a cura di Laura Pugno
[Orso di Marian Engel torna in libreria per la casa editrice La Nuova Frontiera, e in una nuova traduzione di Veronica Raimo, autrice, tra l’altro, del romanzo Miden (Mondadori, 2018), e coordinatrice, con Claudia Durastanti, della versione italiana de “Le visionarie. Fantascienza, fantasy e femminismo: un’antologia” di Ann e Jeff Vandermeer per Produzioni Nero (2018). Qui l’intervista a Veronica sulla sua esperienza con il testo di Engel, che accompagna un estratto dal romanzo].
Orso è un romanzo che indaga il confine interspecie, le sue possibili trasgressioni, gli andirivieni tra umanità e animalità, le sue diverse declinazioni – se vi sono; ammesso che vi siano – rispetto alle categorie di maschile e femminile. Negli anni Settanta, è stato un libro che ha dato scandalo. Che senso ha, per te, come scrittrice e lettrice, la sua ripubblicazione oggi in Italia?
Io lo vedo anche come un libro che indaga il desiderio masturbatorio di una donna, l’orso in questo senso potrebbe quasi essere un gigantesco sex toy rivestito di pelo. La protagonista, Lou, giovane bibliotecaria/archivista, clinicamente depressa per come lei stessa si autorappresenta, solitaria e sempre alle prese con libri e scartoffie, con una vita sessuale sciatta e poco appagante, riuscirà a ritrovare in un isolamento ancora più estremo – una casa persa nella selvaggia natura canadese – una sua dimensione sepolta di desiderio, risvegliata appunto da un orso. Quindi oltre lo sfondamento verso una sessualità ibrida o interspecie, siamo di fronte a una sorta di vanaglorioso e istrionico delirio di eccitazione di cui l’orso è strumento. Sembra quasi la versione femminile di Grizzly Man, dove alla cupio dissolvi di Treadwell attraverso l’atto di farsi mangiare, si sostituisce la cupio dissolvi di un orgasmo. Per rispondere al senso della sua ripubblicazione, di sicuro questo è un momento particolarmente favorevole alla cosiddetta speculative fiction femminista, quindi se il libro riuscirà ad attirare nuovi lettori e lettrici per contingenze date dalle mode letterarie, credo sia un bene. E al tempo stesso credo che le cosiddette mode letterarie rispecchino comunque un desiderio latente, in un’ottica che non si risolve soltanto in una mera logica di mercato domanda-offerta, ma che, in un certo senso, crea lo spazio immaginifico e creativo per quel desiderio.
Rispetto a questo testo, potremmo provare ad adoperare, come scandaglio, le categorie di quello che io chiamo “romanzo di ricerca”. Prendo la definizione, che ho usato spesso, da In territorio selvaggio (Nottetempo): “Nel romanzo di ricerca – intendendo qui e ora per ricerca non tanto l’aspetto linguistico, quanto la posizione dell’opera rispetto a quanto già esiste, a quanto già è stato scritto – un qualcosa spesso affiora quando, nella società in cui quel romanzo nasce, diventa possibile pensare quel qualcosa in modi diversi da quanto fino ad allora è stato fatto. Affiorano le domande che un certo tempo comincia a porsi. (…) Oggi questo tipo di romanzo è minoritario, perché è in qualche misura disturbante, o forse sarebbe piú giusto dire che è perturbante – come prima, unheimlich. (…) Il pensiero sulla frontiera – che attraversa tutto il mondo a cominciare dai nostri stessi corpi – tra natura e cultura è qualcosa che inevitabilmente ci accompagna. Non perché la questione della natura sia mai stata assente dal pensiero umano, ma perché abbiamo acquisito potere e allo stesso tempo vulnerabilità, e di questa vulnerabilità, lentamente, stiamo diventando – o forse la parola esatta è tornando a essere – consapevoli.” Cosa ne pensi? Sei d’accordo?
Sì, mi trovo molto d’accordo, quindi evito di parafrasare la tua definizione per esprimere il fatto di essere d’accordo. Aggiungerei soltanto che spero che questo nuovo tipo di consapevolezza non si traduca in una ri-mitizzazione della natura anche nella sua vulnerabilità. Insomma vorrei scongiurare una dicotomia tra il tipo di immaginario che Donna Haraway un tempo vedeva ibridato dalla tecnologia come nel Manifesto Cyborg, e la sua nuova idea di compenetrazione olistica antispecista tra creature simbiotiche, perché ci vedo sempre in agguato un misticismo antiscientifco.
La lingua, come ogni altra cosa vivente, invecchia. E si rigenera continuamente. Le nuove traduzioni servono anche a questo, a ricollocare un testo in un orizzonte di percezione mutato. Hai notato, nel tuo lavoro, rispetto alla precedente traduzione di Daniela della Bona uscita nel 1992 per La Tartaruga (a cura di Oriana Palusci) segnali di questo processo di invecchiamento e rigenerazione? Se sì, come hai reagito? Ci sono state delle parole-spia, delle parole particolarmente significative di e in questo processo?
Penso che per qualche motivo le traduzioni invecchino più dei testi originali, ma la distanza con la traduzione di Della Bona per me non ha riguardato tanto il suo invecchiamento quanto alcune questioni stilistiche più generali. La novella di Marian Engel ha una scrittura molto veloce, informale a cui si uniscono delle digressioni poetiche o filosofiche, il che lo rende stranamente eterogeneo, un tipo di scrittura anche molto contemporanea se penso a certi romanzi o mémoir che tengono insieme nonfiction e fiction. Inoltre, ha una sua urgenza che a volte sembra quasi tradire una mancanza di editing, e lo dico in senso buono, ha la qualità di un romanzo di esordio, audace, spregiudicato, non addomesticato. Ho cercato il più possibile di restituire questa urgenza, piuttosto che andare nella direzione di una lingua più sofisticata o sedata. Mi piaceva che fosse restituito come un breve romanzo ruvido e disturbante anche nello stile.
In “Sirene, adolescenti e distopie” un recente incontro a Roma, a cura del Premio Riccione Teatro, in cui eravamo insieme, il 24 maggio al Teatro Valle, a parlare di scrittura e drammaturgia, hai detto (cito a memoria), che ciò di cui ti interessa scrivere è solo ciò di cui non parleresti con tua madre. (Se la citazione è inesatta, correggila). Il perturbante, traduco io nella mia lingua. C’è qualcosa che è cambiato, nella scrittrice Veronica Raimo, nel lavoro di traduzione a contatto con questo testo e le sue dimensioni di perturbante? una suggestione che è nata, un pensiero che si è orientato diversamente? Vedi dei punti di contatto con la tua scrittura precedente e successiva, con le tue inquietudini?
Direi che la citazione è giusta, insomma il senso era quello. Ed è una riflessione che stavo facendo con una mia amica riguardo al nostro processo di scrittura e ciò che non amiamo in certi libri, ovvero quando abbiamo la sensazione che non ci provochino alcun senso di disagio o di inquietudine, o persino di ripugnanza, libri che potrebbero essere definiti “per tutta la famiglia”. Poi, è da un po’ di tempo che mi ritrovo a misurarmi con scritture che hanno a che fare in maniera molto esplicita con la categoria del perturbante, come dici tu. Anche l’antologia di speculative fiction, Le visionarie, di cui ho coordinato l’edizione italiana insieme a Claudia Durastanti, raccoglieva racconti che andavano in questa direzione. Però, tornando alla questione dello stile, forse la cosa che mi ha messo più in crisi rispetto al libro di Engel – cioè molto di più di una donna che si fa praticare il cunnilingus da un orso e analizza minuziosamente la rasposità della sua lingua- è proprio quello che dicevo prima: una certa spregiudicatezza formale che ho paura di aver perso e che sicuramente riconosco nel mio romanzo di esordio, il timore insomma che un continuo auto-editing possa rivelarsi anche nocivo, finendo per diventare anche quello “un editing per tutta la famiglia”.
A seguire, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dal romanzo.
Marian Engel
Orso
Il quindici maggio Lou caricò l’auto di faldoni pieni di documenti, carta, schede, quaderni e una macchina da scrivere. Aveva riesumato la sua vecchia attrezzatura da campeggio: il logoro giaccone impermeabile, gli scarponi da montagna, un sacco a pelo di quando era giovane. Il Direttore le strinse la mano per salutarla, poi si allontanò da quell’odore di naftalina.
«L’uomo che devi incontrare è Homer Campbell. Esci allo svincolo di Fisher’s Fall sull’autostrada 17 e prosegui sulla strada provinciale 6 fino a un paesino chiamato Brady. Gira a sinistra all’incrocio e segui il fiume fino a quando arrivi al molo di Campbell. Homer ti rimedierà una barca e ti porterà sull’isola. Ci ho parlato ieri, dice che ti ha allacciato anche una nuova bombola di propano e che ti ha fatto pulire casa.» La strada correva verso nord. Lei la seguì. Nel punto più in alto c’era una specie di Rubicone. Lo attraversò e iniziò a sentirsi libera. Sempre più a nord, accelerò verso i monti, piacevolmente stordita.
L’inventario della casa e degli edifici annessi stilato dai legali lasciava intendere che non avrebbe avuto bisogno di un grosso equipaggiamento. Non si trattava di una baita di legno. Era una casa con sei stanze, una delle quali trasformata in una biblioteca. C’erano molti sofà, molti tavoli e molte sedie.
Se li immaginava lì belli comodi mentre stilavano la lista. Pensò che si sarebbe trovata a proprio agio.
Il panorama era ebbro e lussureggiante. Nell’attraversare la baia, tremava sul ponte del traghetto che collegava le varie isole, come tanti punti di un unico arco calcareo. I gabbiani volteggiavano e in lontananza si vedeva il bagliore di una sirena da nebbia. Passò vicino a un’isola in cui avrebbe desiderato vivere da sempre, e poi vicino a una più piccola, che gli indiani credevano infestata, dove era stata portata da bambina. Si ricordò di quando era approdata lì scendendo dalla nave, e poi di quei sentieri scuri, ricoperti di edera, alta quanto lei. I suoi genitori erano alla ricerca di genziana blu ed erba del parnassio. Mentre loro cercavano, lei era rimasta incantata dallo scheletro della più grande libellula al mondo, intrappolata in una ragnatela sulla finestra di una casupola, completamente risucchiata.
Piccoli isolotti fluttuavano innocentemente sulle onde, sballottolati tra le boe.
Non c’erano molti passeggeri a bordo in quel periodo dell’anno: qualche cacciatore, una coppia di indiani con una giacca da sci magenta, una coppia più anziana, intenta alla lettura, in cima alla scala. Una famiglia di lingua francese che sfoggiava una tenuta sportiva nuova dai colori pastello. L’idea che l’abbigliamento da escursione dovesse essere sporco, infel trito e vecchio di almeno quarant’anni sembrava un concetto fuori moda per tutti tranne che per lei. Le tornò in mente un conoscente che aveva affermato come fosse impossibile ormai trovare una donna che odorasse soltanto di se stessa. Era quasi il tramonto quando attraccarono. Aveva la forte sensazione di essere già stata in quel posto. Ricordi di una spiaggia, di un lago argentato, e poi qualcosa di triste. Sì, qualcosa che era accaduto quando lei era molto giovane, una perdita. Le sembrò assurdo non essere più ritornata lì, in quei luoghi.
Mentre attendeva la macchina, osservò gli indiani salire su un furgone bianco nuovo.
Era troppo tardi per raggiungere il porticciolo prima del buio; la traversata in traghetto, come sempre, era stata interminabile. Prese una stanza in un motel su una spiaggia deserta, trascorse la serata a bighellonare vicino all’acqua, ad ascoltare gli uccelli.
“Ho la strana sensazione” scrisse su una cartolina per il Direttore, “di essere rinata.” La mattina dopo, allontanandosi dall’isola in macchina, sentì il cuore che sobbalzava alla vista delle brulle rocce dei monti di Algoma. Dove sono stata? Si chiese. In una vita che adesso assomiglia alla sua assenza?
Era da un po’ che le cose andavano male. Non avrebbe potuto menzionare un problema in particolare, piuttosto era come se la vita in generale le serbasse rancore. Come se tutto si ostinasse a ingrigire. Per quanto all’inizio le piacesse indulgere nell’erudita reclusione del proprio lavoro, in quella protezione dalla volgarità del mondo, dopo cinque anni le sembrava di essere invecchiata a dismisura, si sentiva decrepita come le carte ingiallite che le facevano compagnia per giorni. Quando, molto di rado, sollevava gli occhi dal passato e indagava il presente, lo vedeva sfumare davanti a sé, diventare inafferrabile, un miraggio. Ne aveva parlato col Direttore, che aveva liquidato il suo stato mentale come uno dei rischi del mestiere, eppure Lou non riusciva ad accettare di vivere così l’unica vita che le era stata offerta.
Era già tardi quando parcheggiò al porticciolo. Si avviò verso l’emporio, situato in una costruzione di cemento e chiese di Homer Cambell. Il proprietario, dal viso tondo, ammise la propria identità.
«Deve essere la donna dell’Istituto di cui mi ha scritto Mr Dickson» disse. «Non ci ha messo molto. Possiamo andar lì stasera stessa.» Chiamò suo figlio e cominciò subito a scaricare i bagagli dall’automobile. Quando lei fece un po’ di rimostranze per la sua piccola macchina da scrivere, lui la guardò con aria compassionevole.
Era un uomo di mezz’età e gentile. Suo figlio, Sim, aveva gli occhi chiarissimi, i capelli chiarissimi, un fantasma, un albino, che caricava una seconda barca con le provviste prese per lei. L’uomo parlava al figlio con versetti e cinguettii come fosse un animale. Il figlio aveva i piedi grossi, era timido e passivo: doveva avere quattordici o quindici anni, pensò lei.
Lou si sistemò con un certo impaccio sulla barca, come se non fosse in grado di piegarsi. Homer provò a mostrarle come avviare il motore, ma lei sembrava con la testa da un’altra parte. Aveva studiato le mappe nautiche, sapeva che l’Isola di Cary si trovava varie miglia più su della foce del fiume, piena di canneti, che si apprestavano a risalire. Sulla carta sembrava un bel posto, ma sapeva già che il Colonello non aveva messo in conto che il fiume, in tutto il suo ampio estuario, nell’ultima parte si riduceva a un torrentello, tanto che il suo paludoso rifugio risultava molto più isolato di quanto un cartografo si sarebbe potuto aspettare. Aveva letto che la segheria si era rivelata un fallimento proprio perché questo elegante fiume, così inglese nell’aspetto, era in grado di far girare il mulino ad acqua soltanto un giorno a settimana.
Homer parlava ad alta voce sovrastando il rombo del motore. Sembrava un tipo loquace. Lei era più interessata alla magia delle forme che la circondavano, le rocce dure che all’improvviso si tramutavano in sabbia e betulle, gli isolotti non più grandi di banchi di sabbia sovrastati da vecchi cottage verdastri con le imposte chiuse, che sembravano soli e abbandonati in quel periodo dell’anno. Da queste parti, pensò lei, ci sono una vita invernale e una vita estiva, completamente diverse tra di loro. Scivolarono lungo il canale gelido, Sim li seguiva a bordo di una barca argentata.
«Non è così isolata» gridò Homer. «Ma le consiglio di tenere sempre del carburante nel serbatoio in caso di bisogno. Non dovrebbe avere problemi coi temporali in questo periodo, ma si può sempre beccare un fulmine o qualche acciacco. Joe King vive laggiù d’inverno quando piazza le sue trappole, e sua zia, Mrs Leroy, è una vecchia indiana che sta a Neebish con la nipote, quindi non avrà visite inaspettate. Ci sono una stufa a legna e una stufa a gas, più un paio di camini. C’era una stufetta elettrica che io e Joe abbiamo portato via perché era troppo pericolosa. Joe ha rifornito la legnaia e la vecchia le ha pulito casa, quindi starà bella comoda e al calduccio. Se la vecchia dovesse tornare, la riconoscerà subito. Avrà duecento anni come le colline e neanche un dente in bocca.»
La barca era un vecchio fuoribordo di cedro, ma il motore era nuovo. Homer la rassicurò sul fatto che la perdita di combustibile si sarebbe arrestata dopo un po’ di utilizzo. Nella rimessa c’era anche una canoa, ma non sapeva in che condizioni fosse. Ci aveva montato un motore leggero presumendo che lei non se la sarebbe sentita di manovrare il barcone da venti cavalli per tornare a casa col brutto tempo. La cosa importante era tenerla pulita e asciutta, e con il serbatoio sempre pieno.
Si sentì il rimbombo di una grossa sirena da nebbia. Lou non poté fare a meno di sobbalzare. Homer rise. «Sembra proprio una mucca che le muggisce all’orecchio, eh? Il canale di navigazione è solo a quattro, cinque miglia dalla sua abitazione. Sarà un anno buono. Il fiume si è scongelato presto.»
E dunque questa riva silenziosa e inquietante era l’Isola di Cary. Falaschi, poi solo rocce e alberi anonimi. «Ecco il capo. Tra un minuto ci siamo.»
C’era un che di affettuoso nella voce di Homer, come se amasse quel luogo. La guardò e poi distolse lo sguardo.
[Immagine: particolare della copertina del libro].
«ha la qualità di un romanzo di esordio, audace, spregiudicato, non addomesticato. Ho cercato il più possibile di restituire questa urgenza, piuttosto che andare nella direzione di una lingua più sofisticata o sedata. Mi piaceva che fosse restituito come un breve romanzo ruvido e disturbante anche nello stile.»
Che aggettivi! E quel «disturbante» poi!
Ho appena seguito l’intervento di Filippo La Porta agli “Stati Generali della letteratura italiana” (qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=35879). Cita degli esempi di questa riduzione della letteratura a «nobile intrattenimento». E gli aggettivi che solleticano il palato della «nuova classe media scolarizzata» ( alla quale purtroppo tutti apparteniamo, concordo…) sono di questo tipo: *intrigante* per «Se questo è un uomo»; *carino* per «Il Castello»; «disturbante» (=”letteratura vera”) per un romanzo di Simona Sparaco.
Dimmi che aggettivi usi e ti dirò….?