedere alla superiore ragione «europea»; quanto alla possibilità che i «senza parte» stessi possano prendere voce e parola ed uscire dal loro mutismo, che già ora forse possegganno un contorto linguaggio per esprimere la propria condizione, è cosa – per Ortese – inimmaginabile. Essi naufragano in un cupo delirante movimento senza direzione né scopo, che è la vera immagine della celebrata «animazione» di Napoli. Moto che conduce ripetutamente al nulla: «…Un che di eccitato e straordinario, come fosse accaduto qualcosa – un assassinio, un matrimonio, una vincita, la fuga di due cavalli, una visione – ma poi, accostandosi, era nulla. La plebe dall’informe faccia riempiva questa strada meravigliosa…mischiandosi alla folla borghese, come un’acqua nera, fetida, scaturita da un buco nel suolo, correrebbe, ingrandendosi, su un terrazzo ornato di fiori» (152). Sui traumi e sulla violenza della storia, che forse potrebbero dare qualche ragione di tanto furore inespressivo, Ortese non si sofferma. Il suo quadro mostra un martirio barocco, «spagnolesco e cattolico»[8], pieno di corpi martoriati, spasmi e frenesie, ma senza nessuna luce di redenzione.

 

Eppure, nonostante il presupposto mitico a cui sembra credere la scrittrice, la Napoli descritta nel libro porta ancora i segni del trauma recente della guerra (per non parlare di quelli più antichi e meno visibili). I Granili, descritti come un inferno popolato da larve, sono in larga misura pieni di sfollati del periodo bellico, che hanno perso casa e lavoro. La natura, così odiata da Ortese, sta per essere distrutta dalla grande speculazione edilizia laurina, e gli intellettuali suoi amici sono disperati anche, probabilmente, per il deludente comportamento del Partito Comunista a Napoli, afflitto dallo stalinismo interno e incapace di battersi con decisione contro la classe dirigente della città[9]. Il laurismo fu certo un fenomeno di seduzione populista della plebe, coinvolta in un piano speculativo e finanziario, di cui era vittima più che soggetto. Le offese di cui Ortese incolpa la natura e il terreno vulcanico, il mare e la luce, derivano invece da una storia crudele di dominio.

 

4. La frattura fra popolo e borghesia è – per Ortese – irrimediabile. Gi intellettuali napoletani vivono l’inespressività della plebe come un’oscura smentita della loro stessa esistenza. Possono reagire mimetizzandosi nei suoi stessi gesti, in una imitazione più o meno edulcorata: quella di Domenico Rea. Possono scatenarsi in scettico furore e catastrofico disincanto, come Compagnone o la stessa Ortese. Ma più spesso, e più generalmente, assumono una patina di indiffferenza anestetizzante e passiva: «…Sapevo che la sua indifferenza era controllo. Tutti erano indifferenti qui, quelli che desideravano salvarsi. Commuoversi, era come addormentarsi sulla neve. Avvertita dal suo istinto più sottile, la borghesia non smetteva di sorridere, e urtata continuamente dalla plebe, dai suoi dolori sanguinosi, dalla sua follia, resisteva pazientemente, come un muro leccato dal mare» (156). Questa terribile scissione ha un preciso indice storico, si è creata lentamente nel tempo e si è approfondita dopo il disastro dell’unificazione nel 1860: quasi che su questo terreno ormai nulla potesse nascere di fecondo, gli intellettuali napoletani oscillano tra un fervido idealismo privo di radici e il furore astratto della delusione, come già aveva notato Cuoco. Di qui deriva anche il diffuso senso di inferiorità, rispetto a quella che viene percepita come la «vera», la «grande» storia delle culture più settentrionali, appassionatamente conosciute, tradotte e ammirate.

 

La scissione tra plebe e borghesia, la costituzione stessa di un sottoproletariato metropolitano, la separatezza e la debolezza degli intellettuali, sono un prodotto del sistema di dominio che si è affermato a Napoli da almeno due secoli, trovando poi una delle sue peggiori espressioni nel governo laurino–fascista degli anni Cinquanta. Ortese non incolpa gli uomini e le classi, che hanno messo e stanno mettendo le «mani sulla città», accusa la potenza mitologica del fuoco sotterraneo: «Tollerato era l’uomo, in questi paesi, dall’invadente natura, e salvo solo a patto di riconoscersi, come la lava, le onde, parte di essa. Da Portici a Cuma, questa terra era sparsa di vulcani, questa città circondata di vulcani, le isole, esse stesse antichi vulcani; e questa limpida e dolce bellezza di colline e di cielo, solo in apparenza era idillica e soave. Tutto qui sapeva di morte, tutto era profondamente corrotto e morto…» (156)[10]; ma la distruttività dei vulcani – come oggi è divenuto evidente – è intensificata dalla fitta speculazione edilizia insorgente ai loro piedi. Così la corruzione della storia è miticamente spostata sulla forza primordiale della natura, la stessa che in altri tempi, nelle stesse terre, aveva consentito e favorito il sorgere di civiltà «mediterranee» di grande splendore.

 

Raffaele La Capria ha replicato con una critica – temperata dall’affetto – alla nuova prefazione che Ortese ha scritto al libro nel 1994. A parte i riferimenti personali a Compagnone e Rea, discutibile sarebbe l’atteggiamento della scrittrice verso i plebei di Napoli, l’odio velato dalla maschera della commiserazione. Per lui, la borghesia della città è ferita dai traumi della storia, in primo luogo da quello del 1799, quando la violenza dei Sanfedisti distrusse un’intera generazione di «illuminati» rivoluzionari. Per nascondere, senza guarirla, questa ferita, sarebbe stata edificata nel corso dell’800 l’edulcorata retorica della «napoletanità»[11].

 

Per La Capria il trauma che ha spezzato la vita di Napoli è giunto dalla storia, non dalla natura, mentre Ortese vive «esattamente nello stato della borghesia anteriore alla ‘napoletanità’, rivive la vicenda non conclusa di quella borghesia di fronte alla plebe, risale al momento fatale in cui fu bloccata la storia di una città»[12]. D’altra parte, proprio la riscoperta angosciosa di questo orrore primitivo ed arcaico, così volentieri dimenticato, conferisce al libro la sua inquietante potenza e cupa grandezza.

 

Forse la migliore risposta a questa visione mitica di Ortese[13] è stata data dallo stesso La Capria, molti anni fa, nella sceneggiatura del film di Rosi Mani sulla città. Per giustificare il crollo di un palazzo costruito con materiale di scarto, un politicante del consiglio comunale del tempo (con maggioranza laurina in procinto di divenire democristiana) si lancia in una grottesca evocazione del terreno bucato e tufaceo, della distruttrice natura del suolo che fa rovinare ogni cosa[14].

 

Con l’alibi della natura, un sistema di dominio scriteriato e mediocre viene così giustificato, paradossalmente elevato e nobilitato a Destino.

 

5. L’immagine della plebe napoletana è presente anche in un poemetto di Luigi Compagnone[15], uno degli amici–nemici descritti con penna velenosa da Ortese nel Mare non bagna Napoli: i versi sembrano quasi una risposta tardiva al libro dell’amica di un tempo. Una condizione sospesa, un’assenza di storia, accomuna questa generazione di scrittori. Anche per Compagnone sembra che l’espulsione dalla storia dipenda da una razza dannata: Una plebe triste e furiosa abita la strada…/Un tempo solo,/e due razze, io e loro, inconciliabili. La plebe è l’estraneità all’umano, priva di linguaggio, di umanità e di storia, inerte compattezza naturale: vive accanto al giovane borghese intellettuale, ma in realtà li separa un abisso incolmabile, quello che può separare due razze, di cui una è infinitamente inespressiva e inferiore. Questa convivenza forzata è intollerabile, perché immerge chi vorrebbe «fare» storia, modernità, in un magma da cui non riesce a districarsi e che gli è ripugnante. L’estraneità è tuttavia solo il primo superficiale sentimento, che nasconde una collosa e inconfessabile identità[16].

 

L’essere opaco della plebe (implicitamente legato a quello del fascismo, il poemetto è ambientato alla fine degli anni Trenta) comportà l’immobilità del tempo, o un tempo congelato, fuoruscito dalla dinamica storica: La vita è un moto perpetuo/ di membra e urla e voci, che mai riesce a fermarsi. Compagnone ripropone il mito negativo di una massa che non diviene popolo, la plebe selvaggia dei lazzari, quella stessa che avrebbe spento ogni tentativo di modernizzazione della città, a partire – esempio divenuto quasi canonico – da quello della Rivoluzione del 1799: Una legge governa questa plebe,/che non comprendo. Una esistenza immediatamente naturale non si eleva oltre la furia del coltello, la feroce avarizia, il sesso vissuto come sprofondamento in una torva religione. Si tratta di una legge ancestrale, arcaica, di cui chi scrive non comprende né la struttura né i singoli elementi, che precede indefinitamente l’epoca delle leggi scritte e affonda nella prestoria, in un’origine caotica, senza figura, mero vuoto di senso. Abisso del Reale, direbbe Lacan, che si apre al di sotto di un ordine simbolico fragile e inconsistente, in cui la nuda vita si presenta come un magma ripugnante e malefico, governato da divinità che Bachofen avrebbe definito eteriche e palustri. E tuttavia in questi versi c’è già una prima ammissione di legame con l’oggetto dell’odio: è pur sempre il mio popolo, cerco pur sempre, anche se invano, di comprenderne la legge. Pare che sia comunque una realtà o un luogo da cui non posso semplicemente sottrarmi per mia volontà o fuggire.

 

Il poeta sente di vivere in «una colonia», «sotto un cielo coloniale»[17]. I colonizzati sono privati della propria identità individuale e di popolo. È una percezione oscura, perché il «colonizzatore» non è chiaramente riconosciuto. Sono gli Americani, che – secondo Ermanno Rea – hanno privato Napoli del proprio porto commerciale? I governi dell’Italia unita, che hanno mal governato l’unificazione? O ancora quelli precedenti eterodiretti da poteri stranieri? Tutti i colonizzati, in qualsiasi parte del mondo e della storia, perdendo la propria cultura e il proprio ordine simbolico si trasformano in criminali, lazzari e feccia della terra: e se hanno un modello di identità è quello importato e dominante del colono, che imitano in forma deteriore nella condizione di servi, di Pulcinella dei signori[18].

 

6. Una cultura magica in cui violenza/amore favola miracolo utopia sociale profezia/convergono nel grido che lacera/ la giovinezza reale e l’irreale maturità. Questi versi segnano un punto di cesura e di svolta nel poema: la cultura magica non può che essere originariamente quella della plebe (in particolare quella proveniente dalle terre contadine del Sud), la quale a contatto con l’urbanizzazione selvaggia e la modernità sregolata della città degenera e si corrompe nell’inespressività e nella mancanza di linguaggio. L’amore la favola il miracolo l’utopia e la profezia sono presenti in quell’incontro straordinario di dialetto, cultura popolare e cultura alta che caratterizza Lo cunto de li cunti, il capolavoro di Basile. Per entro alla storia notturna, come nei racconti di Basile, non ci sono solo orchi e oscure minacce; permangono resti – per quanto esigui – di un mondo incantato, che sopravvive alla spersonalizzazione della plebe, fascini, verdi o dorati, e si congiungono alla sparuta margherita dell’Utopia, che insiste nell’animo del poeta giovane, o anche al riconoscimento di una patetica, oscura dignità, che persiste nei gesti del padre umiliato e immiserito.

 

La plebe attuale – così minacciosa e muta – è l’erede di un ordine simbolico sconfitto e distorto: non per colpa della natura matrigna, ma ad opera dei potentati storici che hanno sfigurato la vita della città e l’hanno trasformata in una eterna «colonia». La «cultura magica» sotterranea e negata dalla modernità è quella studiata da De Martino e miticamente e poeticamente intuita da Pasolini. Essa contiene anche elementi di utopia sociale e profezia, non solo favole e miracoli; forse si può immaginare un «progresso» storico diverso, dalla cultura magica a quella industriale tecnica moderna, un multiversum, che recuperi alcuni tratti comunitari degli ordini simbolici premoderni. Nelle società arcaiche e magiche descritte da Clastres[19], per esempio, ci sono germi utopici di una società senza stato, che non sarebbe incompatibile con ogni modernità, ma solo con quella configurata dal capitale.

 

L’inespressività della plebe si manifesta in una letterale mancanza di o assenza dal linguaggio, anche il dialetto è perduto, deformato, ridotto a un ammasso di segni o suoni che non giungono ad articolarsi, dopo la disgregazione dell’antica «cultura magica», non sostituita e non elaborata: lacerti di parole, fumi di vocali e sillabe/al di sotto d’ogni lingua conosciuta: al di sotto, perfino, del dialetto. Però a questo punto del poema Compagnone ha già portato il suo sguardo oltre il disprezzo e l’estraneità: questi miseri resti di linguaggio sono nonostante tutto autentici segni, forse,/di un’impenetrabile semantica/di una storia notturna, senza tempo. È la cultura del mondo magico contadino, del suo comunitarismo arcaico e distrutto, che scorre sotto l’apparenza devastata della plebe: e si coagula con quella dei mestieri, con i vinti e i caduti da una situazione sociale più alta (artigiani, piccoli commercianti, piccolo borghesi), che non hanno retto ai processi di accumulazione primitiva del capitale e sono precipitati nell’amorfia del sottoproletariato. Così i gesti un tempo dotati di significati rituali sono decaduti a superstizione: i lari sono sostituiti da piccoli cimiteri familiari pieni di vecchi lignificati, gli storpi/i posseduti da immagini, i licantropi: le profezie sono divenute proverbi predisposti all’accettazione del presente; la processione sacra con i suoi ricordi dionisiaci porta ora in giro niente più che una nana dalla vecchia faccia rugosa buona a estorcere elemosine. Sono questi i segni o i sogni deformi di un’antica storia notturna, ormai precipitata in profondità psichiche inconsce, esclusa da quella diurna dei vincitori.

 

Su questo sfacelo, come sostiene anche La Capria[20], si stende placida e conciliativa la napolitudine dei cantori di qui/malinconici sempre e stabilmente commossi. L’oblio dei traumi storici reali, la rassegnazione al fato, condita di lazzi e pittoresca intelligenza, diviene il mito soffuso che contribuisce alla perpetuità del dominio, allo status di città–colonia. In questa recita autocelebrativa, convivono borghesi e plebei, succubi ai potenti. Questi conoscono uno storpio latino di oppressori e di bari che si oppone all’oppresso dialetto. Compagnone insiste su questa configurazione linguistica del potere, che si afferma sulla mancanza di logos dei senza parte, grazie all’asimmetria tra chi comunica ordini e chi li riceve. Ma a Napoli, questa dissimmetria linguistica tra i dominati e i dominatori assume una connotazione particolare, che non ritroveremmo facilmente altrove: per meglio frodare gli oppressi, i potenti imitano e strumentalizzano il linguaggio degli inferiori: vi frodano, essi, simulando il vostro stesso dialetto, quel parlarvi da pari a pari/strumentalizzando i vostri fonemi/i vostri lazzi, le vostre bestemmie. Come a dire: noi e voi siamo fratelli. Questo magma distorto, questa falsa fraternità è l’essenza della napolitudine, con cui si ottunde e si sfigura il desiderio di rivolta e si compone ossequiosa e felpata…un’avida famiglia ben germogliante fatta di scrittori, camorristi, avvocati, ingegneri, commercianti o clubman che compongono il torbido legame connettivo dei ceti dirigenti della città, sempre al di là e al di sopra di ogni conflitto, di ogni scissione reale, nella pratica umiliante del compromesso: oggi io a te, domani tu a me.

 

Il dominio e i conflitti reali subiscono una trasfigurazione mitica, in cui il male stesso viene innalzato alla dignità di un destino tragico, contro cui è vano combattere. Non sono uomini, ma oscure potenze che condizionano la miseria e l’oscurità, un’antica città sotterranea, con grotte/cunicoli, meandri che non finiscono mai./Una città profonda, tenebrosa, ma vera,/sotto quella apparente, immaginaria, irreale…/Vi sono invisibili Mani, laggiù/si riunirebbero a eguali scadenze/intorno a quei gelidi fuochi/per impagliare quietamente il nostro destino. In questa visione mitica del destino si incontrano l’antica cultura magica della plebe (piramidi arcaiche di teschi) sradicata dal suo contesto originario e la rassegnata raffinatezza intellettuale regressiva, la stessa che troviamo nelle parole del Principe di Salina[21]. Ma accusare di responsabilità in tutto ciò la natura è Una vile leggenda!…i Mani che ci governano/stanno con noi, tra noi, ben visibili/e identificabili nelle loro menzogne. Qui la risposta ad Ortese sembra quasi esplicita. La mitologia regressiva del destino naturale infausto estrae e deforma un lacerto dell’antica cultura magica della plebe, quello più legato al culto dei morti e delle profondità della Terra Madre, e lo trasforma in mito culturale, strumentalmente utile a giustificare il dominio di classe presente. È un caso esemplare di quella reversione negativa dal mito genuino al mito strumentale, su cui ha scritto pagine di grande chiarezza Kerenyi, a proposito della ripresa della mitologia pagana nella Germania nazista[22].

 

L’umile gesto delle donne che dinanzi a quei teschi (quelli raccolti nelle antiche catacombe sotterranee di Napoli) accendono a volte un piccolo lume rivela oggi una profonda ambiguità o ambivalenza che dobbiamo comprendere: il gesto racchiude una pietas antica, ma è anche stravolto e sviato in superstizione disposta ad accettare la soggezione presente. La venerazione dei numi familiari – la sua antica origine pagana, il suo persistere nei secoli, anche attraverso il sincretismo col cristianesimo – può decadere nel culto di un’ignota testa di morto, per grottesca metamorfosi. Ma dal gesto deformato, la comprensione critica dovrebbe risalire a quello originario: non per riproporne l’impossibile autenticità, ma per comprendere il mutare del suo significato, nelle faglie di tempo che compongono l’essere presente. Né rifiuto modernistico e illuministico, né esaltazione acritica e irrazionale, dunque: ma integrazione della storia notturna (o divenuta tale) in quella diurna, per salvarci dalla scissione psichica lacerante che incrina il nostro ordine simbolico. Ciò richiede anzitutto di ridare logos e parola ai senza parte che l’hanno perduta; questa parola antica e soffocata si incontrerebbe con quella critica e diurna, riemergendo dalla notte.

 

O altrimenti, come accadrà di lì a poco ai protagonisti del poemetto, una modernità deturpata, in una tragica dialettica dell’illuminismo, si fonderà ai vizi antichi e la razionale alta demenza di Kafka (per meglio dire, la demenza in cui precipita l’alta cultura europea, che Kafka ha annunciato) si rovescerà e si salderà all’antica nevrosi plebea, in forma distruttiva. Pure sarebbe possibile una magia della non storia, fatta di frammenti di sogno, ove la fine apocalittica convive con la possibilità utopica: sogni in cui le antiche strade spagnole sono prese in un vortice distruttivo, come un pianeta ormai vicino ad estinguersi, l’intero quartiere è appeso come in un quadro di Chagall colla corda al collo a un fanale: eppure questa immagine lugubre è contigua a quella dell’Isola Fortunata, mescolanza dei tempi, sabato della vita, dove peraltro la redenzione si configura in forma assai umile e profana come festa dei frutti di mare, a disposizione dei musi proletari…ogni sera, ogni sera, senza mai fine a questa terrena e corporale beatitudine.

 

Nota 1. Il termine plebe ha una connotazione negativa e una lunga storia dietro di sé. Come ricorda J. Rancière, rievocando il celebre apologo di Menenio Agrippa, i plebei non sono uomini né cittadini, sono «senza parte»: «…Costoro non parlano. E non parlano perché sono esseri senza nome, privi di logos, ovvero di iscrizione simbolica nella città». Vivono al livello di una nuda vita, inespressiva e muta, «ridotta alla sua facoltà riproduttiva. Chi è senza nome non può parlare»[23]. Questa almeno è l’immagine che della plebe hanno i potenti, i detentori del logos, i patrizi. In effetti, questa naturalità senza storia è per Rancière un effetto del dominio, in cui cova un germe e una possibiità di rivolta: anche solo per comprendere un ordine, il plebeo deve intendere lo stesso linguaggio, imparare ad usarlo, e questo innesca un processo di autocomprensione che può portarlo a capire la posizione reciproca di sé e del padrone. Se questi si irrigidisce in modo unilaterale in difesa del suo potere, è possibile che i senza parte approdino a un linguaggio più universale e comprensivo di quello dell’avversario, incarnino una ragione sociale più ampia di quella dei signori. Rancière ricorda il processo ad Auguste Blanqui nel 1832, che, dovendo indicare la sua professione, rispose «proletario», un soggetto a cui non veniva riconosciuta identità giuridica. Proletario era colui che nulla ha e nulla significa. Rispondendo in quel modo, Blanqui voleva invece affermarlo come un senza parte che chiede di esistere e di veder riconosciuti i suoi diritti, un «plebeo» che esce dalla sua condizione di mutismo e di soggezione e si afferma come capace di Logos.

 

In questa prospettiva non c’è vera antitesi tra la «classe proletaria» e la plebe, distinzione su cui invece ha insistito a lungo la tradizione marxista. La plebe non è una classe in sé che attende di divenire per sé, o un resto amorfo del sociale, vile e malleabile ad ogni manipolazione, non è neppure uno «stato» o un «ceto» autonomo e stabile: la sua verità è nell’uscire da sé, nel diventare altra da ciò che è, nel trascendere la propria condizione di mutismo inespressivo per prendersi la parola, negata e sottratta: «La plebe designa un evento…il passaggio da uno statuto infrapolitico a quello di soggetto politico…il suo statuto infrapolitico è legato al fatto ch’egli [l’appartenente alla plebe] sia privato di parola pubblica (logos) e ridotto alla semplice espressione animale del piacere e del dolore (phoné)»[24]. Se la richiesta non viene accolta, se la presa di parola fallisce, allora davvero la plebe può rivolgersi come un’onda anomala contro la città che la respinge, e reciprocamente apparire ai detentori del potere come l’ «altro», il fautore di ogni male: «L’annullamento di quei modi politici di apparenza e di soggettivazione del conflitto ha come conseguenza la ricomparsa brutale, nella realtà, di un’alterità che non trova più il suo luogo simbolico…La divisione, esclusa dallo spazio di visibilità in quanto arcaica, ricompare sotto la forma più arcaica ancora, della nuda alterità»[25]. Il trauma a cui è negata ogni integrazione nell’ordine simbolico, riemerge come reale caotico, in una pulsione dissolutiva di pura violenza.

 

Nota 2. Nella tradizione marxista la «classe» dotata di soggettività e unità, sorta di aristocrazia degli oppressi, è stata opposta alla plebe, considerata con un certo disprezzo come un sottoproletariato manipolabile dal fascismo e dal populismo. Questa distinzione è troppo rigida. Il capitale produce simultaneamente, continuamente, lavoro salariato e plebe e determina una trasmigrazione continua tra le due condizioni, secondo la curva dominante del suo ciclo. L’esistenza dei senza voce e dei senza parte non è un accidente della storia, o una sua fase arretrata, destinata a svanire con l’estensione universale del lavoro produttivo: come il capitale – nelle più diverse parti del mondo – non può fare a meno di ricorrere alla violenza per nulla estinta dell’accumulazione originaria, così crea – strutturalmente – l’essere della plebe, l’ombra perturbante e minacciosa, in cui – ad ogni crisi – minaccia di sprofondare anche il lavoratore più qualificato. Il tempo che porta dalla plebe alla classe non è lineare, ma curvilineo, regressivo e spezzato. L’inespressività miserabile – se considerata come un dato di natura, come prossimità alla condizione animale – non è che un mito: essa è prodotta dalla distruzione di codici simbolici preesistenti o di una soggettività prima vitale. Il caos della plebe – in cui precipitano i frantumi di classi decomposte, culture in declino, popoli vinti – è esso stesso un prodotto dello sviluppo del capitale. I senza voce hanno perso una parola che possedevano, sono stati espropriati della identità originaria, e non hanno accesso al linguaggio astratto della modernità del capitale.

 

Plebe e proletariato non sono corpi alieni o nemici: il secondo è stato esso stesso senza parte prima di acquisire soggettività e identità simbolica e rischia di ricadere nella primitiva condizione, ad ogni sconfitta. L’operaio diviene plebe ogniqualvolta la sua giornata lavorativa non consente altro che la nuda riproduzione della sua forza lavoro o meno ancora di essa, come l’artigiano soffocato dall’usura o l’immigrato costretto a un lavoro schiavile. Se «plebe» non designa uno status sociale, ma il suo non essere, non è nemmeno qualcosa da cui si esca definitivamente e per sempre, una volta per tutte, quando un processo di soggettivazione è iniziato: la parola può essere persa, chi ha avuto accesso al logos può nuovamente venire espulso da esso. Nella plebe ricadono – nel regime del capitale – tutti coloro che sono stati esclusi dalla produzione o ad essa partecipano in forme precarie, privi di cittadinanza effettiva. Il capitale, nella sua storia passata e presente, è un processo attivo di privazione di diritti, di soggettività e di parola; interi ceti sociali che possedevano un «saper fare» specifico precipitano a causa sua nell’amorfia della plebe: come gli artigiani inglesi alla fine del Settecento, risospinti – dopo la distruzione del loro statuto simbolico e sociale – verso un non essere di compattezza e mutismo[26].

 

La distruzione delle culture comunitarie precedenti allo sviluppo della modernità deve necessariamente risolversi nella sottomissione senza riserve all’astrazione del capitale? Il ricordo di un bene comune scomparso non potrebbe comporsi in forma inedita con la resistenza alle forme moderne di dominio sul lavoro? La plebe diviene soggetto andando oltre di sé, ma anche grazie alla memoria risorta di un suo passato distrutto: questo è forse il nucleo resistente di quel che M. Abensour ha definito come il suo carattere intraitable, non–trattabile, non negoziabile. Prossima al nulla, la plebe può però riconoscersi come forza di evasione e di sospensione della partizione presente dell’essere sociale. Come ha detto Foucault, «c’è sempre qualcosa, nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli individui stessi, che sfugge in certo modo alle relazioni di potere; qualcosa che non si può definire come materia prima più o meno docile o restia, ma che è il movimento centrifugo, l’energia inversa, la via di fuga (échappée[27]. L’esistenza dei plebei senza parte è sempre in bilico tra l’esserci ancora e di nuovo e il non–esserci più, che ha smarrito ogni senso della propria presenza: «La plebe forse non esiste, ma c’è della plebe, c’è plebe nei corpi e nelle anime, ce n’è negli individui, nel proletariato, ce n’è nella borghesia, ma con estensione, forme, energie, irriducibilità diverse»[28].

 

 

Nota 3. Nell’immagine che se ne fanno i padroni, l’esistenza della plebe è inespressiva e perturbante, contrapposta a ogni discorso articolato. La voce della plebe è occlusa nella elementarità del bisogno, non accede a un desiderio simbolizzabile e tanto meno al pensiero. Massiccia, compatta, amorfa nella sua fusionalità senza parola, la plebe è regressione all’arcaico: nella visione dei potenti essa è quella moltitudine dispersa, di cui parla Hobbes nel De cive: «Il popolo è un che di uno, che ha una volontà unica, e cui si può attribuire un’azione unica. Nulla di ciò si può dire della moltitudine»[29].

 

Scomponendo la genericità compatta e mimetica a cui il linguaggio dominante riduce i senza–parte, scopriremo quasi sempre una stratificazione complessa. Così, nel caso della plebe napoletana sarebbe inesatto sostenere che non ha mai posseduto un proprio codice simbolico. È vero invece che in tale codice sopravvivono strati di un ordine premoderno, magico–mitico, incompatibile con quello della modernità capitalista, che da essa viene assoggettato e costretto al silenzio. Estranei alla concezione borghese dello Stato–nazione, i suoi valori subiscono un processo di corruzione e disgregazione, a contatto con il progresso del capitale: vengono così sfigurati fino ad apparire come un resto barbarico, accumulo di indecifrabili frammenti, enigma e ombra inquietante della cultura vincitrice.

 

La plebe napoletana resta in bilico tra l’impossibilità di accedere pienamente al logos della modernità capitalista e la dissoluzione del suo codice simbolico originario, che sopravvive in forma distorta e irriconoscibile o si degrada in organizzazione criminale. Più che di una inespressività «naturale» e «originaria», si tratta di una riduzione al non essere, risultato di un rapporto di potere sfavorevole, di una passivizzazione radicale. Qualcosa di simile è accaduto in numerose situazioni coloniali, con la distruzione–corruzione delle culture precedenti, o anche a Londra e Parigi nell’Ottocento, con lo spostamento di enormi masse contadine all’interno della città e verso i nuovi lavori industriali.

 

Nota 4. P. A. Allum applica alla sua analisi della plebe napoletana del Novecento le categorie di Tönnies, riviste alla luce del pensiero di Weber e di Marx[30]. La Gemeinschaft si fonda sulla dipendenza personale e familiare, mentre nella Gesellschaft le forme di relazione sociale assumono i tratti impersonali ed astratti dei rapporti economici, delle norme giuridiche e della funzionalità burocratica. La plebe napoletana, in gran parte di origine contadina, deriva da comunità fondate su valori tradizionali: la struttura della famiglia con una forte componente matriarcale, «il parentado, il vicinato e la comunità rurale»[31]. Una rete fortemente gerarchica di rapporti sociali si associa inoltre a un codice simbolico ibrido, a carattere magico–religioso, in cui si fondono e si sovrappongono elementi pagani e cristiani.

 

Il contatto con le norme della Gesellschaft, della quale il Sud dell’Italia conosce soprattutto lo sfruttamento e il dominio, dissolve i punti di riferimento con cui si orientava nel mondo il membro della comunità, producendo quella che De Martino – proprio analizzando la cultura premoderna del Meridione – ha definito come una crisi della presenza. La plebe meridionale si trova in bilico tra la dissoluzione della sua cultura di appartenenza e la marginalità a cui è condannata dallo sviluppo capitalistico, che le impedisce di assumere una nuova e sostitutiva identità. In questa condizione essa si contrae in quell’essere «inespressivo e muto», che poi diviene l’ombra inquietante e la massa opaca del codice simbolico dominante. Questa esclusione deriva tuttavia non dalla sua «natura» inferiore o da un mitico spirito dei luoghi, ma è essa stesssa un prodotto storico determinato, sorto da un particolare torto e da una definibile struttura del dominio: «Anche determinate esperienze della vita associata, nella misura in cui riproducono il modello naturale della forza spietata che schiaccia, aprono il varco alla possibilità della crisi: si pensi al rapporto dello schiavo rispetto al padrone, o del prigioniero rispetto al nemico che dispone della sua vita, o anche a determinate esperienze limite di sentirsi travolto da forze economiche e politiche operanti senza e contro di noi con la stessa estraneità e inesorabilità delle forze cieche della natura. In punti nodali (cs. mio) o momenti critici come questi si annida la possibilità della crisi radicale e può manifestarsi quella funesta miseria esistenziale per cui ciò che passa ci trascina nel nulla ancor prima che la morte fisica ci raggiunga: ed è quella miseria una catastrofe molto maggiore di questa morte»[32].

 

Scissa tra il non–esser–più della Gemeinschaft e il non–essere–ancora della Gesellschaft, la plebe diviene letteralmente senza parte, lo scarto della dialettica dell’illuminismo e dello sviluppo del capitale. Si assiste allora a un «naturalizzarsi dello spirito», a quella condizione di inespressività patologica, che De Martino così descrive: «…Qui non è in gioco la perdita di questo o di quello, ma della stessa possibilità del quale come energia formale determinatrice di ogni questo e di ogni quello: e tale perdita non è il non–essere, ma il non esserci, l’annientarsi della presenza, la catastrofe della vita culturale e della storia umana»[33]. In Sud e magia, De Martino definisce come non–storia la condizione della plebe: ciò non vuol dire che essa sia grezza natura e non sia il prodotto di una contraddizione storica determinata. Non–storia vuol qui dire che essa è stata sconfitta da un modello di modernità, che ha dislocato e frammentato la sua cultura, ne ha impedito lo sviluppo interno e l’ha ridotta a un coacervo sconnesso di tempi e di storie ibridate. L’ibridazione non è un male in sé, può anzi essere una enorme ricchezza culturale: ma diviene caotica e quasi barbarica se viene negata dall’ordine simbolico dominante. Così si può riattualizzare la frase di Croce, citata da De Martino, sulla non storia del Sud: «Una storia che non è storia, di un processo che non è un processo perché ad ogni passo interrotto e sconvolto»[34].

 

Nota 5. Nella concezione di Kerenyi, il mito ha una sua dialettica propria. In esso vi è da sempre un momento coattivo: esso si traduce nell’essere inchiodati in una situazione e in un destino senza via di scampo, soggetti a una forza strapotente ed estranea. Tuttavia, fa parte del mito anche l’elaborazione di questo stato di necessità, fino a superare nella forma l’immediatezza del terrore arcaico. Nella «forma» del mito, l’uomo si confronta con potenze epifaniche, senza dissolversi in esse, riconoscendo la loro differenza e alterità. L’elemento del sacro, all’interno del mito, si manifesta in questa polarità: per cui la potenza dell’archetipo è fronteggiata e allo stesso tempo riconosciuta nella forma, senza che ci sia identificazione con essa e dunque senza che l’umano sia cancellato. In questo senso profondo, l’immagine mitica non è solo incantesimo fascinatorio, ma consente la presa di distanza e insieme il riconoscimento di un rapporto tra l’umano e il non umano, tra il visibile e il non–visibile. Nel mito tecnicizzato, la trascendenza e l’alterità dell’immagine vengono completamente cancellate. Il mito non rinvia a nulla d’altro che alla stessa immanenza storica della situazione, alla sua necessità, al suo destino, e suscita – come tale – un’immediata e indiscriminata identificazione. Tecnicizzare il mito significa amputarne ogni carattere di trascendenza; ma esso – pur così ridotto – continua ad operare con tutta la sua forza sul piano improprio dell’immanenza politica. Il mito tecnicizzato subisce una perversione, che lo trasforma da traccia d’alterità in feticcio affermativo dell’esistenza. Il mondo magico va compreso nella sua profondità culturale e nella necessità del suo sviluppo, come ha fatto Ernesto De Martino; né esaltato regressivamente, né invocato come spiegazione di un’arretratezza che ha volti storici identificabili e determinabili.

 

Nota 6. In descrizioni estreme come quelle di Ortese, la plebe di Napoli sembra divenire una controfigura psichica della Cosa materna, innominabile, agglutinante, affascinante e distruttiva, di cui parla Lacan nel suo Seminario VII[35]. In ogni caso una potenza divorante e dissolvente: «Das Ding è originariamente ciò che chiameremo il fuori significato…; deve essere posto come esterno, questo das Ding, questo Altro preistorico impossibile da dimenticare…; l’Altro preistorico, l’Altro indimenticabile, che rischia tutt’a un tratto di sorprenderci e di precipitarci dall’alto della sua apparizione»[36]. La plebe appare come madre primordiale e non storica, da cui lo stento individuo intellettuale della modernità incompleta di Napoli si sente minacciato e attratto (e si capisce come in tal senso la rivolta sanfedista del 1799 abbia potuto assumere un valore quasi archetipico). D’altra parte la plebe napoletana è stata anche mitizzata come il Reale intrattabile, l’osso duro di un desiderio di rivolta insopprimibile benchè informe (e allora è piuttosto la rivoluzione repubblicana mancata del 1647 ad acquisire un significato esemplare[37]). Entrambe le cose contengono una parte di verità che però deve essere sottratta a mitizzazioni e manipolazioni. È il conflitto storico concreto, la contraddizione determinata della modernità, a far sì che la plebe venga percepita come potenza inespressa di rivolta o massa manipolabile di repressione, vitalità selvaggia o gorgo oscuro. Queste sono anche visioni che le piovono addosso dall’alto, pedagogicamente, con la volontà di imporre alla sua estraneità un ordine simbolico «moderno». Prima di spaventarsi per gli incubi del 1799 o esaltarsi per i sogni di libertà del 1647, che pure appartengono entrambi all’inconscio sociale della città, occorrerebbe chinarsi a comprendere la cultura dimenticata, il complesso mitico–magico–premoderno che resta represso e senza voce. Il progresso deve per forza identificarsi con i gradi di sviluppo del capitale? In questo senso gli scavi di De Martino nella cultura popolare del Sud possono costituire una guida per comprendere strati profondi del «popolo illetterato di Napoli», come lo ha chiamato Francesco Nappo[38]. Non si tratta di esorcizzare come un mostro preistorico la plebe di Napoli, ma di comprendere il suo sottofondo di cultura popolare, salvandolo dalla deformità e dalla criminalizzazione in cui è caduta.

 

Nota 7. La cultura popolare di Napoli è un frutto di ibridazione, che intesse insieme spazi e tempi diversi: un po’ come in quella famosa immagine di Roma, che Freud portava ad esempio delle stratificazioni dell’inconscio, situate a livelli differenti eppure compresenti e simultanee: «Facciamo ora l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica del passato…in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti…Lo stesso terreno risulterebbe occupato dalla chiesa di Santa Maria sopra Minerva e dall’antico tempio su cui fu costruita. E, a evocare l’una o l’altra veduta, basterebbe forse soltanto un cambiamento della direzione dello sguardo o del punto di vista da parte dell’osservatore». Questa la fantasia: nella realtà i frammenti del passato sopravvivono sì, ma in stato di rovine, e dunque subendo una più o meno grave dislocazione e deformazione del loro senso iniziale: «Ciò che oggi occupa questi luoghi sono rovine; non si tratta tuttavia delle rovine di tali edifici medesimi, bensì di quelle di loro rifacimenti posteriori dopo incendi e distruzioni»[39]. Quella simultaneità di significati esiste dunque, ma è sepolta e poco visibile ed è opera dell’archeologo–psicoanalista riproporre alla coscienza l’inconscio storico–sociale della città, la sua storia complessa.

 

Anche nel caso di Napoli un antico strato magico–pagano si è conservato intrecciandosi alle immagini cristiane e spesso servendosi di esse per continuare in realtà un culto più antico, di cui la memoria cosciente ha perso le tracce, come avviene nel culto delle «anime abbandonate», che Compagnone rievoca nel suo poema. La tradizione cristiana e quella precristiana si legano «intorno a dei luoghi che sono veri e propri incroci temporali»[40], per lo più luoghi di culti funerari, come il cimitero delle Fontanelle. Sono «luoghi nodali» e – nel caso del culto delle anime del purgatorio – sotterranei, in cui «ciò che sta sotto nello spazio, prende a significare ciò che sta prima nel tempo»[41]. Si tratta di una topica che fa dei morti i simboli del passato, i custodi ancestrali della durata. L’intreccio della dimensione pagana con quella cristiana prevede anche la sopravvivenza degli antichi dei in forme cristianizzate, e così il giorno sacro alle anime purganti continua ad essere il lunedì, sacro un tempo ad Ecate. In questi «inferi» la società popolare napoletana ha compiuto infatti la sua nekya…ha ambientato il suo incontro con l’al di là facendone i sacrari di un’umanità minore, quella che nessun monumento celebra e che nessuna lapide commemora»[42]. Chi si trova oppresso e abbandonato in terra rivolge un simile culto a quanti hanno subito un tempo lo stesso destino e ora lo rappresentano e lo lamentano di fronte a Dio. Anche in questo caso è difficile parlare di mutismo inespressivo e di assenza di ogni cultura e di storia: si tratta piuttosto di una storia sommersa, di una cultura sconfitta e repressa, di un sapere simbolico e non quantificante–astratto, che merita di essere riportato alla luce del giorno.

 

Note

[1] A. M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, Milano, Adelphi, 2008. La prima edizione è del 1953. D’ora in poi le citazioni sono indicate nel corpo del testo con un numero di pagina fra parentesi. Città senza grazia è l’insolita definizione che L. Compagnone dà di Napoli, in un suo verso, citato dalla Ortese.

[2] Cfr. ad esempio Il cardillo addolorato, Milano, Adelphi, 1997 o Mistero doloroso, Milano, Adelphi, 2010.

[3] Cfr. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006.

[4] È la tesi sostenuta da G. De Caro nel suo libro Rifondare gli Italiani. Il cinema del neorealismo, Milano, Jaca Book, 2014.

[5] E che è senz’altro Il silenzio della ragione.

[6] R. La Capria, Opere, Milano, Mondadori, 2003, p. 1134.

[7]«Ho detto i Siciliani avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano. Queste sono le forze che insieme e forse piú che le dominazioni estranee e gli incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’arsura dannata, che non è mai meschino, terra terra, distensivo, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi…Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti… tutte queste cose hanno formato il carattere nostro, che cosí rimane condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità d’animo».

[8] R. La Capria, Opere, Milano, Mondadori, 2003, p. 689.

[9] Cfr. su questo lo splendido Mistero Napoletano di E. Rea, Torino, Einaudi, 2007.

[10] Ancora nel Gattopardo:«Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana». L’andamento stilistico, il ritmo della frase, la ripetitività cadenzata, il lento scivolamento malinconico degli accenti sono molto simili nei due scrittori.

[11] Su questo, cfr. più avanti, pp.

[12] R. La Capria, Opere, cit., p. 694. Ivi, p. 692: la plebe è «la Cosa Nascosta, che si agita perennemente nel fondo di questo libro…Ancora e sempre la paura della plebe che si riproduce, e qui riappare, come ‘condizione di insicurezza ontologica’, cioè come rischio di perdere il proprio io», (riferimento alla terminologia di Laing).

[13] Risposta anche al Gattopardo di Visconti, uscito nello stesso anno del film di Rosi?

[14]«Napoli sono due città, una è esterna alla luce del sole, l’altra sotterranea. Insomma, il suolo su cui si costruisce è come la forma di una gruviera piena di buchi. Voi non avete idea, voi non sapete, che cosa nel sottosuolo esiste: camminamenti, caverne, voragini…». Anche le mappe sono inutili,«perché i terremoti, le alluvioni, le infiltrazioni continue, non fanno che modificare, talvolta sconvolgere il sottosuolo. Quando poi un crollo avviene per queste disgraziate cause naturali, perché volerlo attribuire alle umane responsabilità?».

[15] La giovinezza reale e l’irreale maturità, Torino, Einaudi, 1981.

[16] Non dimentichiamo inoltre che il poema è ambientato nel 1938, nella risacca stagnante della cultura fascista e della sua apparentemente duratura chiusura. Chiedersi se un futuro è possibile, significa anche domandarsi se è possibile immaginarsi diversi, non più sottomessi alla sovranità grottesca della dittatura.

[17] Questa stessa percezione viene descritta da Rea in Mistero napoletano. Cfr. più avanti, p.

[18]«Il colono fa la storia. La sua vita è un’epopea, un’odissea. Lui è l’inizio assoluto…»(Fanon). L’identità del colono è propriamente umana e l’umano si confonde col suo essere e agire; il colonizzato appartiene invece al mondo del dato e della natura immediata, e come tale deve essere negato, superato, o –nel migliore dei casi– educato, perché acceda a una forma di vita paragonabile a quella dell’uomo.

[19] Cfr. P. Clastres, La società contro lo Stato, Verona, Ombre Corte, 2013.

[20] Cfr. più avanti, p.

[21] Cfr. supra, p.

[22] Cfr. più avanti Nota 5, p.

[23] J. Rancière, Il disaccordo, Roma, Meltemi, 2007, p. 43.

[24] M. Breaugh, L’expérience plébéienne, Paris, Payot, 2007, p. 11.

[25] J. Rancière, Il disaccordo, cit. p. 130.

[26] M. Breaugh, L’expérience plébéienne, cit. p. 342.

[27] M. Foucault, Dits et écrits, 1954–1988, vol. III, Paris, Gallimard, 1994, p. 421.

[28] Ibidem.

[29] T. Hobbes, De cive, Roma, Editori Riuniti, 2005, p.134.

[30] P. Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino, Einaudi, 1979.

[31] Ivi, p. 73.

[32] E. De Martino, Morte e pianto rituale: dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino, Bollati–Boringhieri, 2009, pp. 21–22.

[33] Ivi, p. 31.

[34] Cit. In E. De Martino, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 173.

[35] J. Lacan, Il seminario. Libro VII, L’etica della psicanalisi, Torino, Einaudi, 2008.

[36] Ivi, pp. 64, 84, 66.

[37] Cfr. più avanti, p.

[38] Cfr. più avanti, p.

[39] S. Freud, Il disagio della civiltà, Torino, Bollati–Boringhieri,

[40] M Niola, Il purgatorio a Napoli, Roma, Meltemi, 2003, p. 19.

[41] Ivi, p. 20.

[42] Ivi, 82.

 

[Immagine: Anna Maria Ortese].

4 thoughts on “Altrenapoli

  1. ” Giovedì 24 gennaio 2002 – « È stata una zingara assorta in un sogno. Ma ora che si è svegliata, e si è fermata, è Napoli di tutta la sua vita ch’essa si vede intorno, presenza e memoria insieme, e riflessione, pietà, trasporto, sdegno. » (Elio Vittorini, Risvolto di copertina, in Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, 1953) “.

  2. “Napoli, 28 maggio 1787
    Il buon e pur utile Volkmann dice […] che a Napoli vi sarebbero tra i trenta a quarantamila fannulloni: e quanti non vanno ripetendolo!
    Acquisita qualche cognizione delle condizioni di vita del Sud, non tardai a sospettare che il considerare un fannullone chiunque da mattina alla sera non schiatti di fatica fosse un criterio tipicamente nordico.
    Ho posto attenzione preferibilmente alla gente comune, sia quando si muove che quando sta ferma ed è vero che vidi molta gente mal vestita, nessuno però che fosse inoperoso.
    Domandai allora ad alcuni amici se veramente esisteva questa massa d’oziosi, desiderando conoscerli, ma nemmeno loro furono in grado d’indicarmeli e perciò, coincidendo la mia indagine con la visita della città, mi misi sulle loro tracce.
    […]
    Iniziai le mie investigazioni di mattina: se da qualche parte sorpresi gente ferma o in riposo, era perché il loro lavoro in quel momento lo richiedeva. I facchini che in vari luoghi hanno i loro posti riservati e aspettano soltanto che qualcuno ricorra a loro; i vetturini che, con i loro garzoni accanto ai calessi a un cavallo governano le loro bestie sulle grandi piazze, veloci ad accorrere al primo cenno; i barcaioli che fumano la pipa seduti sul molo; i pescatori che se ne stanno sdraiati al sole perché magari il vento è contrario e non gli permette uscire in mare aperto. Ne vidi anche molti che andavano attorno, ma quasi tutti portavano indizi di una quale specifica attività.
    Più mi guardavo attorno e più osservavo con attenzione, tra il popolino come nel medio ceto, alla mattina come per il resto del giorno, davvero non riuscivo a trovare veri fannulloni.”

    Johann Wolfgang Goethe. Italienische Reise, Deutsche Klassiker Verlag, Frankfurt am Main, 1993 p. 355-56

  3. “ Mercoledì 25 maggio 2005 – « Napoli, 8 maggio 1877 – […] Di tutte le plebi in mezzo alle quali mi son trovato girellando per l’Italia, quella di Napoli è senza dubbio la più originale e la più grottesca di tutte. Basta guardare in viso questa gente per capire che son furbi come gatti; serve dare un’occhiata alle loro membra per ammirarne la eleganza delle proporzioni e per ridere del modo col quale le adoperano negli usi più comuni della vita. Allorché parlano, la lingua è il membro che soffre minor attrito di tutti. Chiudono gli occhi, li riaprono e li battono come bertucce; sgualciscono le labbra; con le mani affettano l’aria in tutti i sensi; si scuotono, si torcono su la vita in modo che qualche volta la lingua si mette in riposo assoluto e conversano ed esprimono i più riposti sentimenti dell’animo con un gergo tacito che chiamerei semaforico, corrugando la fronte, stralunando gli occhi e lavorando di braccia, di mani e di dita come allievi perfetti del più accreditato istituto dei sordomuti. » (Renato Fucini, Napoli a occhio nudo. Lettere ad un amico, 1913) “.

  4. “‘C’è una raccolta di novelle – il Pentamerone di Basile ( credo XVI secolo) – scritta in dialetto napoletano. Avrei voluto tradurla. Ne possiedo un’edizione, ma va al di là delle mie cognizioni linguistiche…’ Qualche riga di una lettera datata 6 ottobre 1915 sono esemplari per più di una ragione: Apollinaire – la lettera è sua – rimarca per noi un qualche disagio. […]
    Basile è una delle radici fondamentali dell’albero letterario meridionale. Lingua popolare e stile barocco mescolati in immagini che deformano il mondo per meglio mostrarlo nelle sue smorfie rivelatrici: grottesco, ironia, finzione, ombre e luci; orrore e bellezza; Caravaggio e Grosz tutto messo insieme. E Basile fa anche pensare agli espressionisti degli anni Trenta, ai neo-realisti del 1945…”

    Jean-Noël Schifano, Desir d’Italie, Gallimard, Paris, 1996, p. 24

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