di Vincenzo Frungillo

 

[Proponiamo un estratto dal romanzo di Vincenzo Frungillo Un nome in meno, uscito in queste settimane per le edizioni Ensemble].

 

Sofia anticipa la fine dell’estate. Scorgendo la spiaggia vuota e beccata dai gabbiani, fa scivolare lo zaino tra le alghe che accolgono minuscoli insetti saltellanti, si avvicina alla battigia, alza gli occhi e osserva le nuvole che si sono allontanate verso la linea dell’orizzonte; ora, come un enorme sacco nero, minacciano il cielo dell’isola. Prima di immergersi pensa ancora alla madre mentre stira i lunghi tentacoli di un polpo verace. «Tuo padre torna per cena» le ha detto, mentre ne massaggiava le estremità con la stessa cura che un giorno impiegava per stirare i suoi capelli di bambina. Questa mattina il polpo era ancora lì, a essiccare al sole come nella lontana Grecia. Sofia resta a lungo sulla battigia a riflettere sul senso di quell’attesa, non ricorda l’ultima volta che ha visto Pietro e Caterina insieme, felici, è come se si fosse abituata a tanto silenzio in casa, come se il peso dei pomeriggi avesse invaso anche il paesaggio e avesse reso sempre più distante l’isola all’orizzonte. Gira lo sguardo verso la corolla di ristoranti e abitazioni abusive sorte sulla cima del promontorio, vede il rivolo d’acqua che dalla collina scende giù fino a mare: «Una volta qui l’acqua era trasparente. Si poteva vedere il fondale» le ha sempre detto il padre, questa era la sua riserva aurea, Pietro era tra i puristi della costa. Molte cose sono cambiate dopo il terremoto, il golfo d’Acquamorta, dichiarato inagibile per il pericolo di crolli, è diventato un porto abusivo da cui partono imbarcazioni private e pescherecci. Più volte il mare s’è ritirato per poi occupare più terra di quanta ne avesse lasciata. Lei ha vissuto quelle fasi come se si trattasse di scegliere da che parte stare, e ha deciso fin da bambina, ha scelto il mare. Indossa la maschera, scivola nell’acqua, lasciando solo la testa in superficie, si spinge così, con la sola forza delle gambe, al centro del bacino d’acqua formato dalla costa, la collina e la spiaggia. Di tanto in tanto s’immerge, lambendo con il petto il fondale ricoperto di piccoli resti di plastica, ne mette qualcuno nel retino che si è legato al costume. Inizia a nuotare verso il largo, oltre la barriera degli scogli in direzione del canale che separa l’isola dal promontorio di Monte di Procida. Durante una delle sue immersioni, nota un oggetto dalla forma insolita, poggiato tra le lattughe di mare. Scende sul fondo per alcuni metri ma la pressione dell’acqua la costringe a risalire in superficie. Il mare è ancora un po’ mosso, si libera i polmoni tossendo, sente la salsedine che le brucia le narici, un fischio copre i rumori dei bagnanti che iniziano ad animare la scogliera e la battigia. Raccolta ancora più aria, scende giù sul fondo per molti metri, così come non aveva mai fatto prima, sfiora appena il misterioso oggetto che riverbera sul fondale, decide di sfruttare il poco ossigeno rimastole per prolungare l’immersione, spinge forte con le gambe sentendo la pressione sulla testa e nelle orecchie, resta sorpresa e incantata nell’avvertire la forza del canale. Il suo corpo è spinto verso il largo, poi verso il basso, Sofia perde il controllo della bracciata, non riesce a opporre resistenza alle correnti, sente qualcosa toccarle la punta delle dita, ricorda la macchia bianca che l’ha portata sempre più giù, sotto il tetto d’acqua del canale. Riprende forza, si slancia verso l’alto, le gambe si allargano per poi chiudersi in uno scatto, le braccia restano immobili lungo i fianchi, sale per metri e metri ingoiando la riserva d’aria trattenuta nella bocca, avrebbe perso i sensi se non fosse arrivata la luce del sole, il suo calore sulle spalle. I rumori sembrano i nuovi segnali del mondo. Sente di rinascere. In superficie scorge volti scomposti dallo sforzo che nuotano per venirle incontro. Inizia a nuotare verso la riva tenendo ben stretto il pugno sotto il petto. Giunta sulla spiaggia, si lascia cadere sulla sabbia, sente dietro la schiena il calore della canicola che inizia ad arroventare la rena. Intanto le famiglie e i bambini le si sono stretti intorno, i soccorritori si piegano sulle gambe per riprendersi dallo sforzo. Tra il capannello della folla si fa spazio una giovane donna, un uomo si lamenta dicendo una frase che Sofia può appena sentire: «Come si può permettere a una ragazzina». La donna stringe gli occhi sotto le lenti da miope. «Cosa tieni in mano?» chiede. Sofia apre le cinque dita. L’attenzione di tutti si concentra sull’oggetto adagiato nel suo palmo. La donna lo raccoglie tra l’indice e il pollice, tenendolo per una delle piccole corna laterali. I soccorritori se la passano di mano in mano. «Ormai si trova di tutto in mare» dice un uomo prima di restituirlo alla donna che continua a studiarlo facendoselo girare tra le dita. Sofia si alza, si scrolla la rena di dosso, si fa largo tra il capannello dei bagnanti. Recupera i vestiti, s’infila la maglia, si avvicina alla donna, le strappa il frutto della sua pesca dalle mani e s’incammina verso casa.

 

Lo stesso pomeriggio, Renata torna nella redazione del giornale per il quale scrive pezzi sulla cronaca locale. Ha iniziato a lavorare da un anno con un contratto a termine, raccontando cosa succede nei paesi dell’area flegrea. Per Renata è un buon posto di lavoro considerando la crescente attenzione della città per la periferia costiera. Il terremoto ha fatto di queste zone il punto sensibile dei sismografi, come se fosse la parte animale della metropoli, che prima di tutte avverte gli scossoni della terra. Così è stato negli anni Ottanta e così è ora. Renata sa che il suo ruolo può essere importante, può aspirare un giorno a diventare «una cronista con l’occhio sul cratere», come diceva scherzosamente alle amiche che le chiedevano perché avesse scelto di restare. Le sue coetanee sono partite per il Nord o si sono fermate a Roma, scegliendo carriere più semplici della sua; alla sua età sono già sposate, hanno figli e un lavoro stabile. Una cosa però le è sempre stata chiara: nessuno dice il presente meglio di una giornalista, nessuno va più a fondo di chi resta in superficie. Adatta ormai da anni il senso di questo motto al suo mondo. Deve mantenersi legata alla sua terra, deve salvaguardarla con tutti i mezzi. Primo o poi anche i suoi colleghi avrebbero dovuto riconoscere il suo talento, anche se ora la ignorano. I cronisti più anziani sono impegnati nel raccontare gli ultimi scandali della politica locale e le hanno lasciato i trafiletti sulla cronaca, costretta a valorizzare vicende circostanziate e di poco conto, deve tenere a bada la sua frustrazione. Come in questo caldo pomeriggio d’agosto. Si chiede: “Al corso di giornalismo ci propinavano sempre episodi clamorosi che suscitavano l’interesse della massa, un omicidio, un’importante questione politica, e intorno a quei fatti costruivamo il nostro punto di vista. Era un gioco di prospettive, una gara per chi riusciva a inquadrare meglio il fatto. Poi, se si trattava di episodi minori, bisognava lavorare per farli venire alla luce. Ma, adesso, in questo caso specifico, ora che mi trovo senza fatti da raccontare, neanche un episodio minore, cosa posso fare? È giusto che un cronista arrivi a porsi questa domanda?». Ricorda le parole che il suo professore ripeteva come un aforisma da mettere all’occhiello: «La cronaca non deve essere lasciata a se stessa. Il cronista che non ha una visione più ampia della realtà resterà per tutta la vita un giornalista di nera. La cronaca lasciata a se stessa non può che diventare cronaca nera». Ci teneva a specificare che la cronaca nera è il farsi genere di una depressione collettiva. “Va bene. Ma allora che cosa racconta un cronista, se non succede nulla, come in questo caldo giorno d’estate, quando tutto rallenta, quando tutti osservano i cerchi che il mare fa in superficie, quando sulla spiaggia il sole riduce al minimo le ombre e non resta altro che fermarsi a osservare le immersioni solitarie di una ragazzina? Ecco! Quella ragazza!”. Questo potrebbe essere un ottimo spunto. Si alza dalla scrivania, si avvicina a delle vecchie enciclopedie impolverate che servono ai colleghi per consultazione. Cerca una parola. Si sofferma a visionare la scheda interna in carta lucida che illustra le ossa del corpo umano. Riconosce nelle vertebre superiori della spina dorsale, quelle più prossime alla nuca, il reperto che la ragazza ha pescato in mare. È proprio come lei pensava. Si siede di nuovo alla sua scrivania e inizia immediatamente a scrivere al computer: «La vertebra del mistero». Poi cancella e scrive: «La ragazza della vertebra». “Orribile!”. Cancella ancora. Pensando allo scomparire dei fatti, al tempo lento che sprofonda in un gorgo insieme all’immersione di una ragazza prodigio, scrive: «La vertebra di Miseno». È convinta, addirittura eccitata, da questo titolo. Così inizia a raccontare l’irruzione del fantastico nel quotidiano:

 

«Nella periferia occidentale, quando il tempo si ferma, ritornano a galla i demoni meridiani. Così è successo questa mattina, intorno alle 12.00. Una ragazza ha disegnato dei cerchi sull’acqua, come la danza di una sirena, e poi è scesa a fondo per raccogliere il frutto insolito del mistero, è scesa nelle profondità del canale per portarci un indizio, una vertebra. Il fantasma di Miseno chiede di essere pacificato».

 

[Immagine: Foto di Hiroshi Sugimoto].

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