di Federica Gregoratto

 

Si è fatto ultimamente un gran parlare dell’imporsi della serie televisiva come nuovo genere letterario e artistico, e sul suo impatto e significato nelle nostre vite.[1]  Accesi dibattiti intorno alla TV come nuova letteratura, e in particolare i confronti con il romanzo ottocentesco non mancano. Alcune “saghe” contemporanee – si pensi alla quadrilogia napoletana di Elena Ferrante – o racconti più datati tornati sfortunatamente in auge nella congiuntura politica attuale – per esempio The Handmaid’s Tale  – sono stati recentemente adattati in serie televisive di alta qualità. L’elaborazione di contenuti di critica sociale e politica, che spesso scorrono pericolosamente sul confine tra fiction e realtà,[2] è così raffinata che viene sempre più frequentemente usata come materiale di riflessione nei corsi universitari. Non solo la teoria della cultura, l’estetica o i cosiddetti television studies, ma anche la filosofia si sta buttando a pesce su questo fenomeno, sedotta da elementi narrativi che esibiscono una ricchezza di particolari, complessità e arco di sviluppo di gran lunga più ampi e sfaccettati di quelli riscontrabili in ambito cinematografico e forse perfino letterario.

 

In tutto questo, Game of Thrones (GOT), la serie televisiva HBO creata da David Benioff e D.B. Weiss a partire dai libri di George R.R. Martin, occupa un posto in prima fila. Pensiamo agli innumerevoli premi vinti, i record stabiliti (per esempio, la “Battaglia di Winterfell”, E3S8, è la battaglia più lunga mai messa su film), al numero esorbitante di attori e attrici impiegati, all’audience stellare, e alla proliferazione di cosiddette “fan theories,” volte a spiegare i misteri e punti ciechi di un’architettura narrativa troppo ampia e complessa per essere completamente “esaurita” in canali ufficiali. Polemiche furibonde su questioni morali fondamentali – per esempio, sulla giustificabilità e opportunità di scene sessuali non convenzionali e violenza oltremodo brutale – hanno caratterizzato fin da subito la recezione di GOT, contribuendo alla creazione di un fenomeno culturale imprescindibile se si vuole capire il tempo che stiamo vivendo.

 

L’ottava e ultima stagione si è appena conclusa segnando l’apoteosi di questo fenomeno, e quindi anche dell’urgenza di cimentarsi nella sua comprensione. La marea crescente di emozioni che l’ha accompagnata è un magma esplosivo che va dall’esaltazione all’indignazione e alla rabbia, dalla speranza alla delusione cogente. Sono gli affetti negativi però a prevalere. Per dare un’idea: una petizione online che richiede la riscrittura di questi ultimi sei episodi ha ricevuto in poco tempo più di un milione di firme. Facilitati dal tipo di comunicazione drammatica e immediata propria dei social network, i numerosi fan non fanno niente per celare la loro sofferenza emotiva, il loro lutto di fronte alla fine di un’immersione seriale lunga e coinvolgente. Ma, secondo me, c’è dell’altro. Il sentimento prevalente è quello di essere stati intimamente traditi, defraudati di una catarsi che ci spettava di diritto, di esserci visti ingiustamente negare il soddisfacimento di qualche desiderio profondo  – vendetta, rivalsa, trionfo della giustizia, godimento estetico, ecc. Alcuni sono convinti che, fossero stati loro al posto di Mr. Benioff e Mr. Weiss, avrebbero potuto fare di meglio, in termini di sceneggiatura, tratteggio dell’arco dei personaggi principali, realismo, logica ma anche effetto sorpresa. Sembra profilarsi qui qualcosa di simile a quelle manifestazioni collettive di rabbia e frustrazione agite dai cittadini e cittadine occidentali che si sentono schiacciati, ignorati o non adeguatamente compresi dalle élite e dal potere. Certamente bisogna distinguere a livello di ragioni ed espressioni tra le reazioni del popolo greco in seguito all’inutile referendum contro l’austerity, il vaffanculo delle italiane e italiani contro le classi dirigenti del centro-destra e del centro-sinistra, il sollevamento repubblicano, nazionalista e/o anarchico dei catalani, le proteste ancora in corso dei gilet gialli in Francia, ecc., e forse il paragone qui è un po’ tirato. Il malumore causato dagli ultimi sviluppi di GOT mi sembra però occupare un livello ancora più generale, al di là di divisioni geografiche, di classe, di genere, di orientamento politico.

 

In questo pezzo non è mia intenzione cimentarmi in una lettura direttamente populista della serie, né osare una sua interpretazione dal punto di vista storico-sociale e psicologico, magari in relazione alle forme classiche di espressione ed elaborazione collettiva di desideri, speranze e rifiuti (il teatro greco, o l’opera). Più modestamente, vorrei soffermarmi su quelli che secondo me sono i nodi principali che hanno alimentato e alimentano il discontento generale, cercando di difendere le scelte concettuali degli sceneggiatori (non mi pronuncerò invece su questioni stilistiche ed estetiche). In particolare, vorrei arrivare a mostrare il senso del finale di GOT, che rimanda a precise prese di posizione teoriche e filosofiche (anche se non immediatamente politiche); in più, vorrei accennare alla sua dimensione squisitamente riflessiva, che riguarda le modalità e il significato del rapporto esistente oggi tra spettatori e serie TV.

 

In quanto segue, non posso procedere ad un riassunto delle stagioni precedenti o degli ultimi episodi incriminati.[3] Come premessa a quello che voglio dire qui di seguito, è opportuno però chiarire quale, secondo me, il tema portante di GOT: niente di meno, io direi, che la “natura” stessa della politica. Di questioni in ballo ce ne sono naturalmente altre; in molti hanno per esempio visto nella lotta contro il Re della Notte e gli Estranei un’allegoria con la lotta contro il cambiamento climatico. Il mio punto di partenza, però, è che l’intera serie si articola intorno a domande del tipo: Che cosa significa agire politicamente, e a quali condizioni può svilupparsi una vera e propria agency politica? Quale concezione di potere si dimostra la più convincente? (Potere come violenza? Come influenza e controllo? Il potere di dare ragioni? Azione collettiva?) Su quali basi si fonda il potere politico? (Sul terrore e la paura? Su un qualche tipo di legittimazione? Sul carisma e l’adorazione? Sulla tradizione e il “destino”? Sulle proprietà e ricchezze materiali?). Il setting che mescola fantasy e storia è tale da riuscire a presentare questo tema nel modo più speculativo possibile, aprendo spazi di discussione e non fornendo risposte immediate e scontate. Infine, però, alcune linee-guida per rispondere a tali questioni sono state in effetti tratteggiate. Le risposte si possono raggruppare intorno a tre nuclei portanti, che indicano anche i tre motivi principali di delusione e incomprensione da parte dei fan.

Antieroismo radicale e sapere del falso

 

Uno dei caratteri peculiari e più noti di GOT è la sua spietatezza nei confronti degli attachment affettivi sviluppati nei confronti dei personaggi: George R.R. Martin e sceneggiatori sono famosi per averci ammazzato senza pietà diversi dei personaggi cui eravamo più legati. Ebbene, alcuni si sono lamentati che, nell’ultima stagione, questa mancanza di compassione è venuta ad affievolirsi, tradendo uno dei motivi di distinzione della serie: molti, troppi personaggi principali sono sopravvissuti (troppo) a lungo, e alcuni sono finiti meglio di quanto sperato. Il motivo principale di irritazione consiste però nel fatto che gente come Tyrion, Brienne, Jon, Arya, nel sopravvivere, sono arrivati a cadere da un piedistallo, oppure che gente come Jaime e Daenerys sono morti da anti-eroi. Tyrion, da quando ha deciso di dismettere il ruolo a cui il suo fisico lo aveva condannato e assurgere a saggio statista non ha fatto altro che commettere errori goffi e maldestri, perdendo gradualmente la fiducia di tutti e anche, mi pare, la simpatia del pubblico. Brienne è la donna forte e combattente che infine soccombe miseramente al richiamo di un romanticismo da soap opera.[4] Jon poteva diventare l’eroe per eccellenza. Novello Messia che risorge dai morti, combatte per onore e per dovere, mette gli interessi della collettività davanti ai suoi. Nell’ultima stagione, tuttavia, fa la parte del rammollito, e la decisione/non-decisione di uccidere la fidanzata non convince, o fa (giustamente) arrabbiare. Arya invece è forse colei che più si avvicina all’ideale dell’eroina femminista: non solo per quanto è in grado di imparare, ma anche perché, giovanissima, rifiuta una concezione tradizionale di femminilità ma non rinuncia alla libertà sessuale. Nelle scene conclusive, dopo aver mostrato tutta la sua impotenza di fronte al fuoco del drago, si accinge a salpare verso ovest, cioè verso le Americhe, annunciando ahimè un futuro meno nobile da colonizzatrice. La fine di Jaime Lannister, poi, non è quella sperata: la sua spettacolare traiettoria di crescita personale e morale fallisce in maniera altrettanto spettacolare, e il biondo cavaliere ricade con un tonfo nei vecchi perversi schemi. E poi, naturalmente, c’è Daenerys: sopravvissuta a violenze domestiche, paladina degli oppressi, spezza le catene degli schiavi, per un po’ si dimostra un’astuta e ponderata statista, pian piano viene fuori la sua anima imperialista, orientalista, il suo complesso di “liberatrice” bianca, per poi fare la fine della pazza fanatica. Ora non voglio addentrarmi nell’interessante dibattito intorno alla plausibilità o meno dell’arco narrativo e psicologico di Dany, e se questo arco sia espressione del sessismo degli sceneggiatori (come sostenuto per esempio da Žižek) o di una condanna tout court dell’irrazionalità monarchica, come sostenuto in questa interessante lettura della penultima puntata. Vorrei invece proporre che GOT ci sta suggerendo qui di riflettere criticamente proprio sulla nostra relazione con questi personaggi eroici o dalle potenzialità eroiche: perché ne abbiamo bisogno? Perché ancora ci consola e ci elettrizza il pensiero che possa esistere una persona in grado di guidarci, di liberarci, di segnalarci come distinguere il bene dal male e la giustizia dall’ingiustizia, che incarni una forma di invulnerabilità che noi non abbiamo ma che crediamo di dover e voler avere? Perché abbiamo bisogno di queste fantasie di sovranità, invincibilità e potenza? GOT ci invita non solo a rinunciare a questa delega di responsabilità, ma anche a diffidare di coloro che pretendono di essere invulnerabili, e che credono di sapere con certezza che cosa sia la giustizia, e come deve essere fatto un mondo migliore. Questo il primo punto che avvicina GOT al “negativismo” proprio della filosofia di Theodor W. Adorno:[5] Da dentro lo stato “falso” (sicuramente il mondo di ingiustizie, soprusi, violenze di GOT, ma anche il nostro), direbbe Adorno, non possiamo sperare nella visione di una vita migliore.[6] Questo il senso dell’ultimo, tragico (e un po’ patetico) dialogo tra Dany e il suo assassino, ma anche del vecchio refrain di Ygritte su Jon: “Tu non sai niente, Jon Snow.” Una cosa, in effetti, Jon può però sperare di saperla, o meglio di intuirla: seguendo ancora Adorno, si può in effetti avere una cognizione del male (il fanatismo incendiario di Dany, la furia distruttiva e, questa sì, puramente irrazionale del Re della Notte, e in passaggi precedenti, il sadismo di un Joffrey o di un Ramsay) – ma è appunto anche questo solo un tentativo. Il dubbio di aver fatto la cosa giusta tormenterà Jon fino alla fine dei suoi giorni (e un po’ sinceramente me lo auguro). Ma imparare a convivere con questi dubbi ci può salvare dal dogmatismo e dalle certezze assolute, illusorie e pericolose.

(Im)perfezionismo e storia

 

Un altro motivo di grande insoddisfazione riguarda il pasticcio dell’elezione del nuovo re e della nuova classe dirigente dei Sette, o Sei Regni. Come diavolo siamo arrivati esattamente a Bran, e alla banda di disgraziati o inesperti (un ex-pirata e contrabbandiere che ha da poco imparato a leggere e scrivere, un ex-scagnozzo, un intellettuale sovrappeso che nessuno prende sul serio, e, si salvi chi può!, una donna) che sono i suoi consiglieri? Come ha fatto Tyrion, ormai delegittimato a livello politico, a portare tutti dalla sua parte? Narrativamente, le cose potevano essere in effetti spiegate meglio. Ma dal punto di vista concettuale questo risultato appare plausibile, ed è collegato a quello che dicevo nel punto precedente: Se non è desiderabile avere dei leader arroganti, sicuri di sé, da amare, adorare e seguire ciecamente, allora di che leader abbiamo bisogno? Ma proprio di gente moralmente imperfetta e conscia di esserlo, ubriaconi (Tyrion era quello che “io bevo e so le cose”, per poi dimostrare più e più volte che, in realtà, come Jon, anche lui ne sapeva ben poco), gente che non ha conosciuto molti privilegi se non quello della sopravvivenza, intellettuali con una spiccata autoironia, donne abbastanza forti e anticonformiste da permettersi di rincorrere in accappatoio un amante irresponsabile. Insomma, abbiamo bisogno – e questo il secondo tratto “negativista” del nostro finale – di una classe dirigente da criticare. E Bran cosiddetto “the Broken”? In tanti, e non solo durante questa stagione, si sono fatti beffe di lui, in memes più o meno divertenti: Bran che guarda il porno, Bran che non muove un dito eppure viene premiato alla grande. Questo imbarazzo con Bran potrebbe essere naturalmente spiegato a partire dalla difficoltà nel confrontarsi con una identità sessuale non convenzionale – un’identità, in questo caso, che problematizza rappresentazioni comuni di mascolinità, virilità, abilità corporea e potenza sessuale (come fa notare Sansa, per esempio, Bran non può avere figli). Più utile di questa tendenza a ragionare nei termini di dominio identitario – come e fino a che punto possiamo accusare GOT, e i suoi fan, di essere sessisti, razzisti, imperialisti, ableist, ecc.? – trovo invece utile ricordare, dopo quello adorniano, il motivo benjaminiano di questo finale. Bran mi ha infatti fatto pensare soprattutto ad un famoso passaggio di Walter Benjamin, in cui si sofferma a ragionare sull’angelo raffigurato nel quadro di Klee Angelus Novus,

 

un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. … L’angelo della storia … ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta.[7]

 

Non certo una visione del progresso o del processo di emancipazione di cui saremmo assettati in questi tempi di rigurgiti fascisti. Ma anche qui GOT ci sta forse invitando a prendere atto dei nostri limiti: invece di credere di sapere come fare a “ricomporre l’infranto” (cosa che ci riporterebbe magari vicino al Re della Notte che, in effetti, era in grado di “destare i morti”), cominciamo a riconnetterci alle nostre memorie storiche.

Trasformazione e rivoluzione

 

Qui sopra, ho detto che il tema complessivo di GOT riguarda niente meno che la questione del politico. Nell’ultima stagione e soprattutto nel finale, la questione si concentra più specificamente sulla natura e possibilità della trasformazione politica. L’unico vero sogno di Daenerys era, infatti, quello di “rompere la ruota”, cambiare radicalmente il sistema, stabilire un nuovo ordine politico mondiale. Ma anche qui GOT ci invita alla cautela: la trasformazione non può avvenire di colpo, con un “evento” straordinario (simboleggiato dal potere sovranaturale del drago), e in forza di una visione del giusto e del bene da imporre sull’intero mondo conosciuto a qualunque costo. Ma come allora? La risposta suggerita dal finale delude ed esaspera, comprensibilmente, coloro che genuinamente non possono tollerare le ingiustizie e brutture del presente. Ma possiamo fare altrimenti? I processi emancipativi vanno a rilento, con passi avanti e passi indietro. Il progresso, anche se vogliamo immaginarlo in un modo un po’ più positivo del cumulo di macerie benjaminiano, non può essere garantito, i cambiamenti strutturali si intrecciano a e dipendono da questioni politiche locali spesso triviali. Secondo Žižek, il finale rifletterebbe una paura (ma da parte di chi? Degli sceneggiatori? Di Martin? Dell’establishment televisivo?) nei confronti della prospettiva rivoluzionaria. Gli argomenti di Žižek sono maldestri, e  purtroppo significativi di come il dogmatismo politico, anche a sinistra, provi sempre a strumentalizzare e distorcere autentiche preoccupazioni femministe o post-coloniali. Tuttavia in un qualche modo riesce a cogliere nel segno: il finale di questa serie contiene effettivamente una presa di posizione contro una certa idea – assolutista, totalitaria, dogmatica – di rivoluzione. Il nuovo ordine di Re Brian & C. è nuovo, sì, nel senso che non è più basato su una concezione del potere politico come derivante dal privilegio, dalla tradizione, dall’eredità materiale e simbolica. Il trono di spade è stato in effetti distrutto. Ma non c’è assoluta discontinuità e rottura, non ci può essere. Probabilmente, il nuovo ordine si trasformerà in una replica del vecchio, o, più probabilmente, metterà capo a nuove strutture di potere e egemonia. Non si può sapere che cosa ne sarà, perché l’ “ordine che verrà” è ancora da farsi, e rimane aperto radicalmente in un modo che nessuna concezione del buono e del giusto rivoluzionario può imbrigliare. A giudicare dalla rabbia di molti fan di sinistra di fronte a questa conclusione – emozione  che Žižek prova appunto a giustificare – il compito di secolarizzare la politica e di venire a patti con la contingenza da una prospettiva di sinistra non si è ancora concluso. Di sicuro, il nuovo ordine apertosi nell’ultimo episodio di GOT non è democratico, e non esprime nessun tipo di ottimismo democratico, come invece erroneamente sostenuto in questo articolo. Secondo Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, impegnarsi in un processo di democrazia radicale significa del resto riconoscere l’impossibilità della democrazia.[8] A questa formulazione un po’ troppo drammatica, io preferirei un approccio più “leggero”, a la John Dewey: la rottura delle ruote che di volta in volta ci fanno correre, e una trasformazione in meglio, magari verso un ordine socio-politico democratico che, in GOT ma anche dalle nostre parti, ancora rimane da farsi, è possibile, a patto di riuscire a coltivare virtù politiche come il fallibilismo, l’autoironia, la capacità di guardare in faccia e accettare la nostra vulnerabilità, e di imparare qualcosa dalla frustrazione dei nostri molti desideri.

 

In questo pezzo, mi sono confrontata con i motivi che hanno fatto arrabbiare la maggioranza dei fan, cercando di ricavarne delle tesi più generali, o più che tesi, delle questioni che rimangono inevitabilmente aperte: Possiamo davvero rinunciare all’idea di un “leader” capace di guidarci, e che tipo di leader dobbiamo desiderare? Che cosa si può sapere circa la direzione da intraprendere, se animati dal desiderio e dalla speranza di superare ingiustizie e oppressioni? Come avviene esattamente il cambiamento? Nel proporci queste domande, GOT ha deluso e frustrato aspettative, desideri e richieste psicologicamente e politicamente comprensibili. L’analisi delle ragioni alla base di tale discontento, io credo, ci conduce ad apprezzare GOT ad un meta-livello: Non provvedendo alla soddisfazione di certi desideri che naturalmente si formano nella relazione tra il pubblico e un prodotto televisivo di questo tipo (dall’epos grandioso, che affronta questioni umani basilari, con un investimento senza precedenti in ampiezza, profondità e varietà di caratteri, ambientazioni e storie), GOT ci induce a farci delle serie domande non solo sulla natura stessa di questi desideri, ma anche sulla nostra relazione con il medium televisivo seriale.

 

Note

[1]La letteratura su questo fenomeno si sta moltiplicando a ritmo costante, ma si veda per es. Jason Mittell, Complex TV. The Poetics of Contemporary Television Storytelling. New York/London: New York University Press.

[2]Si pensi per esempio a Master of None, una serie che indaga con sensibilità problemi e dilemmi legati al sessismo e al razzismo, e come si manifestano nei rapporti di amicizia e amore; purtroppo,il suo creatore e protagonista, Aziz Ansari, è stato coinvolto in una brutta polemica nelle fasi più calde del #MeToo che sembra tratta direttamente dal suo show.

[3]Per una ricca e variegata serie di riflessioni filosofiche su GOP, si veda per esempio il bel volume Eric J. Silverman and Robert Arp (a cura). The Ultimate Game of Thrones and Philosophy. You think or You Die.Chicago: Open Court 2017.

[4]Purtroppo, molti hanno visto nell’ultima scena di Brienne, impegnata a scrivere la parte finale della biografia di Jaime, un elemento di subordinazionedella Cavaliera nei confronti dell’amato che l’ha sedotta e abbandonata. Non sono d’accordo: Nel cercare di riabilitare, anche se con alcune ambiguità, la carriera di un uomo che per lei rimane oggettivamente valoroso, Brienne dimostra tutta la sua superiorità. In una mossa quasi nietzschiana, Brienne non permette alla sua afflizione personale di trasformarsi in ressentiment, il suo gesto di riconoscimento ma anche perdono e grazia rivela il suo potere, e non certo la sua inferiorità.

[5]Per questa interpretazione di Adorno, si vedaFabian Freyenhagen, Adorno’s Practical Philosophy. Living Less Wrongly. Cambridge: Cambridge University Press 2013.

[6]Thedor W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa(1951). Torino: Einaudi 1994.

[7]Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti(1955), Torino: Einaudi 1995, p. 80.

[8]Chantal Mouffe e Ernesto Laclau, “Hope, Passion, Politics” In Hope: New Philosophies for Change, a cura diM. Zournazi.New York: Routledge 2002.

4 thoughts on “Il “negativismo” di Game of Thrones. Antieroine, angeli della storia e ruote (forse) spezzate

  1. La frustrazione delle aspettative potrebbe essere voluta: di fatto molti particolari hanno spiazzato e hanno fatto parlare, l’insoddisfazione fa parlare. Finale non scontato. Quanto hanno contato i meccanismi dell’industria culturale e i tempi imposti-forzati?

  2. direi che la frustrazione non è politica, ma narratologica…Propp non gioca a dadi!

  3. Bell’articolo. A me il finale è piaciuto, ma vorrei sottoporre al vostro esame una mia interpretazione.
    Il Concilio Ristretto non è soltanto (cito) una “banda di disgraziati o inesperti” da poter criticare, come se l’obiettivo di Martin o della HBO fosse spiegare al pubblico che tipo di politici desiderare.
    Io credo che l’obbiettivo di un romanziere e di uno staff di sceneggiatori tv sia offrire al pubblico dei personaggi con cui potersi “identificare” (se stessi e gli amici), al di là degli idoli da ammirare con invidia. Mi spiego meglio. Nessuno nel pubblico è onesto come Ned, bello come Renly, elegante come Loras, retto come Stannis, forte come Jaime, ricco come Tywin, ossessionato dalla famiglia come Cat, dotata di draghi come Dany, risorto come Jon. Sono personaggi che possiamo ammirare da lontano ma nessuno di noi si sente minimamente paragonabile a quelli. Che però hanno un tratto in comune: sono morti.
    Perché, come è noto, Martin ammazza i personaggi amati dal pubblico.
    Poi ci sono questi SEI. uno storpio, un nano deforme, un analfabeta, una bullizzata, uno picchiato dalla mamma, uno minacciato di morte dal padre perché grasso ed effemminato. Nota bene, cinque di questi sei sono lettori ossessivi, il che agevola il processo di identificazione dei “lettori” (è più facile identificarsi in Sam che legge ovunque, piuttosto che in Jaime che non ha mai un libro in mano). Persino Brienne scrive la biografia dello Sterminatore (urca! Una donna che scrive!). Meccanismo ben noto nel fantasy, perché Bilbo, Frodo, Samwise sono scrittori accaniti, e anche Belle e Rapunzel della Disney.
    Nora bene, questi sei sono presenti dal primo libro. Bran addirittura dal primo capitolo. Tyrion gli costruisce la sella che lo fa tornare “tra i vivi”, loro due sono in sintonia dal 1997. Stannis muore ma Davos vive, Renly muore ma Brienne vive, cosa significa, che non serve nascere nobilissimi o ricchissimi (come nessuno, nel pubblico) serve solo fare il proprio quotidiano con serietà e la dovuta calma.
    Quindi mi domanderei: Martin aveva pensato questo finale fin dall’inizio? E risponderei: si.
    Che rivoluzione sarebbe?
    L’unica che il pubblico americano capisce: la monarchia elettiva, come dopo la rivoluzione del 1776 che non a caso lasciò in sospeso la questione dello schiavismo (esattamente come Dany non riesce a risolvere la dialettica tra servi e padroni, con gli strumenti sociali ed intellettuali disponibili intorno al 1483).
    Mi sbaglio di molto? Il vostro articolo mi è piaciuto talmente tanto che ho lasciato un commento, cosa che non faccio mai.
    Michele.
    Post scriptum. ll fatto che Arya dica che salpa verso Ovest non significa che darà inizio a un colonialismo. Primo, perché da Avalon a San Brandano a Madoc, la storia delle isole britanniche è piena di persone che viaggiano verso ovest senza colonizzare nulla. Secondo, perché “occidente” e “tramonto” significano anche Morte (come nel Lotr salpano per i Porti Grigi); Terzo, perché a ovest di Westeros non c’è l’America ma Narnia assieme alla Terra di Mezzo lo sanno tutti :)

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